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Γυῖα 108 , infatti, indica subito dopo che le membra di Alcmane, ormai provate dalla vecchiaia, non possono più sorreggerlo.

φέρην δύναται

109 è l’espressione che richiama alla mente il lamento di

Nestore (Iliade XXIII) per le membra logorate dall’età, che non sono più in grado di reggere la fatica, cosicché egli non può partecipare alle gare indette da Achille per il funerale di Patroclo (627-629):

οὐ γὰρ ἔτ’ ἔμπεδα γυῖα, φίλος, πόδες, οὐδὲ τι χεῖρες ὤμων ἀμφοτέρωθεν ἐπαΐσσονται ἐλαφραί.

εἴθ’ ὣς ἡβώοιμι βίη τέ μοι ἔμπεδος εἴη.

“Le membra, amico, le gambe, non sono più salde, e le braccia non balzan più agili di qua e di là dalle spalle.

Oh, se avessi ancora giovane e salda la forza”.

Dopo la dichiarazione di debolezza fisica, Alcmane esprime il desiderio di essere un cèrilo, che vola con le alcioni sopra le onde.

βάλε

è l’imperativo cui il poeta ricorre per esprimere il desiderio di mutarsi in un cèrilo. Questo verbo, tra l’altro ripetuto due volte per creare maggiore enfasi (iterazione), accompagnato dall’ottativo (εἴην) assume valore desiderativo, in modo analogo a εἴθε e a utinam110. Difficile è stabilire con certezza quali connotazioni vi siano nel desiderio del poeta di divenire un cèrilo, tanto che sono state avanzate diverse interpretazioni di questa immagine. Ogni tentativo di spiegazione che è stato fatto nel corso tempo si riallaccia alle parole usate da Antigono di Caristo per introdurre il frammento di Alcmane:

108 Questo termine, sempre usato al plurale, come spiega Calame, 1983, p. 476, indica in Omero le varie parti del corpo ma, in casi più specifici, può indicare le gambe o le ginocchia, come in Iliade III, 34; IV, 469; VII, 6.

109 Φήρεν è la forma dell’infinito dorico (=φέρειν).

110 Chantraine, 1968, p. 160.Secondo De Martino-Vox, 1996, p. 183, βάλε è la forma semplificata di ἀβάλε, che ricorre nel fr. alcmaneo 173C=111D: ἀβάλε καὶ νοέοντα.

τῶν δὲ ἀλκυόνων οἱ ἄρσενες κηρύλοι καλοῦνται. ὅταν οὖν ὑπὸ τοῦ γήρως ἀσθενήσωσιν καὶ μηκέτι δύνωνται πέτεσθαι, φέρουσιν αὐτοὺς αἱ θήλειαι ἐπὶ τῶν πτερῶν λαβοῦσαι. καὶ ἔστι τὸ ὑπὸ τοῦ Ἀλκμᾶνος λεγόμενον τούτῳ συνῳκειωμένον· φησὶν γὰρ ἀσθενὴς ὤν διὰ τὸ γῆρας καὶ τοῖς χοροῖς οὐ δυνάμενος συμπεριφέρεσθαι111 οὐδὲ τῇ τῶν παρθένων ὀρχήσει112.

“I maschi degli alcioni sono chiamati cèrili. Quando sono indeboliti dalla vecchiaia e non riescono più a volare, si dice che le femmine li portino sulle loro ali. E a ciò bene si accorda quanto dice Alcmane. Dice infatti che, debole per la vecchiaia, e non potendo avere dimestichezza con i cori e con la danza delle fanciulle” [segue fr. 90C].

Antigono precisa che il vecchio poeta non può più partecipare sia ai cori (τοῖς χοροῖς) che alla danza (τῇ ὀρχήσει), cosa che indica un’impossibilità non solo nei movimenti orchestrici, ma anche nell’intonare i canti.

Che la vecchiaia comportasse un decadimento della voce può essere dimostrato anche dal mito di Titono, narrato nell’Inno V (ad Afrodite, 218-238): l’Aurora, innamoratasi del mortale Titono, chiese e ottenne da Zeus che egli diventasse immortale, ma dimenticò di chiedere per lui anche la giovinezza, tenendo così lontana la rovinosa vecchiaia. Ai versi 233-238 si allude all’indebolimento che l’illimitata vecchiaia apportò alla sua voce:

ἀλλ’ ὅτε δὴ πάμπαν στυγερὸν κατὰ γῆρας ἔπειγεν οὐδέ τι κινῆσαι μελέων δύνατ’ οὐδ’ ἀναεῖραι, ἥδη δέ οἱ κατὰ θυμὸν ἀρίστη φαίνετο βουλή·

111 Il significato letterale del verbo συμπεριφέρεσθαι è “ruotare insieme”. Questo primo significato ha indetto Giannini, 1965, p. 45, a tradurre con il corrispettivo verbo latino cirucumago. Secondo questa lettura, Antigono farebbe riferimento ad un verbo tecnico della danza, ovvero al “roteare degli schemi orchestrici” insieme ai cori e alle danze. Dorandi, 1999, p. 40, partendo dalla constatazione che περιφέρεσθαι è attestato specificamente in contesti astronomici e mai in riferimento alle danze e ai cori, preferisce intendere il significato del verbo in senso più ampio: “avere relazioni con”, “avere dimestichezza con”.

ἐν θαλάμῳ κατέθηκε, θύρας δ’ ἐπέθηκε φαεινάς. τοῦ δ’ ἤτοι φωνὴ ῥεῖ ἄσπετος, οὐδ’ ἔτι κῖκυς ἔσθ’ οἵη πάρος ἔσκεν ἐνὶ γναμπτοῖσι μέλεσσιν.

“Ma quando lo schiacciò del tutto l’odiosa vecchiaia e non poté muovere né sollevare le membra,

questa decisione a lei apparve nel cuore:

lo depose nel talamo e vi appose le porte splendenti. Senza fine scorre la voce di costui,e il vigore non è più quello che prima era solito esservi nelle agili membra”113.

Ἐπὶ κύματος ἄνθος

...

ποτήται

è l’espressione con cui Alcmane descrive il

cèrilo che vola sul mare. Si tratta di una metafora dalle radici omeriche114.

νηλεὲς ἦτορ ἔχων

è un’altra espressione di ascendenza omerica. Si tratta di

113 La flebile voce che in questi versi si associa a Titono può essere messa in parallelo con la condizione del poeta descritta da Antigono, che ha dato adito a diverse interpretazioni. Per alcuni studiosi (Gentili-Perrotta, 1948, p. 292; Marzullo, 1965, p. 44) Alcmane vuole semplicemente esprimere la propria nostalgia per la giovinezza perduta; Bowra, 1961 (1973, pp. 34-35), invece, afferma che il frammento di Alcmane è stato sicuramente scritto per una situazione reale, per cui è possibile pensare che le fanciulle che formavano il coro indossassero vesti che riproducevano le sembianze di alcioni, ed è per questo che Alcmane non può unirsi alla danza ed esprime il suo rammarico in modo simbolico (danze a imitazione di uccelli erano comuni in Grecia, come dimostra Lawler, 1942, pp. 351-362. Gentili-Catenacci, 2007, p. 248 credono che nell’immagine del cèrilo vi sia, oltre al desiderio del poeta di non soffrire, una forte tensione verso il sacro, garanzia di vita eterna: i poeti antichi, infatti, erano affascinati da alcuni animali, specialmente se dotati di ali (fra i molti esempi si vedano l’Inno IV, (ad Hermes, 552).; Pindaro, Pitica IV, 60; Pindaro, Pitica X, 54; e le cicale descritte da Socrate nel Fedro di Platone (259a-d) non solo per la loro capacità di volare, ma anche per il loro canto. Essi godono di una certa familiarità con le Muse e con il divino e garantiscono l’eternità attraverso il loro canto (si ricordi che il concetto di ali come “mezzo di evasione” dalla vecchiaia è presente, senza però nessun riferimento ad animali, in Aristofane, Lisistrata, 666). Secondo questa interpretazione, dunque, Alcmane voleva esprimere il potere della poesia e il desiderio di travalicare i confini fisici dell’umano attraverso la sacralità e l’eternità del canto. A questo proposito, Huxley, 1964, pp. 26-28 pensa che il fr. 90C facesse parte di un testo composto da Alcmane in occasione delle Κολυμβῶσαι, un insieme di cerimonie in onore di Afrodite che comprendevano, tra l’altro, il κολυμβᾶν, ovvero il tuffarsi in acqua, che è all’origine del nome della festività. Le coreute-alcioni, dunque, sarebbero impegnate davvero in un tuffo, mentre Alcmane, per l’età, non può seguirle e se ne rammarica. Interpretazione completamente diversa è stata invece fornita da Pontani, 1950, p. 48, che ritiene che il volo del cèrilo esprima il desiderio di Alcmane, ormai anziano, di ritrovare la forza sessuale perduta.

114 Il termine ἄνθος equivale a ἄχνη e χνοῦς; ἁλὸς ἄχνην si trova in Iliade IV, 426; ἁλὸς χνόον si trova in Odissea VI, 226.

un nesso tipicamente epico per esprimere fermezza d’animo e risolutezza115, con la sola differenza che in Alcmane troviamo il termine ἦτορ, mentre in Omero abbiamo θυμός, in quanto, come spiega Snell116

, a partire da Tirteo ἦτορ designa la sede dei sentimenti e del coraggio.

ἁλιπόρφυρος ἱαρός

sono i due epiteti riferiti al cèrilo, che chiudono il

componimento. Il primo aggettivo è usato nell’Odissea (VI, 53 e 306; XIII,108) per caratterizzare lana e vestiti, mentre qui sembra dare una coloritura realistica all’immagine descritta, in quanto allude a particolari riflessi del piumaggio degli alcioni, di una tonalità che varia fra il bluastro e il verde pallido, le tipiche sfumature dell’acqua marina, stando a quanto spiega Aristotele117. L’altro aggettivo, ἱαρός, è probabilmente da mettere in relazione con la calma celeste che caratterizza il momento in cui, al solstizio d’inverno, gli aironi nidificano sul mare quando, secondo il mito, per volontà di Zeus, nessuna tempesta turba questo sacro momento118.

L’immagine del poeta-cèrilo che vola (ποτήται) insieme alle coreute-alcioni, le quali, come spiega Antigono, lo sostengono (φέρουσιν), indica chiaramente una stretta collaborazione fra il coro e il poeta. In virtù di questa cooperazione, il poeta può ricorrere al katakeleusmòs, ovvero all’esortazione del coro, oppure, come in questo caso specifico, ad un proemio-monodia, diretto ai componenti del coro, dei quali si sottolinea implicitamente il ruolo di primo piano nell’esecuzione poetica119. Non dobbiamo infatti dimenticare che la lirica corale era <<un’arte di collaborazione>>120.

115 In Iliade XIX, 229 l’espressione νηλέα θυμὸν ἔχοντες designa la fermezza d’animo dei soldati determinati a proseguire il combattimento fino alla morte. La stessa espressione si ritrova in Iliade IX, 496. Su questa associazione fiore-onda, Gentili-Catenacci, 2007, p. 249 avanzano l’ipotesi che vi sia all’origine il colore luminoso dell’acqua marina, in cui poteva crearsi l’immagine di un fiore.

116 Snell, 1969, pp. 10-15.

117 Aristotele, Historia Animalium, 616a, 15.

118 Scolio a Omero Iliade IX, 562 (I, p. 330-331, Dindorf). 119 Rodriguez Adrados, 1976 (2007, pp.137-141).

Fr. 149C=59bD

Il fr.149C=59bD è stato tramandato da Ateneo121 che, dopo aver citato il testo che costituisce il fr. 148C122, scrive: <<Alcmane dice anche di essersi smodatamente innamorato di Megalostrata, poetessa sì, ma capace di attrarre i suoi amanti con la conversazione; egli parla di lei in questo modo>> e cita subito dopo il testo che costituisce il fr. 149C:

τοῦτο ϝαδειᾶν ἔδειξε Μωσᾶν δῶρον μάκαιρα παρσένων ἁ ξανθὰ Μεγαλοστρά.

“Questo dono delle dolci Muse Lo insegnò, beata fra le fanciulle,

La bionda Megalostrata”.

Tuttavia, la mancanza nel testo di qualsiasi accenno erotico ha fatto dubitare dell’esistenza di questa donna, cosicché si è pensato che ella non fosse una poetessa, come apprendiamo da Ateneo, ma una corega elogiata dalle coreute123, in modo analogo a quanto avviene nei frammenti 3C e 26C analizzati nei precedenti capitoli.

Ἔδειξε

ha qui il significato di “spiegare”, “insegnare” già presente in

Omero124.

121 Ateneo, XIII, 600f.

122 Il fr. 148C=59aD descrive il dio Eros come dolce servitore di Afrodite, che agisce come un liquido, secondo un’immagine già presente in Iliade XIV, 315.Ateneo (XIII, 600f) scrive che, secondo Archita di Taranto, Alcmane introdusse i carmi erotici e fu il primo a rendere pubblico un carme licenzioso, perché era intemperante riguardo alle donne e a tale poesia.

123 De Martino-Vox, 1996, pp. 198-199.

ἁ ξανθὰ Μεγαλοστράτα

è il soggetto del verbo ἔδειξε. La bionda (ξανθά)125 Megalostrata, colei che ha ricevuto il dono delle Muse ispiratrici, si rivela un “nome parlante” al pari di Agesicora e di Astimelusa. Infatti, esso è formato dall’aggettivo μέγας e dal sostantivo στρατός, che ha il significato di λαός e δῆμος, a indicare l’insieme della comunità spartana per la quale Alcmane scrive i suoi componimenti e guida il coro126.

Τοῦτο

...

Μωσᾶν δῶρον

è il complemento oggetto del verbo ἔδειξε. Il

termine δῶρον è un sostantivo derivato dal verbo δίδωμι127

, e ha il significato specifico di “regalo” fatto ad una persona o di “offerta” alla divinità; la poesia omerica, ad esempio, fa uso di una particolare metafora dell’amore inteso come dono inviato dall’alto e per questo detto δῶρα Ἀφροδίτης. Infatti, nel libro III dell’Iliade, dopoché Paride è fuggito, spaventato a morte alla vista di Menelao, Ettore lo rimprovera aspramente per la sua vigliaccheria e gli dice (52-55):

οὐκ ἂν δὴ μείνειας ἀρηίφιλον Μενέλαον;

γνοίης χ’ οἵου φωτὸς ἔχεις θαλερὴν παράκοιτιν· οὐκ ἄν τοι χραίσμῃ κίθαρις τά τε δῶρ’ Ἀφροδίτης, ἥ τε κόμη τό τε εἶδος, ὅτ’ ἐν κονίῃσι μιγείης.

“Non affronterai Menelao caro ad Ares?

Almeno saprai di che uomo hai la sposa fiorente! E non ti salveranno la cetra e i doni di Afrodite,

la chioma o la bellezza, quando rotolerai nella polvere”.

Rispondendogli, Paride ricorda al fratello che gli dei elargiscono doni diversi a ciascuno degli uomini e che a lui sono stati dati quelli di Afrodite non per sua

125 L’aggettivo ξανθά definisce anche la capigliatura di Agesicora nel fr. 3C (101) e quella delle fanciulle del coro del fr. 26C (9).

126 Calame, 1983, p. 414. 127 Chantraine 1968, p. 279.

scelta, ma per volontà divina (64-66):

μή μοι δῶρ’ ἐρατὰ πρόφερε χρυσέης Ἀφροδίτης· οὔ τοι ἀπόβλητ’ ἐστὶ θεῶν ἐρικυδέα δῶρα, ὅσσα κεν αὐτοὶ δῶσιν, ἑκὼν δ’ οὐκ ἄν τις ἕλοιτο·

“Non rinfacciarmi gli amabili doni dell’aurea Afrodite: nemmeno per te sono spregevoli i doni gloriosi dei numi, quanti essi ne danno, nessuno può sceglierli!”.

Il Μωσᾶν δῶρον128 di cui parla Alcmane ha un parallelo in un famoso frammento di Archiloco (1W):

εἰμὶ δ’ ἐγὼ θεράπων μὲν Ἐνυαλίοιο ἄνακτος καὶ Μουσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος.

“Io sono il servitore del signore Enualio e conosco l’amabile dono delle Muse”.

con la sola differenza che il soggetto, che in Archiloco “conosce” (ἐπιστάμενος) e che in Alcmane “insegna” (ἔδειξε) il dono delle Muse, non è lo stesso: nel fr. 149C è Megalostrata, la corega, intermediaria fra la divinità e il poeta, mentre in Archiloco è il poeta stesso, consapevole di essere un esperto di quel patrimonio espressivo e tematico rappresentato dalla tradizione poetica, di cui le Muse sono custodi e dispensatrici.

La poesia viene definita “dono delle Muse” anche in Anacreonte (fr. 56G) che, parlando degli argomenti appropriati al clima sereno e rilassato del simposio,

128 Il Μωσᾶν δῶρον è quello che gli antichi definivano mousikè, ossia un insieme organico di poesia, musica e danza, come spiega Platone (Leggi, 796e). Per l’analisi del termine si veda Snell, 1979, pp. 376-380, il quale elenca le occorrenze presenti nell’epica e negli Inni del termine δῶρον nel significato di “offerta di pace”, “regalo di nozze”, “sacrificio di doni agli dei”, “regalo degli dei agli uomini”.

dice che gli è gradito chi parla d’amore:

Μουσέων τε καὶ ἀγλαὰ δῶρ’ Ἀφροδίτης Συμμίσγων.

“mescolando i doni splendidi delle Muse e di Afrodite”.

Anche Teognide fa uso di questa espressione, quando afferma di aver regalato all’amato Cirno fama immortale per mezzo della poesia destinata a perpetuare il suo nome, mantenendolo vivo anche al di là della morte (249-250):

σε πέμψει

ἀγλαὰ Μουσάων δῶρα ἰοστεφάνων.

“ti scorteranno i doni splendidi delle Muse coronate di viole”129.

μάκαιρα παρσένων

è l’espressione con cui è definita Megalostrata al v. 2.

L’aggettivo μάκαιρα indica propriamente una persona che gode del favore divino o che conduce persino un genere di vita analogo alla divinità130. È evidente che nel nostro caso tale aggettivo vuole sottolineare la condizione privilegiata di Megalostrata rispetto alle altre fanciulle del coro. Questa posizione particolare di Megalostrata consiste nel fatto che ella gode del favore delle Muse. Infatti, poiché la lirica corale era un’arte sociale, le fanciulle venivano addestrate da Alcmane anche al poetare, al comporre e a dare il loro contributo personale alle danze. Che dentro il componimento si parli della sua

129 Anche ai versi 1055-1058 Teognide parla del dono delle Muse: Ἀλλὰ λόγον μὲν τοῦτον ἐάσομεν, αὐτὰρ ἐμοὶ σὺ / αὔλει, καὶ Μουσῶν μνησόμεθ’ ἀμφότεροι· / αὗται γὰρ τάδ’ ἔδωκαν ἔχειν κεχαρισμένα δῶρα / σοὶ καὶ ἐμοί, μέλομεν δ’ ἀμφιπερικτίοισιν, “Tralasciamo questo discorso qui, ma per me tu suona il flauto, e delle Muse ricordiamoci entrambi. Questi doni aggraziati concessero di avere a te e a me. Stiamo a cuore ai confinanti”.

130 Chantraine, 1968, p. 659, ricorda che l’aggettivo μάκαρ è usato in Omero per designare eroi che godono del favore divino come l’Atride (Iliade III, 182; XI, 68).

creazione, spezzando l’ “illusione”, è caratteristico della lirica corale. In questo modo il canto può celebrare i suoi creatori ed esecutori; le fanciulle si complimentano con la corega e tra di loro, mentre Alcmane rende omaggio alla grazia e all’arte delle sue fanciulle131.

Fr. 82C=5D

Il fr. 82C=5D costituisce un altro esempio di testo in cui si aaccorciano le distanze fra la Musa e il poeta grazie alla figura del coro che funge da intermediario fra i due:

τὺ δ[.... ]λαιας ἄρχε ταῖς Δυμαῖ[ναις...] Τυνδαριδαιενα[ εσα[ ]εν αἰχμαι σιοφιλὲς χο[ρα]γέ Ἀγησίδαμε κλε[νν]ὲ Δαμοτιμίδα ἀγερώχως κἠρατὼς χο[ρα]γώς· αυτα γὰρ ἁμέων ἅλι[κ]ες νεανίαι φίλοι τ’ ἀγ[έ]νει[οι κ]ἀνύπανοι.

“Tu...inizia per le Dimainai

...iTindaridi...

in combattimento corego amato dagli dei,

Agesidamo splendido figlio di Damotimo.

131 Fränkel 1962 (1997, p. 250). Forse si può persino pensare che il canto non fosse interamente compiuto prima delle prove del coro e che Alcmane accettasse i suggerimenti di alcune coreute, di cui poi elogiava la bravura. In tal caso il Μωσᾶν δῶρον è qualcosa che si può raggiungere con l’intuizione e la sensibilità poetica e non attraverso la sola concessione divina (Lanata, 1956, p. 173).

 gloriosi e amabili coreghi;

infatti qui fra noi i fanciulli coetanei, compagni senza barba e senza baffi”.

Si tratta di un testo lacunoso, di difficile interpretazione e di incerta contestualizzazione, che ci è stato tramandato da un commento a più autori lirici (Alcmane, Alceo, Saffo e Stesicoro), restituito da un papiro databile alla prima metà del II sec. a.C132.

τύ

133

è il pronome personale con cui Alcmane si rivolge ad un corego di nome Agesidamo, figlio di un certo Damotimo.

Τυνδαριδαιενα[... εσα[ ]εν αἰχμαι

134: la presenza di questi due termini

fa pensare che Agesidamo avesse un rapporto particolare, che la frammentarietà del testo non permette di precisare, con i Dioscuri. Infatti, l’epiteto “Tindaridi” veniva comunemente usato per indicare i figli di Tindaro (Castore e Polluce), mentre il sostantivo αἰχμαι, usato qui con il significato metaforico di “battaglia”, con ogni probabilità fa riferimento ai vari combattimenti cui, secondo il mito, i Dioscuri presero parte, oppure si tratta di un’allusione alla danza in armi di cui essi sarebbero stati i fondatori, con la collaborazione di Atena135.

I Dioscuri sono divinità strettamente legate a Sparta136, come mostra L’Inno

XXXIII a loro dedicato, in cui si dice che nacquero presso il Taigeto, famoso

132 Page, 1963, p. 1.

133 Si tratta dell’unica occorrenza del pronome di II persona singolare nei frammenti alcmanei (Calame, 1983, p. 455). La forma τύ (=σύ) è tipica del dialetto dorico (Pavese, 1972, p. 81).

134 La maggior parte degli studiosi (tra cui Calame, 1983, p. 456) accetta la lezione αἰχμαῖ, anziché αἰχμαί.

135 Platone, Leggi, 796b.

136 Nel fr. 19C=7D Alcmane parla del sogno incantato dei Dioscuri nel santuario di Terapne presso Sparta. Secondo Pindaro (Pitica XI, 61-64) essi si trattengono un giorno a Terapne e l’altro presso Zeus sull’Olimpo.

monte spartano (4-5). La doppia regalità di Sparta, inoltre, era connessa ai due gemelli divini: essi venivano invocati mentre si marciava per andare in guerra e, se uno dei due re rimaneva in città, si diceva che così faceva anche uno dei Dioscuri, cosicché l’ordine delle cose rimaneva al sicuro nella sfera divina137. Anche se non è possibile stabilire la relazione fra Agesidamo e i Dioscuri, è interessante notare che il nome proprio del corego è formato da ἡγέομαι e δῆμος, cosa che ha fatto supporre che, al pari di Astimelusa, egli godesse di una posizione di prestigio all’interno del popolo spartano138. Anche il nome di suo padre, Δαμοτιμίδα, contiene i sostantivi δῆμος e τιμή, avvalorando così l’ipotesi che sia lui che il figlio occupassero un posto d’onore nella società spartana139. Inoltre, la parentela semantica esistente fra il nome Ἀγησίδαμος e il re Ἀγησίλαος farebbe pensare che il corego menzionato da Alcmane appartenesse alla famiglia reale spartana140.

ταῖς Δυμαῖναις

indica che con ogni probabilità Agesidamo faceva parte della

tribù dei Dimani141.

137 Erodoto, Storie V, 75, 2. 138 Calame, 1983, p. 457.

139 Calame, 1977, II, pp. 141-142.

140 Calame, 1977, II, p. 142. Probabilmente i componenti dei cori alcmanei provenivano dalle migliori famiglie spartane e la loro corega (o il loro corego) veniva scelta perché maggiore d’età rispetto alle altre e già iniziata alla società adulta.

141 Grazie a Plutarco (Vita di Licurgo VI),conosciamo il testo oracolare (ῥήτρα) che fissava i fondamenti della costituzione spartana e che ci informa che in origine la divisione dei Lacedemoni era in tre tribù (φυλή), a cui si accompagnava la divisione in fratrie (φράτρα), nove per ciascuna tribù. Le tre tribù doriche erano quelle degli Illei, dei Dimani e dei Panfili. Secondo Calame, 1977, I, p. 117, è possibile che non soltanto il corego Agesidamo, ma anche i componenti del coro facessero tutti parte della tribù dei Dimani. Inoltre, lo studioso si spinge oltre, affermando che questo componimento di Alcmane sia stato scritto per essere eseguito durante la festa spartana in onore di Artemide Cariatide, alla quale era consacrato un santuario in una località di montagna, chiamata Caria, in una zona di confine fra la Laconia e l’Arcadia, dove la celebrazione della dea prevedeva l’esecuzione di danze e canti corali (Pausania III, 10, 7). Un mito, tramandato da un commento di Servio a Virgilio (Bucoliche, 8,29; III. 1, P. 96, Thilo- Hagen), mette in relazione il culto di Artemide Cariatide con Dionisio, per cui si può credere che la danza eseguita dalle giovani spartane per Artemide Cariatide possa essere identificata con una danza bacchica e che per questa sia stato composto il testo alcmaneo. Infatti, il mito racconta che Dionisio, di passaggio a Sparta, si innamorò di una delle tre figlie del re Dione, Caria, suscitando la gelosia delle altre, che cercarono di contrastare l’amore del dio per la loro sorella. Dionisio, allora, le rapì e, dopo averle portate sul monte Taigeto, le trasformò in pietre. Caria, invece, venne mutata nell’albero del noce. Secondo un’altra leggenda, tramandata da Pausania (IV, 16, 9s),

Χοραγέ

: c

he

la guida del coro, Agesidamo, sia un uomo è dovuto al fatto che nell’antichità esistevano anche dei cori “misti”: nel caso di coro formato solo da fanciulle, la guida del coro e l’accompagnamento strumentale potevano essere assunti sia da una donna che da un uomo, mentre nel caso di un coro di maschi, il corego poteva essere unicamente qualcuno dello stesso sesso142. A questo proposito, ricordo un passaggio del libro XVIII dell’Iliade, in cui viene descritta la danza corale di un gruppo di fanciulle e fanciulli, mentre due acrobati, roteando in mezzo a loro, danno inizio alla festa, assumendo in certo qual modo il ruolo di coreghi (594-605):

ἔνθα μὲν ἠΐθεοι καὶ παρθένοι ἀλφεσίβοιαι ὠρχεῦντ’ ἀλλήλων ἐπὶ καρπῷ χεῖρας ἔχοντες. τῶν δ’ αἱ μὲν λεπτὰς ὀθόνας ἔχον, οἱ δὲ χιτῶνας εἵατ’ ἐυννήτους, ἦκα στίλβοντας ἐλαίῳ· καί ῥ ‘ αἱ μὲν καλὰς στεφάνας ἔχον, οἱ δὲ μαχαίρας εἶχον χρυσείας ἐξ ἀργυρέων τελαμώνων. οἱ δ’ ὁτὲ μὲν θρέξασκον ἐπισταμένοισι πόδεσσι ῥεῖα μάλ’, ὡς ὅτε τις τροχὸν ἄρμενον ἐν παλάμῃσιν ἑζόμενος κεραμεὺς πειρήσεται, αἴ κε θεῃσιν· Aristomene, l’eroe della resistenza della Messenia contro l’invasione spartana, durante un attacco notturno a Sparta, spaventato dall’apparizione di Elena e dei Dioscuri (gli eroi gemelli citati anche nel frammento di Alcmane), si rifugiò con i suoi soldati presso il santuario di Artemide Cariatide. Qui trovò delle fanciulle che danzavano in onore della dea e decise di rapire quelle i cui padri occupavano una posizione di prestigio in città. Ma, poiché i suoi soldati cercarono di fare violenza alle ragazze, Aristomene li uccise e liberò le sventurate. Secondo Brelich, 1969, p. 165, entrambi i miti celano un rito di iniziazione tribale, in base al quale le fanciulle venivano separate per un certo periodo e poi reintegrate nella comunità, con la nuova condizione di adulte. Calame, 1977, I, p. 273 ricorda che due sono le testimonianze relative a questa identificazione delle danze per Artemide Cariatide e per Dionisio: 1) il titolo di un’opera di Pratina (fr.