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Il fr. 86C=30D , che è citato dal retore Elio Aridstide in una delle sue Orazioni (28, 51), presenta la singolare identificazione della Musa con la Sirena, esseri canori tradizionalmente ben distinti.

ἁ Μῶσα κέκλαγ’ ἁ λίγηα Σηρήν.

“La Musa ha lanciato un grido, la canora Sirena”.

Κέκλαγ’

: la Musa, simbolo del canto dolce come il miele (μελίγηρυς, fr. 90C)

che fluisce in eterno (αἰενάοιδε, fr. 4C), è qui accostata da Alcmane allo sgraziato e scomposto suono espresso dal termine κλαγγή. Questa particolare associazione ossimorica potrebbe essere stata creata per suscitare un effetto di straniamento nell’uditorio, attirando la sua attenzione. È stato rilevato254 che il verbo κλάζω, per definire il canto delle Muse, ha un carattere paradossale. Infatti, con questo verbo Omero denota il grido che le cornacchie emettono quando si sentono minacciate dal nibbio (Iliade XVII, 755-757), oppure il grido di un’aquila che, dopo essere stata morsa dal serpente che porta in volo, lascia cadere la sua temibile preda, straziata dal dolore (Iliade XII, 204-207)255. In questi casi, κλάζω indica un suono disarmonico e stridulo, in grado di far rabbrividire chi lo ascolta. Odisseo, nel suo racconto alla corte dei Feaci, sostiene che la cosa più atroce che i suoi occhi hanno visto nel corso del suo

254 Janni, 1962, pp. 182-183.

255 Esiodo (Erga, 449) usa il verbo κλάζω per designare il grido della gru. Polluce (V, 89) sostiene che questo verbo è proprio delle aquile, mentre Eustazio (Commento ad Omero, Iliade XVII, 756, IV, p. 120, Van der Valk) sottolinea come il grido acuto di storni e di cornacchie, in Omero, sia legato alla sensazione di paura.

peregrinare è stata la scena dei suoi uomini divorati da Scilla (Odissea XII, 255-256). Essi morirono tendendo a lui le mani e lanciando grida (κεκλήγοντες) dalle fauci del mostro. L’associazione del verbo κλάζω con momenti di grande dolore e apprensione è frequente anche nei lamenti dei cori tragici, ad esempio in Euripide (Fenicie, 1144), dove è usato per qualificare le concitate voci dei contendenti nel furore della mischia256. Dunque, il verbo κλάζω è associato unicamente a contesti emozionali negativi, di paura o di dolore, e dal punto di vista estetico esprime suoni sgradevoli all’orecchio.

Dall’analisi degli altri frammenti di Alcmane, abbiamo visto che il poeta si rivolge alla Musa con un linguaggio differente e più confacente alla dea. Così, nel fr. 4C Alcmane sottolinea la varietà dei canti della Musa(πολυμμελές), invocandola come eterna cantatrice (αἰενάοιδε), e chiedendole di intonare un canto nuovo per il coro (νεοχμὸν ἄρχε παρσένοις ἀείδην). Nel fr. 84C, invece, egli la invoca chiamandola con il nome proprio Calliope (che letteralmente significa “dalla bella voce”) e le chiede di dare avvio ad amabili parole (ἄρχ’ ἐρατῶν ἑπέων): il canto della Musa è convenzionalmente legato al desiderio e al piacere (ἵμερος, fr. 84C), oltre che ai concetti di bellezza e di grazia espressi dalle voci e dagli schemi di danza dei cori femminili (χαρίεντα χορόν, fr. 84C). Dunque, il verbo κλάζω “stona”con le caratteristiche di grazia e di bellezza che Alcmane è solito attribuire alla Musa257.

256 Altri casi in cui κλάζω si trova all’interno di cori tragici sono Eschilo, Persiani, 948, dove indica i disperati lamenti del coro, e Agamennone, 156, 174 e 201. Inoltre Calame, 1983, p. 467, ricorda che κλάζω, in qualità di verbo polisemico, può esprimere anche sonorità strumentali, come il suono del flauto (Inno XIX, a Pan, 14), quello della tromba (Bacchilide, 18, 3) e quello della lira (AP VII, 196, 4).

257 Si può pensare con Calame, 1983, p. 468, che il verbo κλάζω voglia indicare il grido di ispirazione emesso dalla Musa per dare al poeta l’impulso necessario alla composizione del canto e alla sua esecuzione, in modo analogo a quanto avviene nel fr. 88C (τὰν Μῶσαν καταυσεῖς, per il quale si veda l’analisi condotta nel III capitolo), in cui la Musa è invocata attraverso l’azione del gridare. Oppure, come afferma Janni (1962, pp. 182-183), dall’analisi dei vv. 174, 156 e 201 dell’Agamennone di Eschilo, si nota che il verbo κλάζω viene usato in relazione all’invasamento profetico dell’indovino, analogamente a quanto avviene in Pindaro (Peana VIII), dove oggetto di ἔκλαγξεν è ancora una profezia. Janni, dunque, spiega il verbo κλάζω collegandolo all’ambito del sacro, oppure egli afferma che <<si può pensare che la Sirena qui nominata, col suo carattere ferino, abbia influenzato l’immaginazione del poeta, giustificando per altra via l’uso di κλάζω>>.

Λίγηα

è l’aggettivo che, oltre al verbo κλάζω, indica che in questo frammento Alcmane, che in altri componimenti esalta come dolce e armonioso il canto delle Muse, si concentra su un altro aspetto sonoro della Musa, quello della chiarezza e la forza penetrante con cui essa arriva nitida alle orecchie del poeta ispirato e poi degli ascoltatori. L’aggettivo λιγύς era usato frequentemente nelle invocazioni alla Musa, per indicare la chiarezza del suo canto, come abbiamo visto nel fr. 4C (Μῶσ’ ἄγε, Μῶσα λίγηα)258

e come si vede in Stesicoro (fr. 278PMGF):

ἄγε Μοῦσα λίγει’ ἄρξον ἀοιδᾶς ἐρατῶν ὕμνους Σαμίων περὶ παίδων ἑρατᾷ φθεγγομένα λύρᾳ.

“Orsù, Musa canora, dà inizio al canto di amorosi inni risuonando con l’amorosa lira intorno ai fanciulli di Samo”.

Σηρή:

Alcmane è il primo poeta che sappiamo aver fatto un’identificazione

esplicita fra le Muse e le Sirene259.

Per capire il motivo che ha portato Alcmane ad operare un’identificazione fra Muse e Sirene, occorre partire dal canto XII dell’Odissea, in primo luogo dalle parole di avvertimento che la maga Circe rivolge ad Odisseo (39-54):

Σειρήνας μὲν πρῶτον ἀφίξεαι, αἵ ῥά τε πάντας ἀνθρώπους θέλγουσιν, ὅτις σφέας αἰσαφίκηται. ὅς τις ἀιδρείῃ πελάσῃ καὶ φθόγγον ἀκούσῃ Σειρήνων, τῷ δ’ οὔ τι γυνὴ κα νήπια τέκνα οἴκαδε νοστήσαντι παρίσταται οὐδὲ γάνυνται, ἀλλάά τε Σειρῆνες λιγυρῇ θέλγουσιν ἀοιδῇ,

258 Per l’analisi del fr. 4C si veda il I capitolo.

259 Questa identificazione si ritroverà in Sofocle (fr. 852R): μοῦσα καὶ σειρὴν μία.Il frammento è stato tramandato da Plutarco, Moralia, 518c.

ἥμεναι ἐν λειμῶνι· πολὺς δ’ ἀμφ’ ὀστεόφιν θὶς ἀνδρῶν πυθομένων, περὶ δὲ ῥινοὶ μινύθουσι. ἀλλὰ παρὲξ ἐλάαν, ἐπὶ δ’ οὔατ’ ἀλείψαι ἑταίρων κηρὸν δεψήσας μελιηδέα, μή τις ἀκούσῃ τῶν ἄλλων· ἀτὰρ αὐτὸς ἀκουέμεν αἴ κ’ ἐθέλῃσθα, δησάντων σ’ ἐν νηῒ θοῇ χεῖράς τε πόδας τε ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ , ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω, ὄφρα κε τερπόμενος ὄπ’ ἀκούῃς Σειρήνοιιν. εἰ δέ κε λίσσηαι ἑτάρους λῦσαί τε κελεύῃς, οἱ δέ σ’ ἐνὶ πλεόνεσσι τότε δεσμοῖσι διδέντων.

“Alle Sirene prima arriverai, che gli uomini stregano tutti, chi le avvicina.

Chi ignaro approda e ascolta la voce

delle Sirene, mai più la sposa e i figli piccoli, tornato a casa, festosi l’attorniano,

ma le Sirene col canto armonioso lo stregano, sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano. Ma fuggi e tura le orecchie ai compagni,

cera sciogliendo profumo di miele, perché nessuno di loro le senta: tu, invece, se ti piacesse ascoltare,

fatti legare nell’agile navi i piedi e le mani,

ritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde ti attacchino, sicché tu goda ascoltando la voce delle Sirene.

Ma se pregassi i compagni, se imponessi di scioglierti, essi con nodi più numerosi ti stringano”.

Poi, occorre considerare i versi 158-200 dello stesso libro, in cui Odisseo ripete ai compagni gli avvertimenti di Circe e in cui viene riportato il canto stesso che

le Sirene rivolgono all’eroe (158-200): Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω. εἰ δέ κε λίσσωμαι ὑμέας λῦσαί τε κελεύω, ὑμεῖς δὲ πλεόνεσσι τότ’ ἐν δεσμοῖσι πιέζειν.’ ἦ τοι ἐγὼ τὰ ἕκαστα λέγων ἑτάροισι πίφαυσκον· τόφρα δὲ καρπαλίμως ἐξίκετο νηῦς ἐϋεργὴς νῆσον Σειρήνοιϊν· ἔπειγε γὰρ οὖρος ἀπήμων. αὐτίκ’ ἔπειτ’ ἄνεμος μὲν ἐπαύσατο ἠδὲ γαλήνη ἔπλετο νηνεμίη, κοίμησε δὲ κύματα δαίμων. ἀνστάντες δ’ ἕταροι νεὸς ἱστία μηρύσαντο, καὶ τὰ μὲν ἐν νηῒ γλαφυρῇ θέσαν, οἱ δ’ ἐπ’ ἐρετμὰ ἑζόμενοι λεύκαινον ὕδωρ ξεστῇσ’ ἐλάτῃσιν. αὐτὰρ ἐγὼ κηροῖο μέγαν τροχὸν ὀξέϊ χαλκῷ260 τυτθὰ διατμήξας χερσὶ στιβαρῇσι πίεζον· αἶψα δ’ ἰαίνετο κηρός, ἐπεὶ κέλετο μεγάλη ἲς

260 Occorre notare che ci è pervenuto un frammento di Alcmane (fr. 102C) che rappresenta una variazione rispetto a questo passaggio. Il testo del frammento è il seguente: καί ποκ’ Ὀδυσσῆος ταλαὤασίφρονος ὤατ’ ἑταίρων / Κίρκα ἐπαλείψασα (“E una volta, dopo che le orecchie dei compagni di Odisseo glorioso Circe ebbe suggellato con la cera”). Tale frammento è formato da nessi e formule tipicamente epici, ma il contenuto è diverso da quello di Odissea XII; infatti, là Circe rivela ad Odisseo come sfuggire alle Sirene (39-54) e sarà Odisseo in persona a tappare le orecchie dei compagni con la cera (173-177), mentre qui è la maga Circe ad eseguire questa operazione. Questa variatio del mito tradizionale fa venire in mente le osservazioni fatte da Arrighetti, 1987, pp. 54-60, circa gli interventi operati da Stesicoro sul patrimonio tradizionale dei miti, a seconda di particolari esigenze del testo (ad esempio, nel fr. 217PMG Apollo dona l’arco ad Oreste, atto simbolico dell’intervento divino necessario per rompere la catena delle colpe che avvillupava la casata degli Atridi). Queste modificazioni del mito evidenziano il ruolo che il poeta attribuiva a se stesso nella collaborazione con la divinità ispiratrice: la Musa è la custode della memoria poetica tradizionale, è <<l’incarnazione della continuità di questa, e la sua opera, diciamo così, di salvaguardia della tradizione, si affianca a quella innovatrice del poeta>>.

Ἠελίου τ’ αὐγὴ Ὑπεριονίδαο ἄνακτος· ἑξείης δ’ ἑτάροισιν ἐπ’ οὔατα πᾶσιν ἄλειψα. οἱ δ’ ἐν νηΐ μ’ ἔδησαν ὁμοῦ χεῖράς τε πόδας τε ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνῆπτον· αὐτοὶ δ’ ἑζόμενοι πολιὴν ἅλα τύπτον ἐρετμοῖς. ἀλλ’ ὅτε τόσσον ἀπῆμεν, ὅσον τε γέγωνε βοήσας, ῥίμφα διώκοντες, τὰς δ’ οὐ λάθεν ὠκύαλος νηῦς ἐγγύθεν ὀρνυμένη, λιγυρὴν δ’ ἔντυνον ἀοιδήν· - ‘δεῦρ’ ἄγ’ ἰών, πολύαιν’ Ὀδυσεῦ, μέγα κῦδος Ἀχαιῶν, νῆα κατάστησον, ἵνα νωϊτέρην ὄπ’ ἀκούσῃς. οὐ γάρ πώ τις τῇδε παρήλασε νηῒ μελαίνῃ, πρίν γ’ ἡμέων μελίγηρυν ἀπὸ στομάτων ὄπ’ ἀκοῦσαι, ἀλλ’ ὅ γε τερψάμενος νεῖται καὶ πλείονα εἰδώς. ἴδμεν γάρ τοι πάνθ’, ὅσ’ ἐνὶ Τροίῃ εὐρείῃ Ἀργεῖοι Τρῶές τε θεῶν ἰότητι μόγησαν, ἴδμεν δ’ ὅσσα γένηται ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ.’ - ὣς φάσαν ἱεῖσαι ὄπα κάλλιμον· αὐτὰρ ἐμὸν κῆρ ἤθελ’ ἀκουέμεναι, λῦσαί τ’ ἐκέλευον ἑταίρους ὀφρύσι νευστάζων· οἱ δὲ προπεσόντες ἔρεσσον. αὐτίκα δ’ ἀνστάντες Περιμήδης Εὐρύλοχός τε πλείοσί μ’ ἐν δεσμοῖσι δέον μᾶλλόν τε πίεζον. αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ τάς γε παρήλασαν οὐδ’ ἔτ’ ἔπειτα φθόγγον Σειρήνων ἠκούομεν οὐδέ τ’ ἀοιδήν, αἶψ’ ἀπὸ κηρὸν ἕλοντο ἐμοὶ ἐρίηρες ἑταῖροι, ὅν σφιν ἐπ’ ὠσὶν ἄλειψ’, ἐμέ τ’ ἐκ δεσμῶν ἀνέλυσαν.

“-Delle Sirene dal canto divino per prima cosa ordinava che fuggissimo e voce e prato fiorito.

A me solo ordinava d’udire quel canto; ma voi con legami strettissimi dovete legarmi, perché io resti fermo,

in piedi sulla scarpa dell’albero: a questo le corde mi attacchino. E vi pregassi, se v’ordinassi di sciogliermi,

voi con nodi più numerosi stringetemi!-

Così, le cose a una a una dicendo ai compagni, parlavo. Intanto rapidamente giunse la nave ben fatta

all’isola delle Sirene, ché la spingeva buon vento. Ed ecco a un tratto il vento cessò; e bonaccia fu, senza fiati: addormentò le onde un dio. Balzati in piedi i compagni la vela raccolsero, e in fondo alla nave la posero; quindi agli scalmi seduti, imbiancavano l’acqua con gli abeti politi. Ma un gran ruota di cera col bronzo affilato

io tagliavo a pezzetti, li schiacciavo tra le mani gagliarde. In fretta s’ammorbidiva la cera, ché la premeva gran forza e la vampa del sole, del sire Iperione;

così, in fila, gli orecchi a tutti i compagni turai. Essi poi nella nave legarono me mani e piedi,

dritto sulla scarpa dell’albero, a questo le corde fissarono. Quindi, seduti, battevano il mare schiumoso coi remi. Ma come tanto fummo lontani, quanto s’arriva col grido, correndo in fretta, alle Sirene non sfuggì l’agile nave che s’accostava: e un armonioso canto intonarono:

-Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la nave, la nostra voce a sentire.

Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera,

se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose.

Noi sappiamo tutto quanto nell’ampia terra di Troia Argivi e Teucri patirono per volere dei numi;

Così dicevano alzando la voce bellissima, e allora il mio cuore voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi,

coi sopraccigli accennando; ma essi a corpo perduto remavano. E subito alzandosi Perimede ed Euriloco

nuovi nodi legavano e ancor più mi stringevano. Quando alla fine le sorpassarono, e ormai

né voce più di Sirene udivamo, né canto,

in fretta la cera si tolsero i miei compagni fedeli,

che negli orecchi avevo loro pigiato, e dalle corde mi sciolsero”.

Il contesto in cui si colloca la vicenda omerica delle Sirene è incentrato sul registro del canto. Infatti, il suono della voce delle Sirene, definita ora ὄπα (Odissea XII, 52, 160, 185, 187, 192), ora φθόγγον (41, 159, 198), è una λιγυρὴ ἀοιδή (44), che produce i medesimi effetti del canto delle Muse (τέρπειν, 52 e 188), affascina (θέλγειν, 40 e 44) e comunica sapere (188)261.

261 Il rapporto Muse-Sirene doveva apparire problematico già nell’antichità, tant’è vero che l’erudizione alessandrina tentò di darne una sistemazione, istituendo fra di loro un rapporto genealogico: Apollonio Rodio (Argonautiche IV, 895-896) indica come madre delle Sirene la Musa Tersicore; Eustazio (Commento all’Odissea 1709. 39-40) e Apollodoro (Epitome 7, 18) fanno riferimento a Melpomene; Servio (Commento all’Eneide 5, 864) pensa a Calliope. Tra le principali differenze fra i due “cori” è stato notato che le Sirene sono legate alla pratica funeraria, al goos e al suono stridulo dell’aulos. Infatti, oltre a varie documenti costituiti da opere di arte funeraria, in cui la Sirena è rappresentata vicino al defunto, nella prima parodo dell’Elena di Euripide, la protagonista, che è appena venuta a conoscenza delle disgrazie causate agli Achei dal simulacro portato a Troia al suo posto e della morte di Menelao e di Leda, si chiede a quale delle Muse si può rivolgere per intonare il canto di dolore; la risposta è alle “vergini figlie della Terra, le giovinette alate, le Sirene”, che accompagnano il loro canto con il flauto e la syrinx (164-173). Elena, quindi, chiede a Persefone che mandi dall’Ade il suo “luttuoso coro” (174-178). Invece, l’unica volta in cui le Muse eseguono un canto funebre in onore di un mortale è in occasione dei funerali di Achille (Odissea XXIV, 60) e, anche in quel caso, esse intonano un threnos, organizzandosi in due semicori che rispondono l’un l’altro in un canto ordinato. La Sirena è, dunque, in primo luogo una figura della morte, ma non è solo questo. Infatti, se, ad esempio, consideriamo il Partenio II di Pindaro, in cui si descrive una fase delle Dafneforie, una festa in onore di Apollo celebrata in Beozia, vediamo che una fanciulla del coro descritto al suono dell’aulos di legno di loto imita con il canto lo strepito della Sirena, “quello che fa tacere i soffi veloci di Zefiro e quando il fremente Borea infuria con la violenza della tempesta ed eccita l’impeto veloce del mare” (11-20). Siamo di fronte ad un’altra virtù del canto delle Sirene, quello di controllare gli elementi e in particolar modo i venti. Questo potere è presente, in filigrana, già nel racconto omerico, in quella

Omero non fornisce, invece, alcun dettaglio circa il loro aspetto fisico e la loro genealogia262, dice soltanto che stanno su un prato fiorito, attirano il viaggiatore con il loro canto, irresistibile e funesto, e verosimilmente lo conducono a morte, dato che sono circondate da ossa e cadaveri imputriditi. Nulla Omero ci dice sulla loro natura ed incerto è anche il loro numero: forse due, a giudicare dal fatto che ai versi 52 e 167 il loro nome è declinato al duale (Σειρήνοιϊν), ma nel resto dell’episodio viene usato il generico plurale (Σειρῆνες), senza specificazione di numero. Né è chiaro di quale morte perisca il malcapitato che dà ascolto al loro canto: è difficile dire se le ossa che le circondano siano il risultato di un’azione aggressiva o se semplicemente chi viene irretito dalla loro voce muoia di inedia. Omero incentra la caratterizzazione delle Sirene sulla loro voce e il loro canto e in questo esaurisce la loro presentazione. A dimostrare la centralità del canto nella fisionomia delle Sirene abbiamo anche i loro nomi, che si leggono per la prima volta in due frammenti del Catalogo delle donne di Esiodo (frr. 27-28 M.- W)263.

forza numinosa che produce la bonaccia attorno all’isola delle Sirene, all’accostarsi della nave di Odisseo. L’efficacia “metereologica” della voce delle Sirene è poi esplicitamente riconosciuta in un luogo del Catalogo delle donne di Esiodo 8fr. 28W): “Sono loro (scil. Le Sirene) ad incantare i venti”: seiren è la virtù magica del canto, la sua capacità di agire sulle cose terrestri e su quelle celesti. Per un’analisi approfondita della figura delle Sirene si vedano Bettini-Spina, 2007, Mancini, 2005 e Pollard, 1952, pp. 60-63.

262 Le prime testimonianze letterarie sull’aspetto e la genealogia delle Sirene provengono dalla tragedia attica (Sofocle, fr. 861 Pearson; Euripide, Elena, 167-168).

263 Nel fr. 27 Esiodo eleva il numero delle Sirene da due (numero che si poteva dedurre dall’uso del genitivo duale in Odissea XII, 52 e 167) a quattro e dà loro significativi nomi parlanti: Θελξιέπεια, Ἀγλαοφήμη, Πεισινόη e Λίγεια. Come spiega De Sanctis, 2003, pp. 203-206, vista l’attenzione di Esiodo per l’etimologia dei nomi (a questo proposito, si veda Arrighetti, 1987, pp. 13-30), Ἀγλαοφήμη indica la capacità di narrare gesta gloriose, quindi simboleggia la funzione del canto di tramandare la fama nel tempo (infatti, le Sirene dicono ad Odisseo di conoscere tutto ciò che accadde a Troia, come se possedessero lo stesso repertorio degli aedi omerici, il cui compito era tramandare quelle gloriose gesta); Θελξιέπεια indica la capacità del canto di affascinare, cosa di cui Circe mette in guardia Odisseo (XII, 40 e 44); Πεισινόη è colei che “convince la mente”, infatti, le Sirene promettono ad Odisseo che, una volta ascoltato il loro canto, se ne andrà dall’isola più felice e più saggio; Λίγεια indica la dolcezza del canto. Trasparente risulta anche il nome collettivo Κηληδόνες con cui Pindaro (Peana VIII) definisce le Sirene, sottolineandone la loro funzione di incantatrici (κήλω). Pindaro narra qui la fondazione del santuario di Delfi e, là dove il

Al verso 158 le Sirene sono definite da Omero θεσπέσιαι, un termine che ha un’importanza notevole per comprendere l’equiparazione eseguita da Alcmane fra Muse e Sirene264. Sappiamo che, ai versi 186-191, le Sirene spiegano ad Odisseo che il loro canto, che ha come effetto il piacere e l’incremento della conoscenza nell’ascoltatore, si basa <<su una conoscenza totale, che dai fatti contingenti di Troia, appartenenti al vissuto del loro interlocutore, si allarga all’insieme degli eventi che accadono nel mondo. Ciò significa che l’ampiezza delle loro conoscenze non ha confini, non è ristretta nei limiti di un sapere umano, condizionato necessariamente dall’hic et nunc- nello specifico per Odisseo dall’esperienza della guerra di Troia- ma si apre in un orizzonte sconfinato che abbraccia la totalità degli avvenimenti>>265.

Tra la fisionomia delle Muse e quella delle Sirene emergono, dunque, vistose analogie: 1) la centralità del canto, dotato delle medesime qualità per i due gruppi266. Infatti, sia le Muse che le Sirene possiedono un sapere immenso (le Muse sono onniscienti e le Sirene conoscono il passato e il presente)267 ed entrambe cantano con voce definita λιγύς, aggettivo che ha il significato di “canora”, ma anche di “acuta, chiara, penetrante”268; 2) gli effetti del canto,

testo difetta, ci viene in soccorso la testimonianza di Pausania (Periegesi della Grecia, 9, 37, 5), che ricorda che il terzo tempio costruito a Delfi per opera di Atena e di Efesto aveva mura e colonne di bronzo e sopra il frontone cantavano “sei Incantatrici d’oro”. Ma gli dei nascosero il tempio in una voragine della Terra, aperta con la folgore, “sbalorditi dalla dolce voce, perché gli stranieri perivano lontano dai figli e dalle mogli, avendo sospeso il proprio cuore a quella dolce voce alla mente” (72-79): sembrerebbe così che le Keledones continuino ad ispirare con le loro seducenti parole la Pizia dal profondo degli abissi di Delfi. Gli eruditi accostarono le Keledones alle Sirene, ad esempio Ateneo (I Sofisti a banchetto, 7, 290e), per il fatto che entrambe causano l’oblio in coloro che le ascoltano.

264 Calzecchi Onesti 1991 e Ferrari 2001 traducono “delle Sirene dal canto divino”; Paduano 2010 e Di Benedetto 2010 traducono “delle divine Sirene”; Heubeck-Privitera 2003, p. 322, affermano, invece, che le Sirene sono θεσπέσιαι perché annunciano il divino e cantano divinamente.

265 Calabrese De Feo, 2011, pp. 15-16.

266 A questo proposito, occorre notare che Omero, parlando delle Sirene, usa solo termini che sono pertinenti al registro della parola e dell’ascolto: ἀκούω ( 41, 48, 49, 52, 160, 193, 198), φθόγγον (41, 159, 198), ὄπα (160, 185, 187, 192) e ἀοιδή (44 e 183). 267 Per l’onniscienza delle Sirene: Omero, Odissea XII, 189-191; per l’onniscienza delle

Muse, Iliade II, 485 (ἴστε τε πάντα) ed Esiodo, Teogonia, 38 (εἴρουσαι τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρὸτ τ’ ἐόντα).

ovvero la capacità di ingenerare sensazioni di godimento e di fascino269.

In base a queste considerazioni è dunque possibile affermare che le Sirene sono definite θεσπέσιαι al v. 158 di Odissea XII, perché, analogamente alle Muse, attraverso il canto esprimono un sapere immenso, ineguagliabile da parte

delle Sirene, usa il termine φθόγγον (41) e Odisseo, riferendo ai compagni il discorso della maga, sottolinea come prioritaria la necessità di evitare lo φθόγγον delle Sirene (159). La preoccupazione è del tutto giustificata perché la voce delle Sirene ha l’intensità di un grido, produce suoni penetranti e prolungati e risuona incessantemente, come racconterà Odisseo a Penelope (Odissea XXIII, 326: ἠδ’ ὡς Σειρήνων ἁδινάων φθόγγον ἀκούσεν). Infatti, nell’uso omerico, φθόγγον può essere usato sia per indicare la voce degli uomini che quella di esseri mostruosi, quali le Sirene e Polifemo. Il contesto è però sempre quello di voce emissione di voce inarticolata, del grido di guerra o di terrore, o che produce terrore (ad esempio, Iliade V, 234; Odissea XVIII, 199; per la voce di Polifemo, Odissea IX, 257). L’uso di questo termine nel campo della teoria musicale, benché codificato più tardi, ci fornisce un’altra indicazione: φθόγγον significa anche “nota musicale” (Liddel-Scott-Jones, 1996; Thesaurus Linguae Latinae, 1910-1972), ovvero indica un suono esprimibile in un’unica emissione di voce, continua e non modulata. Solo in un secondo momento, quando la nave si avvicina, subentra l’ἀοιδέ vero e proprio, che è definito λιγύς. Il valore di tale aggettivo non è lontano da quello di λαλός, con cui in un epigramma dell’Antologia Palatina (9, 184) viene definita proprio la Sirena. Tale aggettivo indica un rumore continuo, monotono, simile al gorgogliare dell’acqua o al frinire delle ali di un insetto, ma anche al chiacchiericcio senza senso dei perdigiorno e delle donne (ad esempio, è detto di un uccello in Aristotele, Storia degli animali, 4, 9, 536a; dell’acqua in Pseudo- Anacreonte, Anacreontiche, 12, 7; delle ali della cavalletta in Antologia Palatina, 7, 195, 4). Non lontano da quello di λαλός è il valore di λιγύς e di λιγυρός, ossia “dalla voce acuta”. Associato al canto delle Sirene, lo connota in modo ambiguo, in quanto in Omero e nella poesia arcaica, λιγύς può dirsi tanto della voce chiara e distinta (e, quindi, dotata di un significato), come quella dell’araldo, quanto del verso acuto, sibilante (e, quindi, non articolato) emesso dagli uccelli, dal frinire degli insetti o dal rumore prodotto dal vento (ad esempio, è detto del vento in Iliade XIV, 17; del suono della lira in Odissea VIII, 67; del sibilo della frusta in Iliade XI, 532; del frinire della