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Fr. 85C=28D

Il fr. 85C=28D, pur presentando un’invocazione alla Musa, contiene un importante elemento di novità in fatto di poetica:

Μῶσα, Διὸς σύγατερ, λιγ’ ἀείσομαι, ὠρανίαφι.

“Celeste Musa, figlia di Zeus, io canterò con voce sonora”.

Διὸς σύγατερ

è l’espressione con cui Alcmane qualifica la Musa, come nel fr.

84C, analizzato nel capitolo I. Da questo punto di vista il frammento si inserisce nella forma tradizionale di richiesta del poeta alla divinità, che lo istruisce e che dà avvio al canto.

Ἀείσομαι

145

costituisce la novità introdotta da Alcmane, che mette in primo piano l’io del poeta. Infatti, nei frammenti analizzati in precedenza, era la Musa che intonava il canto o dietro richiesta esplicita del poeta, oppure con l’intermediazione del coro. Ora, invece, Alcmane è il soggetto dell’attività corale146.

145 Ἀείσομαι è la forma del futuro sigmatico di ἀείδω, che indica la volontà del poeta di iniziare il canto (futuro di intenzione= “voglio cantare”), come spiega Page, 1951, p. 123.

146 Questa innovazione ha alle spalle un lungo sviluppo della coscienza poetica, le cui basi possono essere già ravvisabili in Omero, in primo luogo nel verso 484 del II libro dell’Iliade, dove la Musa non è più invocata perché canti essa stessa, ma solo per suggerire: Ἔσπετε νῦν μοι, Μοῦσαι, poi nel proemio dell’Odissea (I, 1: Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα), poema che conserva tracce inequivocabili della presa di coscienza, da parte dell’aedo, di non essere più soltanto soggetto passivo, ma attivo del canto. Ad esempio, viene usato spesso il verbo διδάσκειν per definire l’attività della Musa rispetto all’aedo, attività che non è più un dono ma un insegnamento divino, come in Odissea VIII (487-488): Δημόδοκ’, ἔξοχα δή σε βροτῶν αἰνίζομ’ ἁπάντων / ἢ σέ γε Μοῦσ’ ἐδίδαξε, Διὸς πάις, ἢ σε γ’ Ἀπόλλων. Nel caso dell’insegnamento molto spetta

Λιγύς

viene definito il canto che Alcmane vuole in Questo aggettivo, che viene riferito alla voce delle Muse nel fr. 4C (1) e che ha un’etimologia incerta147, indica un suono chiaro e penetrante, piuttosto che dolce, come

alla Musa e molto anche all’aedo, che contribuisce all’efficacia di tale insegnamento. A questo proposito, occorre ricordare la figura di Femio che, nel libro XXII dell’Odissea (344-350), premuto dal pericolo di essere ucciso per mano di Odisseo, lo implora di risparmiarlo perché poi sarà preso dal dolore di aver ucciso un aedo, che canta per gli dei e per gli uomini. Femio soi definisce αὐτοδίδακτος, nel senso che l’ispirazione gli viene dal dio, e il ricordo del θεός ispiratore dovrebbe rendere inviolabile per Odisseo l’aedo.Sintomo del progressivo imporsi della personalità del poeta viene considerata la comparsa del pronome personale μοι, ἡμῖν (Accame, 1963, pp. 276-277). L’analisi degli stessi Inni Omerici permette di cogliere una graduale evoluzione della coscienza poetica: l’Inno IX (ad Artemide), pur iniziando con un verso che ricorda l’inizio dell’Iliade (Ἄρτεμιν ὕμνει, Μοῦσα, κασιγνήτην Ἑκάτοιο), se ne discosta profondamente per gli ultimi versi, dove domina la personalità del poeta (αὐτὰρ ἐγὼ σε πρῶτα καὶ ἐκ σέθεν ἄρχομ’ ἀείδειν, σεῦ δ’ ἐγὼ ἀρξάμενος μεταβήσομαι ἄλλον ἐς ὓμνον); l’Inno II (a Demetra) inizia in prima persona (ἄρχομ’ ἀείδειν) e termina con una formula che riafferma la personalità del cantore (αὐτὰρ ἐγὼ καὶ σεῖο καὶ ἄλλης μνήσομ’ ἀοιδῆς); l’Inno VI (ad Afrodite) presenta al verso 2 il verbo ᾄσομαι, con cui il poeta introduce subito se stesso; nell’Inno III (ad Apollo) l’aedo afferma subito se stesso in prima persona (Μνήσομαι οὐδὲ λάθωμαι Ἀπόλλωνος ἑκάτοιο). Esiodo, nel proemio della Teogonia, pur avendo riconosciuto l’importanza dell’investitura poetica da parte delle Muse, faceva emergere la sua personalità di poeta nel momento in cui, affermando che le Muse possono dire sia cose vere che cose simili al vero, rivendica perla sua poesia un contenuto di verità, in quanto egli, e non altri, è stato scelto dalle Muse stesse come meritevole di questa condizione privilegiata. Poi, come spiega Arrighetti, 1987, pp. 44-48, è soprattutto negli Erga che emerge la personalità del poeta. Prima di tutto, infatti, i contenuti dell’ispirazione divina non sono più, come in Omero e nella Teogonia, dei ed eroi, ma <<ammaestramenti, fondati su alcuni precisi valori che hanno bisogno a loro volta di essere illustrati e chiariti>>. Esiodo rivolge qui la sua attenzione ai valori umani, interpretati in relazione alla giustizia di Zeus, della quale si dice che ha bisogno del poeta che ne spieghi le manifestazioni: <<così, per un motivo che si potrebbe definire di pura competenza, l’ambito entro il quale si espleta l’azione ispiratrice delle Muse risulta abbastanza ristretto e si esaurisce di fatto nella abbastanza generica glorificazione di Zeus nel proemio che, a ben guardare, non può nemmeno essere definito un vero e proprio tema di ispirazione. […] Nel proemio degli Erga scorgiamo una delle manifestazioni più chiare di una crisi che va di pari passo con il processo di arricchimento etico della divinità e di una sempre più chiara presa di coscienza, da parte del poeta, del valore della sua missione >> (Arrighetti, 1987, p. 48). Alle spalle delle innovazioni di Alcmane bisogna, inoltre, scorgere la figura di Archiloco che, nel celebre fr. 1W, si definisce θεράπων di Enialio, ma non delle Muse, a differenza di Esiodo (Teogonia, 99: ἀοιδὸς Μουσάων θεράπων), dell’Inno XXXII (a Selene, 19: ἀοιδοί, Μουσάων θεράποντες) e di Teognide (769: Μουσῶν θεράποντα καὶ ἄγγελον). Egli si definisce “conoscitore del dono delle Muse”, facendo balzare in avanti il suo io che sa e che conosce: non è più un dono accolto passivamente dal poeta, non si tratta più della Musa che parla al posto del poeta, o che suggerisce il soggetto del canto, o che elargisce un insegnamento, ma di <<un dono che il poeta accoglie come tale e nello stesso tempo sente così suo, così compenetrato della propria personalità da apparirgli una sua conquista>> Accame, 1964, p. 137. 147 Beekes, 2010, vol. II, p. 861, spiega l’aggettivo “clear, resounding, shrill”; Davies-

Finglass, 2014, p. 567: <<λιγύς, λιγυρός denote high, clear sounds>>. Per l’aggettivo λιγύς si vedano le considerazioni presenti nella nota 31, capitolo I.

confermano due versi di Bacchilide (Epinicio V), in cui egli, descrivendo la sua attività di poeta, si serve dell’allegoria dell’aquila che, potente e leggera domina il cielo, mentre gli altri uccelli “si fanno piccoli”alla vista del predatore, ed emettono il loro tipico grido di paura (12-13):

πτάσσοντι δ’ ὄρνι- “si nascondono gli uccelli χες λιγύφθογγοι φόβῳ· dalla voce sonora, impauriti”.

Risulta chiaro da questo passo che l’epiteto λιγύφθογγος, e quindi anche λιγύς, non connota un suono dal punto di vista estetico, ma ne sottolinea la forza, che penetra l’aria e comunica a chi lo sente una precisa sensazione (nel caso di Bacchilide lo stato di paura)148.

Ὠρανίαφι

: uno scolio all’Iliade149 spiega che Omero usava il suffisso -φι per

i casi genitivo, dativo e accusativo, mentre Alcmane per il vocativo. In base a questa spiegazione, ὠρανίαφι, equivalente ad un vocativo, sarebbe un epiteto di Μῶσα che, se inteso come aggettivo sostantivato, potrebbe riferirsi ad una delle nove Muse, quella alla quale veniva dato il nome proprio di Urania, cosicché avremmo un parallelo con il fr. 84C, in cui Alcmane invoca un’altra Musa, Calliope150.

148 Maehler, 1982 (2004, pp. 113-114) afferma che l’aggettivo λιγύφθογγος si adatta sia alla figura dell’araldo omerico, sia, nello stesso Bacchilide, all’immagine delle api (Epinicio X, 10). Anche lo studioso tedesco traduce l’aggettivo con un senso di chiarezza e non di dolcezza: <<clear-voiced birds>>.

149 Scolio ad Omero, Iliade XIII, 588a (III, p. 512, 29 ss, Erbse).

150 Calame, 1983, pp. 466-467. Secondo altri studiosi (De Martino-Vox, 1995, p. 174), invece, poiché le forme poetiche in -φι equivalgono di norma a un dativo o a un genitivo, è possibile pensare che che ὠρανίαφι servisse da epiteto a un nome femminile al dativo singolare, che doveva figurare nel verso successivo. Questo verso poteva contenere l’espressione Μναμοσύνᾳ σὺν ματρί, in quanto Mnemosine compare in combinazione con le Muse nel fr. 21C di Alcmane ed è definita “figlia di Urano” in Esiodo (Teogonia, 915-917). Da notare, inoltre, che Οὐράνιοι è epiteto usato per indicare gli dei nell’Inno II (a Demetra, 55) e in Pindaro (Pitica II, 38) dove designa le dee celesti.

Fr. 88C=31D

Il fr. 88C=31D, per quanto brevissimo, contiene un’importante allusione alla poetica di Alcmane:

Μῶσαν καταυσεῖς

“Chiamerai la Musa”.

καταυσεῖς

è una forma verbale che Eustazio151 fa derivare da αὔω, “accendere

un fuoco”, “incendiare”, verbo che compare soltanto in Odissea (V, v. 490), come afferma Chantraine152. Tuttavia, una glossa di Esichio153 traduce κατάυω con ἀφανίζω, “distruggere”, interpretazione che è accolta oggi da Campbell154. È più probabile che il verbo καταυσεῖς derivi da αὔω, “gridare”(per incoraggiare o incitare qualcuno), “chiamare”, usato nei poemi omerici o in senso assoluto155, oppure accompagnato da un complemento oggetto, come in

Odissea IX (65):

πρὶν τινα τῶν δειλῶν ἑτάρων τρὶς ἕκαστον ἀῧσαι.

“prima di aver chiamato tre volte ciascuno dei miseri nemici”.

e in Iliade XI (461): αὐτὰρ ὅ γ’ ἐξοπίσω ἀνεχάζετο, αὖε δ’ ἑταίρους. 151 Eustazio, in Odissea, 1547. 152 Chantraine, 1968, p. 145. 153 Esichio, K 93 Latte. 154 Campbell 1988, p.419.

155 Iliade XX, 48; V, 101; XI, 10; IV, 508; VI, 66. Questa spiegazione è accolta da Calame, 1983, pp. 469-470.

“ma egli si fece indietro e lanciò un grido ai compagni”.

Il prefisso κατα- avrebbe la funzione di rendere transitivo un verbo usato abitualmente in modo intransitivo, come accade per il verbo θρηνέω/ καταθρηνέω. In base a questa interpretazione, siamo di fronte ad un grido di invocazione alla Musa, lanciato da Alcmane perché essa venga a ispirare un nuovo canto al poeta156. Tuttavia, se si considera καταυσεῖς derivato da αὔω nel significato di “incendiare”, “dare fuoco”, oppure se lo si considera sinonimo di ἀφανίζω, ci troveremmo di fronte ad un’affermazione di indipendenza della propria capacità compositiva da parte di Alcmane, come se egli dicesse che il suo saper comporre canti non ha bisogno di un aiuto esterno, per cui la sua capacità di poeta ha annientato il potere della Musa. Alcmane, poeta fecondo, ha incendiato, e cioè insterilito, inaridito la Musa ispiratrice157.

Fr. 89C=29D

Il fr. 89C=29D non costituisce l’incipit vero e proprio di un poema, in quanto la presenza del δέ158

fa pensare che questi versi fossero preceduti da un’invocazione alla Musa e da una sezione mitica159, in modo analogo a ciò che avviene nel fr. 3C160 nel quale alla narrazione del mito segue, al verso 39, l’espressione ἐγὼν δ’ ἀείδω, una formula di “transizione” simile a quella presente in questo frammento:

ἐγὼν δ’ ἀείσομαι ἐκ Διὸς ἀρχομένα.

156 Poiché si tratta di una seconda e non di una prima persona singolare, credo si possa pensare che sia il coro che pronuncia questa espressione in riferimento alla corega o al poeta stesso.

157 Romagnoli, 1933, p. 114.

158 Il δὲ è spesso usato come connettivo, cioè ha una funzione di collegamento tra due membri di una frase o tra versi, come spiega Denniston, 1966, p. 162.

159 Calame, 1983, p. 470; De Martino-Vox, 1996, p. 185.

“Ma io comincerò a Cantare da Zeus”.

ἐγών

è l’io poetico, messo in primo piano in quanto artefice del canto che si

accinge a cominciare, mentre la divinità è presente non già come ispiratrice, ma come argomento di canto.

Ἀείσομαι

...

ἀρχομένα

Il verbo ἀείδω regge qui dal punto di vista sintattico il

participio presente ἀρχομένα e questa formula rappresenta una variazione rispetto alla poesia omerica, nella quale si trova sempre il verbo ἀείδω all’infinito, in dipendenza da ἄρχομαι161. Dal punto di vista morfologico, ἀρχομένα è participio femminile, cosa che fa immediatamente capire che il componimento di cui questi versi facevano parte era stato scritto per un coro di fanciulle. Inoltre, ἄρχομαι è il verbo tecnico che designa l’azione di preludio a un canto lirico. Questo preludio può presentarsi o sotto forma di semplice introduzione musicale, oppure come un vero e proprio prooimion162.

ἐκ Διός

indica che la divinità da cui prende avvio il canto è Zeus, in modo

analogo a quanto avviene in Esiodo, Erga (1-2):

Μοῦσαι Πιερίηθεν, ἀοιδῇσι κλείουσαι,

δεῦτε, Δί ‘ ἐννέπετε σφέτερον πατέρ ‘ ὑμνείοθυσαι.

161 Un esempio è dato dall’Inno XI (ad Atena, 1): Πάλλαδ’ Ἀθηναίην ἐρυσίπτολιν ἄρχομ’ ἀείδειν (=Inizio a cantare Pallade Atena, signora dell’acropoli). L’unico passo omerico in cui non viene rispettata la costruzione ἄρχομαι+ infinito di ἀείδω è l’Inno XXXII (a Selene, 18-19): σέο δ’ ἀρχόμενος κλέα φωτῶν/ᾄσομαι (=cominciando da te, canterò le gesta dei semidei).

162 Esempi di proemi lirici si trovano già in Omero, come nell’Inno II (a Demetra, 1: Δήμετρ ‘ ἠΰκομεν σεμνὴν θεὰν ἄρχομ’ ἀείδειν, “Comincio a cantare Demetra dai bei capelli, dea venerabile”, mentre spesso i proemi della lirica arcaica sono contaminati dall’epica e dicono, per esempio, Μῶσα, Διὸς θύγατερ, λιγ’ ἀείσομαι, “Musa, figlia di Zeus, acuto canto leverò”,(Alcmane fr. 85C). Si possono, dunque, avanzare due ipotesi. Una che Omero ha conosciuto proemi del tipo di quelli della lirica posteriore e che ne ha fatto una trasposizione nello stile epico; l’altra che, al contrario, le formule del proemio lirico siano state create più tardi, sulla base della concezione di questo già rispecchiata in Omero (Rodriguez Adrados, 1976 (2007, pp. 57-59)).

“Muse di Pieria, che date la gloria coi canti,

Zeus qui ora cantate, al padre vostro inneggiando”163 .

e in due passi di Pindaro, Nemea II (1-3):

Ὅθεν περ καὶ Ὁμηρίδαι

ῥαπτῶν ἐπέων τὰ πόλλ’ ἀοιδοί ἄρχονται, Διὸς ἐκ προοιμίου.

“Da dove i cantori omeridi cominciano anch’essi a tesser

le loro canzoni, da Zeus intonando il proemio”.

e Nemea V (25-27):

φόρμιγγ’ Ἀπόλλων ἑπτάγλωσσον χρυσέῳ πλάκτρῳ διώκων ἀγεῖτο παντοίων νόμων · αἱ δὲ πρώτιστον μὲν

ὕμνησαν Διὸς ἀρχόμεναι σεμνὰν Θέτιν.

“Apollo toccando la cetra settecorde con l’auro plettro guidava i molteplici balli; ed esse cominciando da Zeus cantavano la venerabile Teti”.

163 Arrighetti, 1987, pp. 46-47, nota che la glorificazione di Zeus richiesta da Esiodo alle Muse negli Erga è ben diversa dai versi 47-49 della Teogonia, dove Zeus con la sua potenza compare come uno dei temi del canto delle Muse (Ζῆνα...ὅσσον φέρτατός ἐστι θεν κάρτει τε μέγιστος). Infatti, mentre nella Teogonia il tema viene svolto attraverso la narrazione degli eventi che precedono e seguono il costituirsi del regno di Zeus, negli Erga la potenza di Zeus deve essere mostrata e spiegata dal poeta: <<la tradizione imponeva l’ossequio ad un certo rituale secondo il quale doveva essere fatta la richiesta dell’ispirazione alla divinità, ma il contenuto del canto, questa volta relativo non a fatti ma a valori, era essenzialmente ribelle al tipo di ispirazione-suggerimento tradizionale; e quello che era un elemento di codice letterario doveva essere recuperato, rifondato e rielaborato come dato reale posto alla base del valore della poesia>>, Arrighetti, 1987, p. 48. In questo modo si avverte una sempre maggiore presa di coscienza da parte del poeta della propria indipendenza e delle proprie capacità.

Ma è soprattutto un frammento attribuito a Terpandro che va messo in relazione con il testo di Alcmane (fr. 3 Gost.):

Ζεῦ πάντων ἀρχά, πάντων ἁγήτωρ, Ζεῦ, σοῖ πέμπω ταύταν ὕμνων ἀρχάν.

“O Zeus inizio di ogni cosa, guida di ogni cosa o Zeus, a te mando questo avvio degli inni”164

.

164 Al pari dell’Inno di Terpandro, anche il testo di Alcmane potrebbe essere un inno a Zeus eseguito in una festa in onore di questa divinità, nella veste di Zeus ἁγήτωρ, dio dei Dori venerato a Sparta come nume tutelare delle truppe in battaglia (Senofonte, Lac. Resp. XIII, 2). È però possibile (Quattrocelli, 2002, pp. 18-20) che si tratti di un inno eseguito in un simposio e, in particolar modo, nel momento iniziale del banchetto. Infatti, gli σπονδεῖα indicano le invocazioni che accompagnavano la σπονδή, la libagione con cui si stabiliva il patto con la divinità e che segnava l’inizio della bevuta. In tal modo l’ὕμνων ἀρχάν viene ad indicare l’avvio a quella serie di interventi poetici, che i convitati si accingevano a cantare in onore della divinità, specialmente di Zeus Σωτήρ (Diodoro Siculo I, 5, 3; Ateneo II, 38d; XV, 675c). Zeus ἁγήτωρ godeva di un vero culto a Sparta, per cui è normale che le persone riunite in un simposio si rivolgessero a lui; così come l’idea di Zeus πάντων ἀρχά, già presente in Omero e in Esiodo, è facilmente collegabile al pensiero di Zeus quale origine e fonte dei canti che sarebbero stati eseguiti a banchetto. Poiché anche di Alcmane ci sono giunti dei frammenti che possono essere inscritti in un filone tipicamente simposiale (frr. 92C, 129C, 134C), e poiché anch’egli apparteneva allo stesso ambiente culturale di Terpandro, si può pensare che anche il fr. 89C vada annoverato tra i canti recitati durante il banchetto. Tuttavia, nel fr. 129C Alcmane fornisce il nome con cui venivano chiamati i banchetti spartani: ἀνδρεῖα. Dalle fonti storiche ed antiquarie (Erodoto I, 65; Aristotele, Politica, 1272a; Plutarco, Licurgo, 12; Strabone X, 4,18; Ateneo IV, 143a- b) si apprende che ἀνδρεῖα era il nome dei “pasti collettivi” a Creta, istituzione poi importata a Sparta. Strabone cita il fr. 129C per spiegare che, al tempo di Alcmane, gli Spartani li chiamavano ancora ἀνδρεῖα, ma che in seguito sarebbero diventati συσσίτια. Questi ἀνδρεῖα come dice il termine stesso, erano delle riunioni, delle compagnie maschili. Dunque, risulta difficile rapportare a questo tipo di istituzione il fr. 89C, in cui il participio ἀρχόμενα indica la presenza di un coro femminile. È più probabile che il testo del fr. 89C facesse parte di un componimento scritto per un gruppo di fanciulle in onore di Hera, la dea che insieme a Zeus costituiva il paradigma dello ἱερὸς γάμος (Calame, 1977, I, pp. 209-210). Il ritrovamento a nord dell’acropoli spartana di un antico xoanon di Hera-Afrodite, a cui le madri facevano sacrifici in occasione del matrimonio delle proprie figlie, attesta l’esistenza a Sparta di rituali connessi con il matrimonio. Infatti, nella Sparta arcaica, il matrimonio per le fanciulle corrispondeva all’arruolamento militare dei fanciulli al servizio della città, ovvero era un rito di iniziazione alla vita adulta (Calame, 1977, I, pp. 356-357).

Fr. 91C=92D

Il fr. 91C=92D può essere definito un “autoritratto” della poetica di Alcmane:

ϝέπη δέ γε καὶ μέλος Ἀλκμάν εὗρε γεγλωσσαμένον κακκαβίδων ὄπα συνθέμενος.

“Le parole e il canto Alcmane Trovò, imitando con parole

L’articolato canto delle pernici”.

Il frammento viene citato da Ateneo (IX, 390a) che lo chiosa così:σαφῶς ἐμφανίζων ὅτι παρὰ τῶν πεδίκων ἄιδειν ἐμάνθανε, ovvero Alcmane trova il suo canto riascoltando dentro di sé le voci e le melodie degli uccelli che egli conosce (fr. 140C), quindi echeggiando, “imitando” le melodie degli uccelli. Dunque, Alcmane offre una testimonianza dell’antica dottrina della poesia come mimesi che fa la sua prima comparsa nell’Inno III (ad Apollo, 156-164):

πρὸς δὲ τόδε μέγα θαῦμα, ὅου κλέος οὔποτ’ ὀλεῖται, κοῦραι Δηλιάδες Ἑκατηβελέταο θεράπναι· αἵ τ’ ἐπεὶ ἄρ πρῶτον μὲν Ἀπόλλων’ ὑμνήσωσιν, αὖτις δ’ αὖ Λητώ τε καὶ Ἄρτεμιν ἰοχέαιραν, μνησάμεναι ἀνδρῶν τε παλαιῶν ἠδὲ γυναικῶν ὕμνον ἀείδουσιν, θέλγουσι δὲ φῦλ’ ἀνθρώπων. πάντων δ’ ἀνθρώπων φωνὰς καὶ κρεμβαλιαστὺν μιμεῖσθ’ ἴσασιν· φαίη δέ κεν αὐτὸς ἕκαστος φθέγγεσθ’· οὔτω σφιν καλὴ συνάρηρεν ἀοιδή.

Le fanciulle di Delo, ministre del dio arciere; Esse, dopo aver cantato anzitutto Apollo, E poi Leto e Artemide saettatrice,

Intonano un canto, celebrando gli uomii e le donne Del passato, e affascinano la massa del pubblico. E sanno imitare le voci di tutti gli uomini,

E ogni loro favella: ciascuno crederebbe di essere lui A parlare, tanto bene si modella il loro canto soave”165

.

Si tratta di una teoria che verrà riechiamata da Democrito là dove egli parla dell’origine della cultura166:

γελοῖοι δ’ ἴσως ἐσμὲν ἐπὶ τῶι μανθάνειν τὰ ζῶια σεμνύνοντες, ὧν ὁ Δημόκριτος ἀποφαίνει μαθητὰς ἐν τοῖς μεγίστοις γεγονότας ἡμᾶς· ἀράχνης ἐν ὑφαντικῆι καὶ ἀκεστικῆι, χελιδόνος ἐν οἰκοδομίαι, καὶ τῶν λιγυρῶν, κύκνου καὶ ἀηδόνος, ἐν ὠιδῆι κατὰ μίμησιν167.

“Noi siamo stati discepoli degli animali nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine nel costruire le case, degli uccelli canterini, del cigno e dell’usignolo nel canto, con l’imitazione”.

165 Come afferma Tulli, 2013, pp. 314-318, con la celebrazione ionica di Delo nell’Inno III (ad Apollo), in cui un coro di fanciulle è abile nel ripetere voci e suoni di terre straniere, siamo di fronte al primo esempio di μίμησις della letteratura greca, che in seguito ricompare, ad esempio, nella Batracomiomachia (1-8) e in Teognide (367- 370), per arrivare alla nuova concezione di μίμησις offerta da Platone nel III libro della Repubblica: <<Non più voci e suoni di terre straniere, l’oggetto per il coro di fanciulle dell’Inno ad Apollo, non più il funesto lamento di Euriale per il mito della XII Pitica di Pindaro, non più il canone di Damone per il ritmo e per l’armonia o il contrasto nel corpo e nel volto, sia maschile che femminile, per la poetica di Agatone: il paradigma che traspare nel III libro della Repubblica è l’ordine stabile delle cose>>, Tulli, 2013, p. 318.

166 Democrito, 68B 154DK, da Plutarco, Sollecitudine degli animali, 19-20.

167 Queste parole di Democrito sono riecheggiate in tono scherzoso in Aristofane, Uccelli, 748-751.

La mimesis non è circoscritta al solo rapporto con la natura e la vita, ma coinvolge la posizione stessa del poeta nei confronti dei suoi predecessori: come ogni altra attività umana, anche il poetare comincia ad essere considerato come mathesis, ovvero come apprendimento dell’arte attraverso l’imitazione dei modelli della tradizione poetica168.

ἔπη

169

δέ γε καὶ

μέλος:

i termini con cui si apre il frammento, indicano

rispettivamente le parole del componimento lirico e la melodia, la musica;

δέ

γε καὶ

è il nesso che collega questi due termini ed indica che vi è una stretta unità fra il testo poetico e quello musicale170.

Ἀλκμάν

il nome proprio del poeta compare nel testo come una sphragis, un

“sigillo”, che viene solitamente aggiunto o nel proemio o nell’epilogo, per sottolineare l’orgoglioso “io” del poeta e per certificare il poema, come se fosse una lettera o una statua171. Esiodo e gli Inni Omerici sono ancora una volta i precursori della pratica della sphragis. Infatti, un precedente significativo si trova in Esiodo che menziona se stesso, anche se più cautamente in terza persona, nella Teogonia là dove descrive l’apparizione delle Muse sul monte Elicona (22-23):

αἵ νύ ποθ’ Ἡσίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν, ἄρνας ποιμαίνονθ’ Ἑλικῶνος ὕπο ζαθέοιο.

“Esse una volta insegnarono ad Esiodo un canto bello, mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona”.

168 Gentili, 1971, p. 66.

169 Maehler, 1963, p. 72, suggerisce che il termine si riferisca ad una sezione mitica che Alcmane aveva l’abitudine di inserire nei propri componimenti, come nel fr. 3C. 170 Lanata, 1963, p. 41.

Analogamente nell’Inno Omerico III (ad Apollo, 171-172):

ὑμεῖς δ’ εὖ μάλα πᾶσαι ὑποκρίνασθ’ ἀμφ’ ἡμέων· τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ.

“Voi tutte a una voce rispondete che sono io: è un cieco che abita nella scoscesa Chio”.