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I frammenti 4C=14D e 26C=3D, che sono stati analizzati nel capitolo precedente, oltre che contenere un’invocazione alla Musa, costituiscono un primo esempio di testi in cui è evidente l’intermediazione del coro fra la divinità ispiratrice del canto e il poeta. Infatti, nel fr. 4C, Alcmane chiede alla Musa di intonare un canto nuovo alle fanciulle che costituiscono il coro (3): νεοχμὸν ἄρχε παρσένοις ἀείδην, mentre nel fr. 26C il coro descrive se stesso nell’atto di iniziare il canto, in qualità di vero protagonista della performance: καλὸν ὑμνιοισᾶν μέλος/[...]/ [ὕπνου ἀ]πὸ γλεφάρων σκεδ[α]σεῖ γλυκύν/[...]ς δέ μ’ ἄγει πεδ’ ἀγῶν’ ἴμεν (5-8).

In questo capitolo analizzerò tre frammenti di Alcmane (90C, 149C e 82C), nei quali emerge ancora più chiaramente il ruolo di intermediazione del coro98.

Fr. 90C=26D

Il fr. 90C=26D è stato trasmesso da Antigono di Caristo99, che lo cita per illustrare la sorte del cèrilo, il maschio delle alcioni che, quando per la vecchiaia è ormai incapace di volare, viene trasportato dalle femmine. Allo stesso modo qui Alcmane, ormai vecchio, si rammaricherebbe di non poter più partecipare ai canti e alle danze delle ragazze del coro, ed esprimerebbe il desiderio di imitare il volo prodigioso del cèrilo:

οὔ μ’ ἔτι, παρσενικαὶ μελιγάρυες ἱαρόφωνοι,

98 Possediamo anche un altro frammento di Alcmane (fr. 282C), che da molti studiosi come Calame (1983, p. 204) viene considerato di dubbia attribuzione: ὑμνέωμες μάκαρας,/ Μοῦσαι Διὸς ἔγκονοι,/ ἀφθίτοις ἀοιδαῖς, mentre da altri (ad esempio, Lanata 1956, p. 172) è considerato autentico. La studiosa nota che il plurale ὑμνέωμες accorcia le distanze fra il poeta e la Musa e fa pensare ad una collaborazione tra di essi.

γυῖα φέρην δύναται· βάλε δὴ βάλε κηρύλος εἴην ὃς τ’ ἐπὶ κύματος ἄνθος ἅμ’ ἀλκυόνεσσι ποτήται νηλεὲς ἦτορ ἔχων, ἁλιπόρφυρος ἱαρὸς ὄρνις.

“Non più, fanciulle dal canto di miele, voci divine,

le membra sono in grado di sorreggermi: oh fossi, fossi il cèrilo che sul fiore dell’onda vola con le alcioni

con il cuore saldo, sacro uccello color del mare”.

Un primo problema interpretativo è costituito dal metro. Infatti, si tratta di un componimento in esametri dattilici, cosa che ha fatto pensare alla maggior parte degli studiosi che il frammento facesse parte di un proemio citarodico, preludio di un canto corale100, analogo ai προοίμια κιθαρῳδικὰ ἐν ἔπεσιν, attribuiti a Terpandro (Ps. Plutarco, De Musica, 4).

με (μ’)

costituisce un secondo problema all’interno del testo: per Antigono si

riferisce al poeta stesso, ma potrebbe essere riferito anche ad una corega più anziana, in quanto, quando Alcmane parla di sé, usa perlopiù la terza persona singolare101. Ma, se ammettiamo che questi versi facciano parte di un “preludio”, vista la struttura esametrica, è probabile che il poeta stia parlando proprio di se stesso, in quanto il genere dei προοίμια permetteva già all’aedo omerico di abbandonare l’anonimità impersonale dell’epica e di dire qualcosa su se stesso, come accade nell’Inno III (ad Apollo), in cui il poeta si scosta dal suo argomento per parlare del “vecchio che abita la rocciosa Chio” e per raccomandare la propria poesia agli ascoltatori (166- 176):

χαίρετε δ’ ὑμεῖς πᾶσαι· ἐμεῖο δὲ καὶ μετόπισθε

100 Bowra 1961 (1973, pp. 34-35); Rodriguez Adrados, 1976 (2007, pp. 172-175).

101 Calame, 1983, pp. 472-473. Ad esempio, nel fr. 8C, di cui si è parlato nell’introduzione a questo lavoro, il verbo ἦν potrebbe avere come soggetto il poeta che, quindi, parlerebbe di se stesso in terza persona.

μνήσασθ’ ὁππότε κέν τις ἐπιχθονίων ἀνθρώπων ἐνθάδ’ ἀνείρηται ξεῖνος ταλαπείριος ἐλθών· ὦ κοῦραι, τίς δ’ ὔμμιν ἀνὴρ ἥδιστος ἀοιδῶν ἐνθάδε πωλεῖται, καὶ τέῳ τέρπεσθε μάλιστα; ὑμεῖς δ’ εὖ μάλα πᾶσαι ὑποκρίνασθ’ ἀμφ’ ἡμέων·102 τυφλὸς ἀνήρ, οἰκεῖ δὲ Χίῳ ἔνι παιπαλοέσσῃ, τοῦ πᾶσαι μετόπισθεν ἀριστεύουσιν ἀοιδαί. ἡμεῖς δ’ ὑμέτερον κλέος οἴσομεν ὅσσον ἐπ’ αἶαν ἀνθρώπων στρεφόμεθα πόλεις εὖ ναιεταώσας· οἱ δ’ ἐπὶ δὴ πείσονται, ἐπεὶ καὶ ἐτήτυμόν ἐστιν.

“E voi tutte siate felici, fanciulle; ricordatevi di me anche in futuro, ogni volta che un uomo mortale, uno straniero girovago, verrà qui e vi chiederà: O fanciulle, chi è per voi il cantore più dolce

che frequenti questi luoghi, quello che vi dà più gioia? Rispondete che sono io, dite tutte a una voce:

È un cieco, che abita nella scoscesa Chio: tutti i suoi canti sono subito famosi.

E io porterò la vostra fama in ogni contrada in cui girerò per le città affollate di uomini: ed essi mi crederanno perché è la pura verità”103

.

102 Zanetto (2015, p. 243-244, n. 44) precisa che l’autore di quest’Inno doveva essere impegnato in uno degli agoni rapsodici, che erano piuttosto comuni in località come Delo, o comunque che fosse abituato al clima agonistico della performance. Il poeta tiene molto all’approvazione del suo pubblico e, quindi, non è infrequente che egli si rivolga direttamente ai giudici e al pubblico per esaltare se stesso in prima persona e la propria opera.

103 <<Non possiamo non sentire che, quando l’Inno fu eseguito, l’aedo era diventato un personaggio pubblico, che eseguiva la sua poesia in un’occasione di importanza nazionale, ed era libero di pretendere per sé quello che non avrebbe potuto rivendicare nel caso che, come Femio o Demodoco, avesse cantato alla corte di un re>>, Bowra, 1961 (1973, p. 34).

Παρσενικαί

è il termine con cui Alcmane si rivolge alle fanciulle (invece nell’Inno III si usa il termine κοῦραι al 169).

μελιγάρυες ἱαρόφωνοι

sono i due composti aggettivali riferiti alle

Παρσενικαί, che sottolineano due importanti caratteristiche delle coreute: la dolcezza e la sacralità delle loro voci. Il primo aggettivo, μελίγηρυς, costituisce una sinestesia, formata dall’accostamento dei sostantivi μέλι, “miele”, e γῆρυς, “voce”, che sintetizza il senso di una bellezza canora dolce come il più dolce alimento che i Greci conoscessero, appunto il miele104.

Nel libro I dell’Iliade, Nestore è dotato di qualità sonore notevoli: la sua voce è penetrante e, allo stesso tempo, scorre più dolce del miele (247-249):

Ἀτρεΐδης δ’ ἑτέρωθεν ἐμήνιε· τοῖσι δὲ Νέστωρ ἡδυεπὴς ἀνόρουσε, λιγὺς Πυλίων ἀγορητής, τοῦ καὶ ἀπὸ γλώσσης μέλιτος γλυκίων ῥέεν αὐδή.

104 Il miele associato alla poesia e alla capacità di esprimersi bene è un’immagine frequente nella letteratura greca arcaica, dove l’eloquenza è esplicitamente considerata dono della divinità. Così, nell’VIII libro dell’Odissea (166-171), Odisseo risponde alle superbe parole di Eurialo: “O ospite, non parlasti bene, rassomigli a un uomo protervo. Così non a tutti gli uomini gli dei danno belle qualità né natura né animo né eloquenza (ἀγορητύν). Infatti, uno è inferiore quanto all’aspetto, ma un dio elargisce grazia alle sue parole e quelli che lo ascoltano guardano a lui con diletto, ed egli con sicurezza parla nelle adunanze con soave modestia, ed emerge in un consesso, e mentre passa nelle città lo ammirano come un dio. Un altro, invece, è simile agli immortali quanto ad aspetto, ma non lo circonda la grazia delle parole; così anche a te l’aspetto è bello, né meglio ti farebbe un dio, ma nella mente sei frivolo”. Questo passo dell’Odissea è in stretta relazione con il passo della Teogonia di Esiodo (v. 81-85), in cui si dice che il re, onorato dalle Muse, ha la lingua cosparsa di dolce rugiada e dalla sua bocca sgorgano dolci parole; quando egli passa in mezzo all’assemblea, viene ammirato come un dio per la sua soave modestia e per il fatto che egli emerge in un consesso. Tale è il dono fatto dalle Muse e da Apollo agli uomini; beato è colui che le Muse amano, perché dalla sua bocca scorre un dolce canto. Se ne deduce che sia per Omero che per Esiodo l’eloquenza è dono degli dei e in Esiodo è chiaramente associata all’ispirazione del poeta per mezzo delle Muse. A questo proposito, Pausania (II, 31, 3) narra che nel tempio di Trezene il mitico re Pitheus insegnava λόγων τέχνην sotto la protezione delle Muse. L’equiparazione Muse-eloquenza è visibile anche nell’Iliade (III, 150) dove gli anziani di Troia, che discutono presso le porte Scee, sono descritti come “buoni parlatori, simili alle cicale, che nel bosco su un albero fanno risuonare la loro voce soave”, voce che da Esiodo è accostata a quella delle Muse (Teogonia 41). Quindi, l’eloquenza degli anziani di Troia è paragonato al canto delle cicale, che gli antichi avevano in pregio (si veda, ad esempio, Esiodo, Erga, v. 582-584), e che Platone (Fedro 262d) chiama le “interpreti delle Muse”.

“Dall’altra parte l’Atride era furioso. Tra loro Nestore dalla dolce parola s’alzò, l’arguto oratore dei Pilii:

dalla sua lingua anche più dolce del miele la parola scorreva”.

In Esiodo si dice che le Muse versano dolce rugiada sulla lingua del loro re, dalla cui bocca scorrono parole dolci come il miele (Teogonia, 83-84):

τῷ μὲν ἐπὶ γλώσσῃ γλυκερὴν χείουσιν ἐέρσην, τοῦ δ’ ἔπε’ ἐκ στόματος ῥεῖ μείλιχα· οἱ δέ νυ λαοὶ.

“A lui sulla lingua versano dolce rugiada

e dalla sua bocca scorrono dolci parole; le genti...”105 .

Riprendendo questo concetto a distanza di pochi versi (Teogonia, 96-97), Esiodo sostiene che la voce di colui che è amato dalle Muse scorre dolce dalla sua bocca (Teogonia, 96-97):

ὁ δ’ ὄλβιος, ὅντινα Μοῦσαι

φίλωνται· γλυκερή οἱ ἀπὸ στόματος ῥέει αὐδή.

“Beato colui che le Muse

amano: dolce dalla sua bocca scorre la voce”.

Nella sua formazione originaria, μελίγηρυς rappresenta l’unione fra i sensi del gusto e dell’udito. Questo è anche l’aggettivo con cui le Sirene definiscono la loro voce, rivolgendosi ad Odisseo (Odissea XII, 187). Inoltre, molte sono le occorrenze di questo termine negli Inni Omerici, ad esempio nell’Inno XIX (a

Pan), dove è riferito al canto di un uccello (17-18):

105 La nozione gustativa associata alla rugiada non deve sorprendere. Infatti, il termine ἐέρσην indica ogni liquido distillato dal cielo (Pucci, 2007, p. 107). West, 1966, p. 183, ricorda come secondo gli antichi il miele fosse depositato sotto forma di rugiada o provenisse dalla rugiada attraverso le api.

ὄρνις ἥ τ’ ἔαρος πολυανθέος ἐν πετάλοισι θρῆνον ἐπιπροχέουσ’ ἀχέει μελίγηρυν ἀοιδήν.

“L’uccello che a primavera effonde un lamento con voce di miele, fra i fiori e le foglie”.

Da Saffo (fr. 71Voigt, 6: μελλιχόφωνος; fr. 185Voigt: μελίφωνος) emerge che anche la poetessa di Lesbo associava la sensazione gustativa del miele alla soavità timbrica della voce, soprattutto femminile.

Ἱερόφωνος

, il secondo epiteto adottato da Alcmane, completa la descrizione

della voce delle coreute-alcioni e sottolinea la <<sacertà del canto o la santità della voce, piuttosto che la sua forza>>106. Tale aggettivo, che ricompare solo nei lessicografi come alternativa per ἡροφώνων di Iliade XVIII (505)107, indica in Teognide il carattere sacro della musica (761):

φόρμιγξ δ’ αὖ φθέγγοιθ’ ἱερὸν μέλος ἠδὲ καὶ αὐλός.

“risuoni la sacra melodia della cetra e del flauto”.

Credo si possa affermare che non sia un caso che l’aggettivo μελίγηρυς, preceda ἱερόφωνος: la dolcezza timbrica delle coreute è la forma attraverso cui l’orecchio umano viene introdotto al dialogo diretto con il divino. Il senso di sacralità è anche legato a quello di immortalità, poiché grazie al canto sacro il poeta può superare le fatiche della vecchiaia e trascendere l’idea stessa della morte.

106 Degani- Burzacchini 2005, p. 283. 107 De Martino-Vox, 1996, p. 183.

Γυῖα

108, infatti, indica subito dopo che le membra di Alcmane, ormai provate