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Il fr. 143C=40D è stato tramandato adespoto da Plutarco (Vita di Licurgo, 216), che ricorda soltanto che il verso fu composto da un λακωνικὸς ποιητής237. L’autore della Vita di Licurgo delinea le caratteristiche della società spartana arcaica, in cui musica e guerra erano non solo compatibili, ma persino complementari: lo stesso re sacrificava alle Muse prima di andare in battaglia, mentre l’esercito marciava contro il nemico al ritmo dell’aulos238, che secondo lo pseudo-Plutarco (De musica, 26) intonava la cosiddetta melodia di Castore (Καστόρειον μέλος)239. Quest’ultima era, secondo Polluce (IV, 78), una melodia usata dagli Spartani, scandita da un ritmo di marcia (ἐμβατήριος) anapestico. Ancora nella Vita di Licurgo (22, 5), Plutarco menziona il peana di marcia (ἐμβατήριος), intonato dai soldati spartani prima dell’assalto al nemico.

ἕρπει γὰρ ἄντα τῶ σιδάρω τὸ καλῶς κισαρίσδην.

“Infatti contro alle armi muove Il suono bello della cetra”.

Ἕρπει

è un verbo di movimento che, come spiega Chantraine240, si riferisce

237 Studiosi come Calame, 1983, p. 550, ritengono autentico il frammento, mentre altri, come Janni, 1965, pp. 91-95, lo considerano <<sicuramente non alcmaneo>> per motivi linguistici: uso dell’articolo + infinito come elemento più moderno rispetto all’uso omerico, in quanto l’infinito con l’articolo, prima di Pindaro si incontra solo in Alceo, fr. 400 e in Simonide fr. 598P.

238 Plutarco, Vita di Licurgo, 21.4; Ateneo, XII, 517a e XIV, 627d. 239 Di questa danza parla anche Pindaro, Istmica I, 15 e Pitica II, 69. 240 Chantraine, 1968, p. 374.

propriamente al “muoversi scivolando” proprio di animali che strisciano, come i serpenti. In età classica, questo verbo viene usato anche in riferimento a concetti astratti, come mostrano Euripide (Troiane, 547), che lo riferisce a ἥβη, ed Aristofane (Cavalieri, 673), che lo collega al termine πόλεμος.

Ἄντα

è una preposizione che in Omero possiede valore avversativo, come in

Iliade XXIII, 116241. A seconda dell’interpretazione in senso associativo od oppositivo dell’espressione ἕρπειν + ἄντα, si hanno diverse traduzioni: “procedere di pari passo”, “rivaleggiare”, “opporsi”242

. Certo, quale che sia il valore da dare a questa espressione, è chiaro che Alcmane pone a confronto i due concetti di guerra e di musica, attraverso i rispettivi rappresentanti, il ferro e il citareggiare, che secondo Plutarco (Vita di Licurgo, 21,6) facevano dei Lacedemoni un popolo di μουσικώτατοι e di πολεμικώτατοι.

τῶ σιδάρω

era il termine usato per designare la spada, le armi o, più

genericamente la guerra. Tale metonimia sembra essere molto antica243 ed è probabile che già all’epoca di Alcmane questo termine fosse entrato nel linguaggio comune nella sua accezione metaforica.

τὸ κισαρίσδην

: come il ferro è il simbolo delle armi e dello stesso ardore

guerresco244, così il citareggiare rappresenta qui gli strumenti e i canti, e più in generale la dedizione del popolo spartano alla pratica musicale nella vita

241 Per approfondimenti circa questa preposizione si veda Chantraine, 1968, pp. 92-93. 242 Si vedano Gentili-Catenacci, 2007, p. 250 e Calame, 1983, p. 551. Campbell, 1982,

p.219 è propenso ad accogliere la correzione ῥέπει e a intendere con il senso di “prevalere, far piegare la bilancia, inclinare”, e non in senso di equilibrato parallelismo o di opposizione.

243 Iliade IV, 485; XVIII, 34; XXIII, 30 per σίδηρος in luogo di “spada”, “arma”; Iliade IV, 123 per σίδηρος in luogo di “punta di freccia”; Esiodo, Erga, 385, per σίδηρος in luogo di “falce”. Altrove la guerra può essere rappresentata non già dal materiale delle armi, ma da una parte di esse, ad esempio da una “punta di lancia”, αἰχμή, come in Anacreonte (fr. 109G): δακρυόεσσάν τ’ ἐφίλησεν αἰχμήν. Calame, 1983, p. 551, ricorda, inoltre, sulla scorta di Nilsson, 1933, p. 232, che nel cosiddetto periodo geometrico le armi sono fatte di ferro.

quotidiana245. In Iliade XVIII (570), il verbo κιθαρίζειν indica che l’attività propria del corego comprendeva sia il canto che il suonare la cetra; invece, nello Scudo attribuito ad Esiodo (202) si descrive Apollo che, in qualità di corego, si limita ad accompagnare con la cetra il canto e la danza delle Muse246. Alcmane avrebbe potuto mettere in relazione la guerra, ad esempio con l’αὐλός, che ne accompagnava i passi di marcia247, o con la σάλπιγξ, strumento legato al culto della dea Atena e usato frequentemente in battaglia248. Non è un caso che egli abbia scelto il κιθαρίζειν per rappresentare la musica: al “nobile” concetto della guerra egli associa la “nobile” κιθάρα la quale ricorda, nella forma, nel suono e nelle modalità esecutive, la famosa φόρμιγξ con cui Achille accompagnava il suo canto249, come in Iliade IX (185-189):

Μυρμιδόνων δ’ ἐπί τε κλισίας καὶ νῆας ἱκέσθην, τὸν δ’ εὗρον φρένα τερπόμενον φόρμιγγι λιγείῃ,

245 Sappiamo che la Sparta del VII secolo a.C accordò molta importanza alla musica, non soltanto in seno alla guerra, ma anche nell’ambito di feste annuali come gli Ὑακίνθια, le Γυμνοπαιδίαι o i Κάρνεια (per queste feste legate al calendario spartano e alla cultura militare si veda Calame, 1977, I, pp. 350-354). Nelle συσσιτίαι, inoltre, si usava cantare peani mentre si consumava il pasto in comune, come mostrano Ateneo (XIV, 630f) e Omero stesso quando, in Odissea IV, 15-20, racconta di Telemaco che si reca, insieme a Pisistrato, figlio di Nestore, a Sparta. L’importanza della musica nella Sparta arcaica trova riscontro anche nell’iconografia: Pausania (III, 18, 8), ad esempio, ricorda una statua che ritraeva la città di Sparta, rappresentata come una donna con in mano una lira; nell’opera Sulla fortuna o sulla virtù di Alessandro Magno, Plutarco (334f) ricorda una statua del tutto simile, sintesi visiva delle doti militari e musicali unite nello stesso individuo. Egli descrive il valore militare di uno dei citarodi al seguito di Alessandro, Aristonico, che cadde in battaglia dopo aver combattuto valorosamente. L’eroico citarodo volle che si erigesse una statua bronzea in suo onore nel santuario di Delfi. Questa statua, continua Plutarco, ritraeva Aristonico che teneva la cetra in una mano e brandiva una lancia nell’altra: κιθάραν ἔχοντα καὶ δόρυ προβεβλημένον.

246 A questi due diversi significati di κιθαρίζειν corrispondono, secondo Calame, 1977, I, p. 139, due differenti tipi di performance corale: 1) il modello apollineo, costituito da accompagnamento strumentale del corego + canto e danza del coro; 2) il modello citarodico, costituito da canto e accompagnamento strumentale da parte del corego + la danza del coro.

247 Per il legame fra l’esercito spartano e l’αὐλός si veda West, 1992, pp. 29-30.

248 Si veda West, 1992, pp. 118-121 e per l’iconografia vascolare, che ritrae spesso questo strumento associato a guerrieri, Amazzoni e alla dea Atena, si veda Bundrick, 2005, pp. 42-46).

249 Janni, 1965, I, p. 95, intende, invece, l’associazione κιθαρίζειν-σίδηρος soltanto come un rimando alla pratica musicale in preparazione al combattimento.

καλῇ δαιδαλέῃ, ἐπὶ δ’ ἀργύρεον ζυγὸν ἦεν.

“E giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni, e lo trovarono che con la cetra sonora si dilettava, bella, ornata; e sopra v’era un ponte d’argento”.

A questa associazione (strumento a corde-arte guerriera) sembra essere del tutto riluttante la comunità dei Feaci, che ha in spregio l’arco e la faretra (Odissea VI, 270: οὐ γὰρ Φαιήκεσσι μέλει βιὸς οὐδὲ φαρέτρη), ma a cui “sempre sono cari i banchetti e le danze” (Odissea VIII, 248: αἰεὶ δ’ ἡμῖν δαίς τε φίλη κίθαρίς τε χοροί τε). Con queste parole Alcinoo spiega ad Odisseo la natura del suo popolo, chiedendo, poco più avanti, che si porti una φόρμιγξ λίγεια (Odissea VIII, 254) a Demodoco, per mostrare all’ospite quanto i Feaci siano più bravi “nella nautica, nella corsa, nella danza e nel canto” (253: ναυτιλίῃ καὶ ποσσὶ καὶ ὀρχηστυῖ καὶ ἀοιδῇ)250.

250 Diversamente dal regno di Alcinoo, i valori della Sparta arcaica sono riassunti nel verso di Alcmane, che esalta con due metonimie i due concetti che la società aristocratica considerava propri: la musica e la guerra. Più in particolare Nannini (1988, pp. 44-45) legge in questo frammento la contrapposizione fra due momenti tipici della vita degli Spartiati: il σίδηρος rappresenterebbe il duro momento della guerra, mentre il κιθαρίζειν sarebbe non solo la metafora della musica, ma, ancora più in generale, l’espressione simbolica del tempo di pace e del simposio. Questa interpretazione ascriverebbe il verso di Alcmane al genere simposiale, ed assegnerebbe persino un significato estetico-letterario ai due termini, σίδηρος e κιθαρίζειν, che rimanderebbero rispettivamente al genere epico e a quello lirico. A questo proposito Nannini (1988, p. 45) commenta: << La coppia antinomica guerra-simposio, che dal brano iliadico procede (Iliade IX, vv. 185-191), si afferma, come è noto, in ambito lirico configurandosi nel suo sviluppo come contrapposizione operante nella scelta dei temi e dei modi del canto, ed è ancora vitale, benché piegata ad esiti diversi, nei poeti latini. Considerata la notevole incidenza di questa antitesi nella poetica simposiale, la sede di destinazione del frammento alcmaneo si direbbe proprio il simposio, al quale si addice, fra l’altro, un kitharizein pregevole (kalòs) a livello estetico e tecnico, e fors’anche morale, in accordo con le norme etiche del convivio. È interessante notare che il verbo kitharizein compare anche in Alcmane fr. 38B, 33V, in un contesto chiaramente simposiaco. Quanto all’herpei iniziale, ritengo probabile che in esso sia celato un sottile riferimento alla diversa tematica e al diverso andamento di epica e lirica>>. Mentre Nannini interpreta il frammento come opposizione fra la poesia simposiale e la poesia della guerra, come l’epica, De Martino-Vox (1996, p. 189) intendono il κιθαρίζειν come introduzione, parenesi alla guerra, ricordando l’uso spartano di marciare verso la battaglia cantando. Invece, Costanza (1984, p. 233) crede che il frammento di Alcmane voglia indicare una poesia alternativa alla guerra, se il

La compresenza di musica e guerra si trova anche nell’Olimpica XIII, in cui Pindaro unisce sintatticamente la Musa “che dolce spira” e il dio Ares, simbolo della guerra (22-23a):

ἐν δὲ Μοῖσ’ ἁδύπνοος, ἐν δ’ Ἄρης ἀνθεῖ νέων οὐλίαις αἰχμαῖσιν ἀνδρῶν.

“Ivi la Musa che dolce spira, Ivi Ares fiorisce

Di punte mortifere di giovani”251.

Καλῶς

, che accompagna in qualità di avverbio τὸ κισαρίσδην, illumina

significativamente l’orgogliosa coscienza propria di Alcmane del valore della poesia. Questo avverbio indica che il “citareggiare” deve essere eseguito bene, in modo “prezioso”, perché molta importanza viene riservata alla bellezza del canto252.

“bel citareggiare” allude specificamente al suono della cetra, inefficace durante marcia e combattimento a differenza dell’aulos, ma <<caratteristico della stagione della pace con le solenni feste religiose, allietate da rituali danze e canti giovanili>>.

251 L’idea di compresenza di arte e guerra nella città dorica di Corinto (l’Olimpica XIII è infatti dedicata a Senofonte corinzio) è espressa da Pindaro attraverso un’abile scelta lessicale e grammaticale. Uno zeugma unisce la Musa ad Ares: la prima è detta fiorire e affermare la sua presenza con il suo dolce spirare/ispirare; il secondo, invece, fiorisce sulle punte delle lance dei giovani guerrieri, conferendo l’ardore in battaglia e seminando morte. Da notare che anche Terpandro (fr. 5 Gost.) crea uno zeugma associando, nel significato di fiorire (θάλλω), la lancia (o meglio la sua punta, αἰχμά), la Musa penetrante (Μῶσα λίγεια) e la giustizia dalle ampie strade (δίκα εὐρυάγυια). 252 Arrighetti, 2006, p. 8, ricorda che anche Odisseo, in più occasioni, viene elogiato per il

fascino e la forza persuasiva delle sue parole, sia che esse siano veraci, sia che siano menzognere. Così, ad esempio, in Odissea XI, 363-369, Alcinoo dichiara di credere alla veridicità del racconto di Odisseo perché: σοὶ δ’ ἔπι μὲν μορφὴ ἐπέων, ἔνι δὲ φρένες ἐσθλαί, / μῦθον δ’ ὡς ὅτ’ ἀοιδὸς ἐπισταμένως κατέλεξας. Alcinoo, dunque, sottolinea l’interdipendenza fra il possesso di φρένες ἐσθλαί, la capacità di raccontare cose adorne di μορφὴ ἐπέων e il saper καταλέγειν un μῦθον ἐπισταμένως come un aedo. Ma, lo stesso elogio delle parole di Odisseo viene ripetuto anche per le menzogne che egli racconta ad Eumeo (Odissea XIV) che, riferendo il colloquio a Penelope, elogia la bravura nel narrare del vecchio mendicante, capace di incantare come un aedo (Odissea XVII, 518-521). Alla stessa Penelope Odisseo narra un racconto menzognero (Odissea XIX) che, al verso 203 viene così commentato: ἴσκε ψεύδεα πολλὰ λέγων ἐτύμοισιν ὁμοῖα, e che fa commuovere la regina. La bravura nel raccontare ha, infatti, come effetto quello di suscitare emozioni come il pianto, la gioia, oppure un silenzio pervaso da una sensazione di incanto, come mostra il verso formulare: ὣς ἔφατ’, οἱ δ’

Che la grazia e la bellezza del canto abbiano un certo rilievo nella composizione poetica, a fianco dell’ispirazione divina, è evidente anche nel fr. 84C, dove Alcmane chiede alla Musa Calliope di dare inizio a parole amabili (ἐρατῶν ἐπέων) e definisce la danza χαρίεντα, nel fr. 26C (καλὸν ὑμνιοισᾶν μέλος) e nel fr. 90C (παρσενικαὶ μελιγάρυες)253

.

La contrapposizione fra τῶ σιδάρω e τὸ καλῶς κισαρίσδην permette di istituire un confronto con il fr. 1W, in cui Archiloco si definisce allo stesso

ἄρα πάντες ἀκὴν ἐγένοντο σιωπῇ seguito da κηληθμῷ δ’ ἔσχοντο κατὰ μέγαρα σκιόεντα (Odissea XI, 333-334; XIII, 1-2). Dice esaustivamente Arrighetti, 2006, p. 9, riguardo al presupposto di poetica per il quale le menzogne di Odisseo potevano essere scambiate facilmente per verità: <<È ovvio- lo dichiara Omero stesso- che si tratta della perfetta equivalenza fra la veridicità di un racconto poetico e la sua bellezza, perché ambedue queste qualità hanno la loro motivazione nell’esattezza e nell’abbondanza dei particolari>>. Le invocazioni iliadiche alla Musa erano incentrate sulla richiesta di sapere e di ricordare con precisione e abbondanza di dettagli fatti avvenuti in un lontano passato; invece nell’Odissea il ruolo del narratore era volto dallo stesso protagonista dei fatti che spesso, per esigenze di trama, si trova a dover raccontare delle menzogne. Di conseguenza, non era solo l’ispirazione divina che rendeva in grado di raccontare con precisione dei fatti, ma era sufficiente che chi li raccontava li avesse vissuti; in tal modo il racconto risultava bello e dunque convincente e veritiero. Era allora impossibile poter distinguere verità e menzogne in racconti così belli da sembrare ispirati dalla Musa. Sembra che proprio in questo consista la polemica antiomerica di Esiodo, che molta importanza dà al contenuto di verità dei canti, ovvero <<nel non aver fatto sì che si potesse distinguere fra verità e menzogna, fra specie di canti che, anche se accomunati fra loro dalla bellezza e ugualmente accattivanti, erano però profondamente diversi per la presenza o meno della veridicità>> (Arrighetti, 2006, p. 11).

253 Quello di “bello” era un concetto dal significato molto ricco e complesso per i Greci: esso comprendeva non solo ciò che risultava gradito all’occhio e all’orecchio, ma anche qualità del carattere e della mente umana. L’uomo esprime la sua bellezza , oltre che nella proporzione delle forme fisiche, anche nella quotidianità dei comportamenti pratici: da qui deriva il forte legame fra bello e buono, che trova la sua espressione nell’ideale della kalokagathia, la condizione propria di chi sa di potersi dimostrare, nello stesso tempo, bello e buono. L’aggettivo καλός, dunque, comprendeva i concetti di armonia, simmetria (ovvero misura appropriata) ed euritmia (ovvero ritmo esatto e dalle corrette proporzioni). Tutto ciò è riassumibile nel concetto di kosmos, che si riferisce alla bellezza di un oggetto dovuta alla perfezione della sua struttura, in ragione della proporzione delle sue parti. Sul concetto di bello nel pensiero antico, si veda Carchia, 1999. Snell, 1979, pp. 1303-1313, analizza le occorrenze di καλός nell’epica e negli Inni e nota che tale aggettivo, in riferimento al canto, è già presente in Omero, ad esempio in Iliade I, 604 (Μουσάων θ’, αἳ ἄειδον ἀμειβόμεναι ὀπὶ καλῇ), Odissea V, 61 (δαιομένων· ἡ δ’ ἔνδον ἀοιδιάουσ’ ὀπὶ καλῇ), Odissea X, 221 (Κίρκης δ’ ἔνδον ἄκουον ἀειδούσης ὀπὶ καλῇ) e 227 (καλὸν ἀοιδιάει, δάπεδον δ’ ἅπαν ἀμφιμέμυκεν). In alcuni casi, καλός è usato nel senso di “corretto”, “decoroso”, come in Odissea VIII, 166 (ξεῖν’, οὐ καλὸν ἔειπες· ἀτασθάλῳ ἀνδρὶ ἔοικας) e XVII, 381 (Ἀντίνο, οὐ μὲν καλ καὶ ἐσθλὸς ἐὼν ἀγορεύεις). Il concetto di καλός, riferito all’arte e alla poesia, si collega alle idee di armonia e di coerenza: di un cantore epico si può dire che esegue un canto secondo i canoni della bellezza se procede kata kosmon, secondo un bell’ordine, riproponendo cioè in una coerente struttura la successione reale degli eventi; nella lirica arcaica, il testo viene inteso come un kosmos epeon, cioè un bell’ordine di parole.

tempo guerriero e poeta:

εἰμὶ δ’ ἐγὼ θεράπων μὲν Ἐνυαλίοιο ἄνακτος καὶ Μουσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστμενος. “Io sono il servitore del signore Eunalio E conosco l’amabile dono delle Muse”.

Mentre Alcmane sembra porre un distacco fra il fare la guerra e l’occuparsi di poesia, come dimostrerebbe a mio avviso l’uso del termine καλός, che pare porre il citareggiare su un piano più elevato rispetto al termine σίδηρος, indicante fuor di metafora la guerra, Archiloco pone sullo stesso piano le due attività: egli è un guerriero che, oltre all’arte militare, conosce l’amabile dono delle Muse, ossia l’arte poetica. Un esplicito distacco fra guerra e poesia si trova, invece, in Stesicoro (fr. 80P):

Μοῖσα, σὺ μὲν πολέμους ἀπωσαμένα μετ’ ἐμοῦ κλείοσα θεῶν τε γάμους ἀνδρῶν τε δαῖτας καὶ θαλίας μακάρων.

“Allontana da te, Musa, le guerre; Canta con me le nozze degli dei E i conviti dei mortali

E le gioie dei beati”.

CAPITOLO VI