• Non ci sono risultati.

IL FR 3C: UN ESEMPIO DELLA POETICA “MISTA” DI ALCMANE

Fr. 3C=14aD

Il fr. 3C=14aD contiene ben quattro riferimenti alla poetica di Alcmane, precisamente ai versi 36-40, 85-87, 96-98 e 100-101, la cui analisi costituisce un buon punto di partenza per arrivare alla definizione dell’ “io poetico” di Alcmane e del suo rapporto con la tradizione, come è stato specificato nell’introduzione di questo lavoro.

Prima di tutto occorre precisare che il fr. 3C costituisce il più ampio testo a noi noto di Alcmane. Esso ci è stato restituito dal Papiro del Louvre E3320, conosciuto come “Papiro Mariette”, che è stato ritrovato nel 1855 e che ci ha conservato sei strofe complete di quattordici versi ciascuna e due incomplete, una all’inizio ed una alla fine del canto197.

Il testo faceva parte di un partenio, ossia di un canto processionale eseguito da un coro di vergini per una festa pubblica in onore di una divinità. Infatti, le feste pubbliche avevano una parte di rilevo nella vita di Sparta arcaica e Alcmane preparava per ogni festa un nuovo componimento e ne curava l’esecuzione da parte di un coro di fanciulle, sue allieve, perlopiù di origine aristocratica, che cantavano e danzavano con accompagnamento musicale198. In relazione a questo Garzya afferma che <<le esecuzioni corali occupano nell’età arcaica il posto che in età attica sarà degli agoni drammatici>>199.

La struttura del componimento era costituita da tre parti: un’invocazione di

197 Calame, 1983, p. 311.

198 Fränkel, 1962 (1997, pp. 245-247). 199 Garzya, 1963, p. 19.

apertura, il mito, l’attualità della festa e dell’esecuzione corale200.

Il testo è fitto di riferimenti impliciti alla situazione rituale, sulla cui interpretazione restano ancora molti dubbi. Rinunciando a discutere nel dettaglio le varie opinioni espresse dalla critica, mi limito qui a fissare i dati più verosimili201.

Nella festa, che si svolgeva di notte (si veda il verso 62, νύκτα δι’ ἀμβροσίαν, ma alcuni accenni lasciano prevedere l’approssimarsi dell’alba202), il coro delle vergini portava un oggetto sacro, probabilmente un mantello o un aratro203 al tempio di una dea. Questa è nominata come Ἀώτις al verso 87, ma noi non sappiamo nulla di una divinità che portasse questo appellativo, perciò gli studiosi hanno formulato varie ipotesi204.

All’aspetto cultuale si sovrappone, come motivo centrale del canto, la lode di due fanciulle, che nel coro hanno una funzione di preminenza: Agido ed Agesicora. Il coro ora le accosta, ora le contrappone in una gara di bellezza e di grazia e conclude affermando la superiorità di Agesicora nell’arte del canto, che è garanzia di successo.

200 Garzya, 1963, p. 29.

201 Secondo Toynbee, 1969, p. 360, ad esempio, l’occasione in cui venivano istituiti i cori di fanciulle era l’uscita dall’adolescenza; durante il rito le giovani dovevano dimostrare di essere pronte per ricoprire il ruolo di mogli. Quindi, oltre che religiosi, erano riti con valenza sociale.

202 Si vedano l’accenno al sole del verso 41 e il ricorrere di termini relativi alla sfera della luce: φῶς , 40; φαίνην, 43; χρυσός, 54; Ἀώτι, 87.

203 Al verso 61 il participio φεροίσαις regge φᾶρος, termine che indica un velo fittamente ricamato, che si soleva offrire alla divinità.

204 Per un quadro completo delle possibili identificazioni di Ἀώτις, si veda Bowra 1961 (1973, pp. 72-73). In sintesi, considerando che gli studiosi al v. 61 preferiscono la variante Ὀρθίαι ad Ὀρθρίαι, si può supporre che il canto fosse dedicato ad Artemide Ortia, che era considerata protettrice delle ragazze e che aveva un culto, che ci è testimoniato dagli scavi archeologici, che hanno riportato alla luce a Sparta il tempio di questa dea. Altri studiosi, fra cui Calame, ritengono invece che il canto fosse stato composto in onore di Elena, la quale aveva una festa a Sparta, gli Ἐλένεια, a cui partecipavano ragazze sopra carri detti κάνναθρα. Le seguaci di Elena erano chiamate πῶλοι, puledre, termine che pare riecheggiato dal riferimento ai cavalli dei versi 59-60. Sappiamo poi che a Sparta il termine πῶλος era usato per indicare una corporazione di quindici sacerdotesse, chiamate Λευκιππίδες; è quindi possibile che il coro di Alcmane fosse formato dalle Leucippidi.

Vediamo nel dettaglio alcuni versi del componimento (36-40): ἔστι τις σιῶν τίσις. ὃ δ’ ὄλβιος, ὅστις εὔφρων ἁμέραν διαπλέκει ἄκλαυτος. ἐγὼν δ’ἀείδω .Ἀγιδῶς τὸ φῶς.

“C’è in castigo che viene dagli dei. Felice chi è sereno

E trascorre il suo giorno Senza pianto. Ora io canto La luce di Agido”.

Il verso 36205 segna il passaggio dalla parte mitica all’occasione del canto. Il poeta, che parla in prima persona per bocca del coro, comincia con una costruzione sintattica ἔστι τις, usata tipicamente per introdurre affermazioni di carattere gnomico206: la vendetta degli dei si abbatte inevitabilmente su coloro che osano oltrepassare i limiti imposti agli uomini e il coro contrappone a un tale individuo colui che si accontenta di ciò che ha ed è per questo felice207.

Εὔφρων

è un termine di derivazione omerica. Infatti, nell’Iliade ricorrono due

forme derivate di εὔφρων, ossia εὐφραίνω ed εὐφρονέω. In cinque casi (V, 688; VII, 194; VII, 292; XVII, 28; XXIV, 102) εὐφραίνω ha il significato di “allietare” i propri familiari, facendo ritorno a casa. Quindi è chiaro che εὔφρων significhi “lieto”, “gioioso”.

La seconda forma derivata da εὔφρων, ossia εὐφρονέω, è quella che ha portato

205 Calame, 1983, p. 322. 206 West, 1980, p. 142. 207 Calame, 1977, pp. 64-65.

al verbo φρονεῖν, “pensare”. Il termine ricorre ben nove volte nell’ Iliade nel verso formulare ὅ σφιν εὐφρονέων ἀγορήσατο καὶ μετέειπεν. In tutti i casi in cui compare (II, 78; I, 73; II, 283; VII, 367; XV, 285; XVIII, 253; XVIII, 252; IX, 95) εὐφρονέων non ha più soltanto il significato di “sereno”, ma indica la caratteristica propria di chi, essendo in possesso di buone φρένες, è in grado di dare buoni consigli. Chi è εὔφρων ha “buoni pensieri” o perché è ispirato dalla divinità, o perché possiede l’esperienza delle generazioni passate, o perché è semplicemente riconosciuto come tale in quanto è risultato superiore agli altri per i suoi buoni consigli; ma in Omero non si dice mai che egli è tale grazie alla propria riflessione e meditazione. Nell’Odissea (III, 268; XIV, 421; XVI, 398) sembra esserci un’ulteriore evoluzione laddove si dice che un uomo che si comporta bene ha buone φρένες208. Ciò implica un’attività che si esercita con le φρένες, ma che è ancora lontana dal concetto di pensiero autonomo209

.

ἐγὼν δ’ἀείδω τὸ φῶς

costituisce una struttura-clichè: alla costruzione

“cantare+accusativo” , in cui il verbo ἀείδω, che indica l’azione del canto ed è strettamente connesso con il sostantivo αὐδή, indica nello specifico la voce umana. Alcmane canta Ἀγιδῶς τὸ φῶς, “la luce di Agido”. Generalmente, l’espressione ἀείδειν τινα ha nel periodo arcaico il significato di “celebrare”, “rendere immortale” qualcuno con la forza eternatrice della poesia210 cosicché il canto per colui che viene lodato è la sua fama (κλέος). Il verbo ἀείδω transita direttamente sull’oggetto della celebrazione, Agido, e soprattutto sulla luce che da lei si diffonde, metafora della sua bellezza fisica.

La particolarità del legame ἀείδειν - τὸ φῶς è data dalla commistione semantica fra la sfera sensoriale visiva (τὸ φῶς) e quella uditito (ἀείδειν):

208 Snell, 1978 (1991, p. 88) e 1979, pp. 1013-1035; Janni, 1962, pp. 181-182, ammette la possibilità che εὔφρων equivalga a σώφρων in base a Platone, Protagora 333d.

209 Snell, 1978 (1991, pp. 84-89).

210 Bertelli-Lana, 1977, p. 189-190. Fra i numerosi esempi dello stretto rapporto fra αὐδή e κλέος nella lirica arcaica, a vantaggio del poeta o del laudandus, o di entrambi, si vedano il primo verso dell’Iliade (Μῆνιν ἀείδε θεά); Saffo, fr. 21Voigt, 12-13 (ἄεισον ἄμμι | τὰν ἰόκολπον); Anacreonte, fr. 37Gentili, 1-3 (Ἔρώτα... ἁβρόν | μέλομαι... | ἀείδειν) e Ibico, fr. S151 PMGF, 47-48 (καὶ σύ, πολύκρατες, κλέος ἄφθιτον ἕξεις | ὡς κατ’ ἀοιδᾶν καὶ ἐμὸν κλέος).

siamo di fronte ad una sinestesia. L’espressione “cantare la luce di qualcuno”, a cavallo fra il senso dell’udito e della vista, è rintracciabile nell’Iliade (XVI, 127): λεύσσω δὴ παρὰ νηυσὶ πυρὸς δηίοιο ἰωήν (“vedo il grido del fuoco devastatore presso le navi”), in cui il fuoco è l’elemento di raccordo fra la dimensione visiva ( λεύσσω) e quella uditiva (ἰωήν)211

e nell’Inno IV (ad

Hermes, 451), in cui si evoca la “luminosa via del canto” (ἀγλαὸς οἶμος

ἀοιδής).

Infine è utile ricordare un passo dell’Odissea, in cui Omero descrive l’accoglienza calorosa di Penelope al figlio Telemaco, tornato ad Itaca dopo un lungo viaggio. Ella lo abbraccia, gli bacia la testa, entrambi i begli occhi e gli rivolge “alate parole” (XVII, 41-44):

ἦλθες212, Τηλέμαχε, γλυκερὸν φάος. οὔ σ’ ἔτ’ ἐγώ γε ὄψεσθαι ἐφάμην, ἐπεὶ οἴχεο νηῒ Πύλονδε λάθρῃ, ἐμεῦ ἀέκητι, φίλου μετὰ πατρὸς ἀκουήν. ἀλλ’ἄγε μοι κατάλεξον ὅπως ἤντησας ὀπωπῆς.

“Sei qui, Telemaco, dolce luce! Mai più credevo di rivederti, da che sulla nave partisti per Pilo,

in segreto, senza il consenso mio, cercando notizie del padre. Ma raccontami bene quanto ti capitò di vedere”.

In questi versi, insistendo su vista e udito, Omero inserisce la sinestesia γλυκερὸν φάος, in cui sono connesse la sfera della vista e quella del gusto. La

211 Avezzù-Ciani (a cura di), 1998, p. 728, n. 8.

212 Ἦλθες all’inizio di frase è un modulo espressivo che sottintende un “ben tornato” per chi rientra dopo una lunga assenza e ormai non è più atteso, e ha implicita una punta di ψόγος per il ritardo. Lo ritroviamo in Archiloco (fr. 24.2W2), in Alceo (fr. 350Voigt), in cui il poeta si rivolge al fratello Antimenida, tornato da una campgna militare in Palestina, in Teognide (511 e 1250) e in Saffo (fr. 48Voigt).

“dolce luce”, cui allude Penelope, potrebbe, dunque, avere costituito un precedente, se non già un modello, a cui Alcmane potrebbe essersi ispirato.

Dunque, l’aggettivo εὔφρων sopra esaminato ha indubbiamente il significato di “sereno”, “felice” ma, se considerato in relazione con il successivo ἐγὼν δ’ἀείδω τὸ φῶς, con cui il poeta sottolinea di essere il creatore del canto, rivendicando la sua innata abilità poetica, allora εὔφρων potrebbe essere semanticamente vicino all’omerico εὐφρονέω e, riferito al poeta, sottolinea la sua capacità di comporre canti, essendo dotato di buoni pensieri. Anche qualora intendessimo εὔφρων semplicemente come “felice”, ἐγὼν δ’ἀείδω τὸ φῶς marcherebbe ugualmente la partecipazione del poeta-compositore a questa felicità, come se Alcmane dicesse: <<Questo è un giorno di felicità ed io, da parte mia, canto la luce di Agidio>>.

Passiamo ora all’analisi di altri versi di questo stesso partenio (96-98):

ἃ δὲ τᾶν· Σηρηνίδων

ἀοιδοτέρα μὲν [οὐχί],

σιαὶ γὰρ.

“E lei delle Sirene Non è più melodiosa,

Infatti sono dee”.

ἃ δὲ

designa Agesicora, che nei versi immediatamente precedenti è stata

paragonata ad un cavallo e ad un nocchiero (92-95)213.

213 τῶι τὲ γὰρ σηραφόρωι / αὐτῶς ἕπεται μέγ’ ἅρμα, / τῶι κυβερνάται δὲ χρή / κἠν νᾶι μαλ’ ἀίεν ὦκα (“Così i cavalli legati alle sbarre /aiutano ai lati l’alto carro in corsa: / così bisogna docili seguire / sulla nave il pilota”).

ἀοιδοτέρα μ...[

implica l’inserzione nella lacuna di una negazione, οὐχί,

accolta da Calame e dalla maggior parte degli studiosi214. Secondo questa integrazione, il coro starebbe esprimendo l’impossibilità che la voce di Agesicora possa superare quella delle Sirene, che sono delle divinità. Siamo di fronte ad un adynaton, ovvero alla figura retorica che indica “ciò che è impossibile”, in una forma sintattica negativa.

Σηρηνίδων

è il termine di paragone cui è impossibile accostare Agesicora; le

Sirene, inoltre, in questo fr. 3C fanno la loro prima comparsa215.

Il più antico racconto di Sirene che Alcmane aveva alle spalle è quello omerico (Odissea XII, 39-54; 158-200)216, che si articola in tre tempi, inseriti nel quadro più ampio del racconto di Odisseo ai Feaci. Infatti, la prima volta (39-54) le Sirene vengono presentate per bocca di Circe, che mette in guardia Odisseo contro il primo pericolo che incontrerà nel viaggio di ritorno ad Itaca; in un secondo momento (158-164), una volta salpati da Eea, Odisseo ripete ai compagni le precauzioni suggeritegli dalla maga; infine (166-184), l’eroe riferisce al suo uditorio nella reggia di Alcinoo ciò che ha sperimentato dal suo osservatorio privilegiato, legato all’albero maestro della nave, unico fra i compagni a beneficiare dell’irripetibile esperienza di udire impunemente il canto delle Sirene.

214 Calame, 1983, p. 346; Davies, 1991, p. 27. Hutchinson 2001 legge in modo diverso la lacuna del papiro e segue l’integrazione di Van der Mühll ἀοιδοτέρα μὲ[ν αὐδά] (“il canto delle Sirene è più melodioso”). L’integrazione μὲν οὐχί è criticata da Pavese, 1992, p. 92, poiché questa forma di negazione non sarebbe attestata nella lirica arcaica, mentre nell’epica si trova solo la formula ἠὲ καὶ οὐχί. Secondo Pavese è più probabile la negazione οὐδέν o οὔτι o οὔτοι .

215 West, 1992, pp. 253-255; Gentili, 1976, pp. 59-67; Calame, 1983, p. 346; Ferrari, 2008, pp. 97-98, intendono Σηρηνίδων=Sirene. Calame, 1977, pp. 79-82, fa notare che nel testo di Alcmane non compare propriamente il termine Σηρήνων, ma Σηρηνίδων, un composto con il suffisso -ιδης, che normalmente indica la filiazione e che, quindi, indicherebbe le figlie delle Sirene. Tuttavia, la tradizione mitologica non ci ha trasmesso nulla circa l’esistenza di figlie di Sirene, perciò è probabile che ci troviamo di fronte alla forma sostantivata dell’aggettivo Σηρηνίς.

216 Oltre al racconto omerico una fonte prealcmanea del mito delle Sirene è costituito da due frammenti del Catalogo di Esiodo (frr. 27-28MW), per i quali si veda lo studio di De Sanctis, 2003, pp. 197-206.

Nel breve discorso con cui Odiseeo riferisce ai compagni i consigli di Circe, le Sirene vengono definite θεσπεσίαι, ovvero “dal canto divino” (159)217

. Abbiamo così un primo parallelo fra i versi 96-98 di Alcmane e l’episodio delle Sirene omeriche: in entrambi i casi viene sottolineato il loro carattere divino (σιαὶ γὰρ in Alcmane, θεσπεσίαι in Omero). Inoltre, anche nei versi di Alcmane il carattere divino delle Sirene è detto in relazione al loro canto: l’aggettivo ἀοιδοτέρα sopra esaminato (aggettivo che è formato a partire dal verbo ᾄδειν, “cantare”) è riferito alla corega Agesicora che non può essere definita “più melodiosa”, “più canora” delle Sirene, che sono dee. Riscontriamo, dunque, una relazione fra il canto e il divino, che era già presente nella tradizione letteraria precedente Alcmane: in Omero, il nesso θεσπεσίη ἀοιδή si trova solo nel passo relativo alla vicenda di Tamiri che, colpevole per aver sfidato le Muse nel canto, viene privato della sua θεσπεσίη ἀοιδή (Iliade II, 594-600). In Esiodo, la nozione di αὐδὴ θέσπις (Teogonia, 31-32) si riferisce al canto che le Muse hanno ispirato ad Esiodo alle pendici dell’Elicona218.

Nel racconto omerico le Sirene riferiscono a Odisseo che il loro canto spazia dagli eventi della guerra di Troia a quelli che accadono nel mondo (184-191), ovvero che la loro conoscenza non è confinata entro i limiti del sapere umano ma, attraverso il canto, danno voce ad un sapere θεσπέσιος, divino, in quanto

217 L’aggettivo θεσπεσίος (la cui forma abbreviata è θέσπις) rimanda, per quanto riguarda l’etimologia, al sostantivo θεός e ad una radice di un verbo di dire, ed ha il significato di “detto dal dio”, “pronunciato dal dio”(Chantraine, 1968, p. 432). Nell’epica omerica, all’aggettivo θεσπεσίος vengono attribuiti valori diversi: una generica valenza divina (Iliade II, 600 “canto divino”; Odissea XIII, 363 “antro divino”), un senso di “straordinario, meraviglioso, prodigioso” (Iliade II, 670 “immense ricchezze”; Odissea IX, 434 “lana meravigliosa”), oppure può assumere una sfumatura negativa (Iliade IX, 43 “grida raccapriccianti”; Iliade XIII, 834 “grido tremendo”; Odissea III, 150 “grido terribile”). Per un’analisi approfondita del termine si veda lo studio di Calabrese De Feo, 2011.

218 Arrighetti, 1998, 5, traduce l’espressione esiodea “un canto divino”; Colonna, 1977 “una voce divina”; Pucci, 2007, 27 “una voce mi ispirarono divina”. Calabrese De Feo, 2011, pp. 18-19, nota che la collocazione in enjambement dell’aggettivo θέσπις rispetto al sostantivo αὐδή vuole indicare che esso non si riferisce ad una caratteristica intrinseca della voce del poeta ma al fatto che, dopo l’incontro straordinario con le Muse, la voce di Esiodo è diventata θέσπις, nel momento in cui ha subito l’ispirazione delle dee e si è trasformata in voce di poeta.

senza limiti e non rapportabile ai parametri umani. Ecco allora mi pare si possa istituire un secondo parallelo fra i versi 96-98 di Alcmane e l’episodio omerico: l’impossibilità per Agesicora di cantare in modo più melodioso delle Sirene è dovuto al loro carattere di esseri divini, depositari di un sapere straordinario, che non può essere uguagliato da un mortale219.

Poiché è accertato che Alcmane istituisce un parallelo fra le Muse e le Sirene220, mi pare si possa affermare che nei versi 96-98, rispetto e in contrasto con i versi 36-40 sopra analizzati, egli si mantenga più legato alla tradizione, come se volesse ribadire che la voce del coro e, quindi, la voce del poeta stesso, è poco in confronto a quella delle Muse e vale nulla senza il loro “patrocinio”, perché il canto poetico è da intendersi come dono divino221

.

Più avanti Alcmane mostra, invece, come sia possibile paragonare la voce

219 Da notare, inoltre, che non solo nel canto e nella conoscenza non è possibile paragonare un uomo ad un dio, ma neanche per bellezza e forza fisica. Si pensi a Niobe, moglie del re di Tebe Anfione cui diede quattordici figli, sette maschi e sette femmine (Iliade XXIV, 602-612), ammirati da tutti per la loro bellezza. Per questo Niobe si macchiò di ὕβρις nei confronti di Latona, impedendo l’esecuzione dei riti in suo onore, scatenando così la vendetta di Apollo e di Artemide, che uccisero tutti i suoi figli. Non è possibile neppure equiparare un mortale ad un dio per l’abilità manuale, si pensi alla vicenda di Aracne, giovane fanciulla trasformata in ragno da Atena per essersi proclamata superiore alla dea nel tessere (Ovidio, Metamorfosi VI, 1-145). 220 Si tratta nello specifico del fr. 86C che analizzerò nel dettaglio nel capitolo VI. Per il

parallelo istituito da Alcmane fra Muse e Sirene si vedano Wilamowitz-Moellendorff, 1897, pp. 251-263; Buschor 1944; West, 1967, pp.1-15.

221 Che la poesia fosse dono delle Muse e, quindi, verità rivelata (verità in quanto si tratta di un dono proveniente dalla divinità onnisciente) era implicito già in alcune espressioni dell’Iliade, là dove la Musa è invocata per cantare essa stessa (I, 1 “Μῆνιν ἄειδε, θεά”), o per dire al poeta qualcosa che gli preme raccontare (II, 484 “Ἔσπετε νῦν μοι, Μοῦσαι”) e all’inizio della Teogonia esiodea (22-34), dove il poeta si definisce depositario del dono del cantare la verità, trasmessogli dalle Muse. Janni (1965, pp. 90-91), invece, vede riflesso nei versi 96-98 di Alcmane il precetto delfico μηδὲν ἄγαν: << Alcmane sembra dunque essere stato un autentico portavoce dello spirito delfico, anche in un aspetto che non è tra i più appariscenti e che ha, al contrario, attratto ben poco l’attenzione degli studiosi della poesia arcaica. Intendo l’estensione del principio del μηδὲν ἄγαν alle manifestazioni più insignificanti della vita quotidiana e agli atti culturali; (…) la cronologia non si oppone a riconoscere in Alcmane un poeta operante già sotto l’influenza della religiosità che da Delfi diffondeva un complesso di dottrine morali fortemente coerenti, e che già mirava all’egemonia sugli spiriti, ben presto unita a un determinante peso politico. La nostra opinione è oggi ancora quella del Wilamowitz, quando riteneva che massime e culto di Apollo Pizio fossero già diffusi nel VII secolo. (…) Molti aspetti della poesia di Alcmane debbono considerarsi, accanto ai numerosi indizi storici, come un segno dei rapporti fra Delfi e Sparta già nel VII secolo>>. Riprenderò questa discussione sui rapporti fra Delfi e Alcmane analizzando il fr. 86C nel capitolo VI, laddove discuterò anche della possibile connessione tra l’oracolo di Apollo e il culto delle Sirene.

umana a quella di un uccello, in questo caso particolare un cigno (100-101):

φθέγγεται δ’ἄρ’ ὥτ’ ἐπὶ Ξάνθω ῥοαῖσι κύκνοσ· ἃ δ’ ἐπιμέρωι ξανθαῖ κομίσκαι.

“Canta come sulle correnti di Xanto

un cigno; e lei con la bionda chioma, desiderabile”.

φθέγγομαι

ha come soggetto Agesicora222, la corega del partenio, la cui voce

è stata esaltata dal coro nei versi precedenti.

κύκνος: si tratta di

un parallelismo fra la voce di Agesicora e quella della

divinità è impossibile, tuttavia la ragazza può essere paragonata ad un cigno che, nell’immaginario greco, era animale ᾠδικός223, il cui canto era considerato

simbolo di dolcezza e di sacralità224.

L’unico passo dei poemi omerici che fa riferimento al suono emesso dal cigno è nel II libro dell’Iliade (459-466):

τῶν δ’, ὥς τ’ ὀρνίθων πετεηνῶν ἔθνεα πολλά, χηνῶν ἢ γεράνων ἢ κύκνων δουλιχοδείρων, Ἀσίῳ ἐν λειμῶνι, Καυστρίου ἀμφὶ ῥέεθρα, ἔνθα καὶ ἔνθα ποτῶνται ἀγαλλόμενα πτερύγεσσι, κλαγγηδὸν προκαθιζόντων, σμαραγεῖ δέ τε λειμών, ὣς τῶν ἔθνεα πολλὰ νεῶν ἄπο καὶ κλισιάων ἐς πεδίον προχέοντο Σκαμάνδριον· αὐτὰρ ὑπὸ χθὼν

222 Per questa interpretazione si veda Calame, 1983, p. 347. Invece, secondo Pavese, 1992, pp. 94-95, il soggetto di è il coro.

223 Aristotele, Ha, 615a.

224 Il valore sacrale dei cigni per gli antichi Greci è ricordato anche da Platone (Phd. 84e- 85b), laddove Socrate afferma che i cigni, sentendo l’avvicinarsi della morte, che per loro rappresenta un ricongiungimento con il dio Apollo, di cui sono servitori, cantano nel modo più sublime (85a: πλεῖστα καὶ κάλλιστα ἄδουσι). Socrate, considerandosi servo della stessa divinità, si paragona ad un cigno e, come questo animale, percepisce il momento della morte e lo affronta con serenità.

σμερδαλέον κονάβιζε ποδῶν αὐτῶν τε καὶ ἵππων.

“Di questi, come innumerevoli schiere d’uccelli alati, di oche, di gru o di cigni lungo collo,

nei prati dell’Asia, sulle correnti del Caistro, qua e là volteggiando, sbattendo l’ali con gioia, e mentre con gridi si posano la prateria risuona, così innumerevoli schiere di questi dalle navi e dalle tende si riversavano nella pianura Scamandria; la terra rimbombava

terribilmente sotto i piedi loro e dei cavalli”.

In questa similitudine viene descritta dal punto di vista sonoro la scena degli Achei incitati da Atena a combattere ed il loro fragore nella corsa in armi nella pianura dello Scamandro. Qui Omero non descrive il vero e proprio canto del cigno, ma il suono di uno stormo di cigni, unito al rumore delle loro ali. Ciò non vuol dire, però, che il cigno, al tempo di Omero, non fosse considerato un animale dal suono gradevole, ma solo che uno stormo di cigni, come di qualsiasi altro tipo di uccelli, genera fragore e non canto.

È difficile ammettere che fra Omero ed Alcmane sia intervenuto un cambiamento tanto radicale nell’estetica acustica, da far ritenere il canto dei cigni disarmonico nel primo e melodioso nel secondo225.

Quindi, uno stormo di cigni produce una κλαγγή, mentre un solo cigno emette