• Non ci sono risultati.

Εὗρε 175 , che si trova subito dopo il nome proprio Ἀλκμάν, appartiene al lessico tecnico della poesia greca arcaica ed indica il processo della creazione

poetica176: con questo verbo si distingue per la prima volta espressamente il poeta dall’esecutore e la sua attività viene finalmente riconosciuta come “inventiva”177

, imitazione ed invenzione sono considerati come due momenti inscindibili di uno stesso processo compositivo. Un parallelo può essere istituito con il fr. 14D di Stesicoro, in cui risulta chiaro che l’attività del poeta consiste nel trovare (εὑρίσκειν) il tono musicale adatto all’accompagnamento del canto; a ciò che le Muse gli ispirano, il poeta trova una melodia:

τοιάδε χρὴ Χαρίτων δαμώματα καλλικόμων ὑμνεῖν Φρύγιον μέλος ἐξευρόντας ἁβρῶς

173 Rodriguez Adrados 1976 (2007, p. 145).

174 Il fr. 8C di Alcmane è stato analizzato nell’introduzione a questo lavoro.

175 Il testo tràdito da Ateneo è corrotto, infatti riporta εὑρετε γλωσσάμενον. Gli studiosi hanno corretto l’espressione restaurando un εὗρε seguito da un participio perfetto medio passivo, γεγλωσσαμένον.

176 Gentili, 1971, p. 62. 177 Del Grande, 1932, p. 22.

ἦρος ἐπερχομένου.

“Bisogna cantare questi inni popolari delle Cariti dalle belle chiome, inventando una delicata melodia frigia, al sopraggiungere della primavera”178.

Γεγλωσσαμένον

, che sembra voler indicare che la voce delle pernici è

“fornita di lingua (γλῶσσα)”, ovvero di linguaggio, è stato oggetto di diverse interpretazioni nel corso del tempo. Infatti, poiché nel greco arcaico non esiste il verbo γλωσσάω, il participio del testo alcmaneo o è un hapax (da tradurre “resa in parole”) oppure si tratta dell’indicazione, da parte di un commentatore bizantino, di una γλῶσσα, cioè di una nota al successivo κακκαβίδων179. È possibile180 che nel secondo verso di questo frammento si trovi il termine γλῶσσαν, nel senso omerico di “linguaggio”181

.

178 Altri esempi in cui si trova il verbo εὑρίσκειν usato per indicare l’abilità compositiva di un poeta sono Bacchilide, fr. 5,3SM; Pindaro, Olimpica I, 110; Nemea VI, 54; Pitica IV, 299.

179 Marzullo, 1955, p. 92, giunge alla conclusione che Γεγλωσσάμενον (o meglio γλωσσαμένον, come si legge in Ateneo) <<è voce scolastica, grammaticale, meccanicamente penetrata nel nostro testo per incuria del copista>>.

180 Calame, 1983, p. 482. La maggior parte degli studiosi unisce il participio a ὄπα (3) che, stando alla spiegazione fornita da Calame per γεγλωσσαμένον, è l’equivalente del μέλος “trovato” dal poeta. Si veda ad esempio Pontani, 1950, p. 42 :<<bocca articolata come di lingua umana>>; Gentili, 1971, p. 62: <<voce verbalizzata>>. Altri, come Gallavotti, 1972, p. 34, riferisce il participio a κακκαβίδων e traduce: <<cinguettanti pernici>>, mentre Svoboda, 1951, p. 358, lo connette a μέλος e traduce: <<l’air sonore>>.

181 Iliade II (804); Odissea XIX (175).Il linguaggio cui Alcmane fa qui riferimento è quello delle pernici e corrisponde agli ἔπη composti dal poeta. Che quello degli uccelli possa essere definito “linguaggio” è da Calame supportato dall’affermazione di Aristotele (Historia animalium, 535a, 30; 536a, 20), che attribuisce esplicitamente una voce (φωνή),articolata in linguaggio (διάλεκτος) sia agli uomini che agli uccelli. Al contrario, Marzullo, 1955, pp. 83-84, obietta che i Greci non attribuivano voce articolata agli uccelli, poiché non lo credevano possibile neppure per i popoli barbari, ovvero per coloro che non parlavano greco (Erodoto, II, 57). Esiodo (Teogonia, 22-34) dice che le Muse gli rivolsero la parola e gli ordinarono di cantare la stirpe dei beati, viventi in eterno. L’ammissione dell’esistenza di uno strumento espressivo proprio della divinità, come afferma Arrighetti, 2006, p. 14, avrebbe potuto far sorgere dei dubbi circa la capacità di Esiodo di aver compreso davvero il messaggio delle Muse. Tuttavia, il fatto che l’incontro fra il poeta e le Muse sia avvenuto non in un luogo mitico, bensì presso una montagna come l’Elicona, normalmente frequentata dagli umani, vuole sottolineare la possibilità di comunicazione fra l’uomo e il divino e il carattere di comprensibilità del messaggio. D’altra parte, va ricordato che in tutta la cultura greca arcaica e classica il problema del linguaggio era avvertito come una questione importante, in particolar modo per quello che riguarda l’ὀρθότης del linguaggio, come mostra il Cratilo di Platone.

Κακκαβίδες

è il nome degli uccelli evocati da Alcmane. Il termine più usato nella lingua greca per indicare le pernici è πέρδικες. Si tratta di una parola che evoca una sonorità poco melodiosa, dal momento che si ricollega al verbo πέρδομαι, “petare”, che allude al grido di allarme emesso da questi uccelli182

. Alcmane, però, non ricorre a questo termine, bensì a κακκαβίδες, voce che imita il verso cac-cac lanciato da questi uccelli in determinate circostanze. Si tratta, dunque, di un termine dal forte carattere fonosimbolico, di una voce onomatopeica183. Inoltre, il fatto che nell’antichità le pernici erano associate ad Afrodite fa pensare che il frammento di Alcmane facesse parte di un partenio:

182 Bettini, 2008, p. 120. Nell’VIII libro dell’Iliade (17-60) si narra che la dea Atena, vedendo i Danai in difficoltà, si precipita dalle cime dell’Olimpo e Apollo, accortosi della discesa della dea sulla terra, la raggiunge. Le due divinità si incontrano presso una quercia sotto forma di avvoltoi e decidono di sospendere i combattimenti per un giorno e di infondere in Ettore il κρατερὸν μένος, così da indurlo a sfidare uno dei Danai. Eleno, il fratello di Ettore e noto indovino, ha ascoltato e compreso il piano divino. Quindi, si reca da Ettore e lo esorta a sfidare il più valoroso degli avversari e, per convincerlo, gli dice di aver udito con le proprie orecchie la voce degli dei (53): ὧς γὰρ ἐγὼν ὄπ’ ἄκουσα θεῶν αἰειγενετάων. Secondo la versione riportata da Eustazio (Iliade 663, 40-45) circa la nascita e l’infanzia di Eleno, sappiamo che Eleno e la sorella Cassandra, ancora piccoli, furono lasciati per una notte nel tempio di Apollo Timbreo. La mattina successiva, intorno ai due gemelli furono trovati de serpenti che leccavano loro le orecchie, “purificandole” con la saliva. In questo modo i due fratelli vennero iniziati all’arte profetica e si perfezionarono a tal punto da da essere in grado di cogliere la voce degli dei e la φωνή che essi erano in grado di udire era proprio quella degli uccelli, ritenuta un mezzo di comunicazione con il mondo divino. La capacità di riuscire a decifrare il linguaggio degli uccelli è comune a poeta ed indovino, benché le due figure operino in modi e con finalità diverse: il poeta interviene in maniera attiva sul flusso sonoro percepito, rielaborandolo nella forma, mentre l’indovino si limita a comprendere e trasmettere il messaggio divino (Brillante, 2009, pp. 121-138). Poi, per quello che riguarda l’associazione divinità-uccello nei poemi omerici, è possibile che il dio sia paragonato al volatile per un naturale procedimento di assimilazione, che coglie l’affinità del movimento, oppure la similarità fra uccello e nume è di natura corporea, spia del fatto che il dio assume l’aspetto dell’animale per mascherare la propria identità agli uomini. Il problema è stato affrontato in maniera sistematica da Dirlmeier, 1967, che ha bandito il teriomorfismo dai poemi omerici. Con questa presa di posizione si è dovuta confrontare la maggior parte degli studiosi: Dietrich, 1979, pp. 148-150; Pollard, 1977, pp. 155-159; West, 1988, p. 183-186; Jong, 2001, pp. 33-38..

183 Brillante, 1991. Ateneo (9, 390a-b) distingue la pernice che κακκαβίζει, il cui verso è kakkabì,da quella che τιτρίζει, cioè che fa trìtrì.Inoltre, κακκαβίς è diminutivo di κακκάβη. Eliano (De natura animalium, 3, 35; 4, 13 e 16) afferma non solo che il canto delle pernici è un vero e proprio linguaggio, ma anche che esse, come le Sirene, adescano col canto il proprio avversario e lo fanno cadere in trappola, intonando un canto di sfida. Se, però, l’adescato è un maschio, si potranno sentire le femmine intonare un “controcanto”per salvarlo. Questa affinità fra Sirene e pernici verrà ripresa nel capitolo VI dedicato all’esame del fr. 86C.

un componimento cantato da fanciulle non poteva non ispirarsi al canto degli uccelli simbolo della femminilità184.

συνθέμενος

è il verbo con cui Alcmane indica il modo in cui ha creato il suo

componimento (ὄπα185 κακκαβίδων). Il verbo συντίθημι ha in Omero il senso di “percepire” (Odissea I, 328: σύνθετο ἀοιδήν; XX, 92: κλαιούσης ὄπα σύνθετο), ma possiede anche il significato di “comporre”, “mettere insieme”, “organizzare”186

. A questo proposito, Snell187 afferma che i verbi συνιέναι e συντίθεσθαι, allo stesso modo di γνῶναι e del sostantivo σοφία, in Omero non designano mai uno “sforzo intellettuale,” con il quale si cerca di “comprendere” qualcosa. Pur mancando di questa attività “spirituale”, Omero li collega con un fare pratico: seguire l’interlocutore, ascoltarlo e persino prendersi a cuore ciò che egli dice. Nell’Odissea (XVIII, 34; IV, 76) συνιέναι e συντίθεσθαι possono anche significare “comprendere qualcosa origliando”, “afferrare un discorso” destinato ad altri.

In Odissea I (325-344) viene descritta Penelope che dalle proprie stanza sente il canto che l’aedo intona per i Proci, rievocando il ritorno degli Achei e, poiché si tratta di un argomento che le procura sofferenza, scende nella sala per chiedere a Femio di cantare qualcos’altro. Al verso 328 compare proprio il verbo συντίθεσθαι (328-329):

τοῦ δ’ ὑπερωιόθεν φρεσὶ σύνθετο θέσπιν ἀοιδὴν κούρη Ἰκαρίοιο, περίφρων Πηνελόπεια.

“Dalle stanze di sopra intese quel canto divino la figlia di Icario, la saggia Penelope”.

Ciò che il poeta fa, in sostanza, è riarticolare a proprio uso la voce delle pernici

184 Calame, 1983, p. 483.

185 Ὄψ per i Greci indicava sia la voce umana, specie nei casi in cui essa presentasse dei caratteri insoliti (dal grido, al pianto, al sussurro, al canto, come in Odissea X (221), dove è riferito a Circe e in Iliade I, v. 604), sia l’emissione sonora degli animali , come in Iliade III (152).

186 Senofonte, Elleniche, 4, 8, 20. 187 Snell 1978 (1991, pp. 43-45).

per trarne i suoi versi. L’attività creatrice di Alcmane si esprime con il verbo εὗρε del verso 1, mentre nel verso 3 il participio συνθέμενος indica il momento della percezione, che permette la creazione attraverso l’imitazione188.

Il momento descritto nel fr. 91C di Alcmane, dunque, è quello dell’invenzione del canto, quello del passaggio dal suono inarticolato, accessibile a pochi, alla parola umana, comprensibile e comunicabile. Per fare questo, il poeta deve prima comprendere, poi riorganizzare la voce degli uccelli. Per arrivare alla comprensione, il poeta deve possedere, oltre ad una capacità innata, una certa competenza mimetica, che gli permette di aderire il più possibile al modello. Invece, per arrivare alla riorganizzazione di ciò che ha inteso, il poeta deve praticare l’arte del συντίθεσθαι, ovvero del rimettere insieme il flusso dei suoni ascoltati189.

Fr. 140C=40D

Il fr. 140C =40D è indubbiamente da associare alla sphragis del fr. 91C, in cui Alcmane afferma di aver trovato le parole del suo canto, imitando la voce delle pernici.

ϝοῖδα δ’ ὀρνίχων νόμως “Io conosco i canti di tutti Πάντων. gli uccelli”.

Ϝοῖδα

, che significa propriamente “avere veduto”, quindi “sapere”, già in

Omero veniva usato per indicare il sapere perfetto, quello cioè che è dato dal ricordo di molte cose vedute190. La novità introdotta da Alcmane sta nel fatto

188 Calame, 1983, p. 483. 189 Brillante, 1991.

190 Così, Omero ritiene che il perfetto sapere delle Muse si basi sul fatto che esse vedono ogni cosa e, per questo, invocandole prima del Catalogo delle navi, dice (Iliade II, 484): πάρεστέ τε ἴστε τε πάντα, “Voi sempre presenti, che tutto avete visto e sapete”. Un analogo tipo di sapere possiede Calcante (Iliade I, 70): ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα,“ciò che esiste, ciò che esisterà e ciò che è esistito prima”. Per Omero, ciò che si è visto è più affidabile di quello che si è udito, è più vicino alla realtà effettiva, mentre la parola è il mezzo attraverso il quale viene trasposta la realtà

che qui il poeta “sa” per propria esperienza diretta, senza intermediazione della

effettiva che si è vista (si vedano a questo proposito le considerazioni di Snell, 1978 (1991, p. 34-40)): Il perfetto εἰδέναι indica la pienezza dell’esperienza puntuale. Se le Muse omeriche avevano un sapere sicuro, diversa è la situazione di Esiodo: le Muse, infatti, gli hanno detto di saper raccontare molte cose ingannevoli simili alle cose reali, e anche il vero quando lo desiderano (Teogonia, 27) e, nel proemio della Teogonia, al verso 32, esse rendono Esiodo capace di conoscere solo il passato e il futuro (ἵνα κλείοιμι τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα), sebbene esse stesse conoscano anche il presente (τά τ’ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, 38). In Omero, inoltre, spesso si trova εἰδέναι anche là dove sembrerebbe più adatto dire ἐπίστασθαι, per esempio οἶδε μάχεσθαι. Tuttavia una simile espressione non significa solo che egli “conosce il mestiere della guerra”, ma anche “le opere della guerra”, ossia che aveva “rappresentazioni” di tutto ciò che si fa in guerra. I diversi modi dell’acquisizione del sapere (attraverso il riconoscere, il comprendere e l’esperienza pratica) si fondono in un’unità, in cui l’aver veduto e il riconoscere occupano un posto dominante. L’unità del sapere è riposta nella memoria, che raccoglie in sé ciò che si è visto, udito e saputo fare e da essa il soggetto può ritirare fuori ciò che ha esperito. Poiché la memoria è così importante, non suscita meraviglia che Mnemosyne sia stata considerata la madre delle Muse. Fu Saffo a mostrare come il “ricordo” si renda attivo: il suo poetare vuole serbare la memoria di ciò che di bello ella ha personalmente vissuto nella cerchia delle sue allieva, ad esempio nei versi 15-20 del fr. 16Voigt: “Anche in me d’Anattoria / ora desta memoria, ch’è lontana. / Di lei l’amato incedere, il barbaglio / del viso chiaro vorrei scorgere, / più che i carri dei Lidi e le armi / grevi dei fanti”. La discussione sul “sapere” pone inevitabilmente la questione del contenuto di verità in esso contenuto. I tre aspetti essenziali sotto i quali Omero considera ciò che più tardi verrà chiamato ἀλήθεια, sono: 1) ἀληθές, inteso come “ciò che è fissato senza lacune nella memoria”, ad esempio in Iliade XII, v. 433 viene definita ἀληθής una donna che pesa con cura la lana, nel senso che “sa come pesare la lana, se ne ricorda e non lascia che nulla di questo sapere cada vittima della lethe; 2) ἐτεόν, che indica il fattuale, un essente obiettivo, un dato di fatto, ciò che avviene veramente o che ci si deve aspettare che avvenga, come in Iliade XVIII, 305; 3) νημερτές inteso come “ciò che non fallisce”, “ciò che coglie nel segno”, come in Iliade VI, 376. Il sapere delle Muse omeriche è garante di verità sotto tutti e tre questi aspetti, in quanto non si mette in discussione che la veridicità dei contenuti poetici dipenda dall’ispirazione divina, come nota Arrighetti (1987, p. 58). Esiodo, invece, fa dire alle Muse (Teogonia, v. 27 e seg.): ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’, εὖτ’ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι. Le menzogne sono in primo luogo l’opposto dei dati di fatto e poi di ciò che è privo di lethe. Sappiamo che il verso di Esiodo richiama il verso 203 di Odissea XIX, in cui Odisseo, sotto le spoglie di mendicante, interrogato da Penelope sulla sua identità e sul suo luogo d’origine, inventa un falso racconto e il poeta afferma: ἴσκε ψεύδεα πολλὰ λέγων ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ovvero Odisseo inganna Penelope con una narrazione falsa che ha l’aspetto della verità. Riprendendo il verso dell’Odissea, è probabile che Esiodo abbia voluto polemizzare non già con tutta la produzione epica precedente, ma con il comportamento di Odisseo, attraverso il quale assistiamo <<alla dissoluzione di ogni criterio o principio di differenziazione della figura e del ruolo dell’aedo da quelli di qualunque altro uomo>> Arrighetti, 2006, pp. 3-11. Ovvero, è come se le Muse di Esiodo dicessero: “Sappiamo cantare menzogne che hanno l’aspetto della verità (come l’Odissea), ma anche la verità (come la Teogonia) quando lo vogliamo”. Esiodo pone la verità al centro della propria produzione, sia di fatti passati (Teogonia), sia di insegnamenti morali (Erga). Sul rapporto fra il verso di Esiodo e quello dell’Odissea si veda Neitzel, 1975, pp. 8-10. Un utile resoconto dei vari contributi della critica circa il concetto di verità in Omero ed Esiodo lo fornisce Buongiovanni, 1987, pp. 14-22.

Musa191.

ὀρνίχων νόμως

è uno dei più antichi esempi di uso del termine νόμος nella

sua accezione musicale, quello di “melodia”, “aria”, e non nel senso generico di “legge”. Si tratta di un termine dal valore tecnico, in quanto indica le melodie particolari di ogni uccello, anzi delle singole specie di uccelli, che sono immutabili, giacché gli uccelli cantano sempre nello stesso modo192. Un parallelo dell’uso di νόμος in senso musicale si ha in Pindaro (Nemea V), là dove il poeta inserisce la scena mitica delle nozze di Peleo e Teti, incentrata sulla straordinaria orchestra, il coro delle Muse, guidato da Apollo in persona (41-45): Πρόφρων δὲ καὶ κείνοις ἄειδ’ ἐν Παλίῳ Μοισᾶν ὁ κάλλιστος χορός, ἐν δὲ μέσαις φόρμιγγ’ Ἀπόλλων ἐπτάγλωσ- σον χρυσέῳ πλάκτρῳ διώκων ἀγεῖτο παντοίων νόμων.

“Ma anche a loro benigno, là sul Pelio, Cantava il bellissimo coro delle Muse, e Apollo in mezzo a quelle guidava, battendo il plettro d’oro sulla cetra a sette voci, i canti più svariati”.

παντῶν

sottolinea la completezza193 del sapere del poeta, che si basa sulla

191 Da notare l’io poetico che emerge grazie all’uso della prima persona singolare. Tuttavia, Calame, 1983, p. 548, pensa che la prima persona sia da riferire al coro che canta e non già al poeta, in quanto quest’ultimo, quando parla di sé, lo fa perlopiù alla terza persona singolare.

192 Si vedano, tra gli altri, i commenti di Lanata, 1963, p. 43; Calame, 1983, p. 549; De Martino-Vox, 1996, I, p. 188; Lasserre, 1954, pp. 22-23, che afferma: <<Questo uso di νόμος presuppone l’esistenza, sotto la denominazione di nomi, di melodie invariabili come quelle degli uccelli>>.

193 Per quello che riguarda l’estensione e la quantità del patrimonio di conoscenze del poeta, l’aedo del II libro dell’Iliade (484-492) era convinto che le Muse fossero in grado di fargli conoscere tutti i nomi dei capi dei Danai e l’oggetto specifico

μίμησις, che consente al poeta di trovare le melodie e di comporre194.

L’analisi dei frammenti contenuti in questo III capitolo permette di vedere il poeta ormai consapevole della partecipazione essenziale del proprio io alla creazione dei canti. Così, la persona di Alcmane emerge in modo inequivoco grazie all’uso della prima persona singolare (ἀείσομαι, frr. 85C e 89C; οἶδα, fr. 140C), oppure attraverso l’inserimento nel testo del proprio nome come sigillo (Ἀλκμάν, fr. 91C) e di un’aperta ammissione di poetica, per cui Alcmane afferma orgogliosamente di aver scoperto (εὗρε, fr. 91C) ἔπη καὶ μέλος, avendo compreso la voce delle pernici. Di fronte a questi frammenti, e alla luce di quelli studiati nei capitoli I e II, può sorprendere che Alcmane passi dal comporre testi in cui è forte la presenza della Musa, alla quale va attribuito il merito di ogni canto, perché senza il suo intervento esso non sorgerebbe mai, a

dell’invocazione del proemio dell’Iliade, la μῆνις, somma di tutto il poema, è perfettamente conosciuto dalla Musa, che tutto sa e tutto vede. In Esiodo, invece, le conoscenze trasmesse dalle Muse non sono più così numerose come nei poemi omerici e ci sono casi in cui il poeta ne riconosce i limiti. Ad esempio, in Teogonia (369-370): τῶν (ποταμῶν) ὄνομ’ ἀργαλέον πάντων βροτὸν ἄνδρα ἐνισπεῖν, / οἳ δὲ ἕκαστα ἴσασιν οἳ ἄν περιναιετάωσιν e in Erga (vv.661-662): ἀλλὰ καὶ ὣς ἐρέω Ζηνὸς νόον αἰγιόχοιο· / Μοῦσαι γάρ μ’ ἐδίδαξαν ἀθέσφατον ὕμνον ἀείδειν. Si tratta della presa di coscienza della limitatezza di conoscenze donate dalle Muse. Dice Arrighetti, 2006, p. 22: <<Questo riconoscimento di ignoranza assume un significato ancora maggiore se lo si considera in connessione con altri fatti che meritano qualche riflessione, cioè l’impegno preso dal poeta di dire la verità, impegno di dire che, in questo caso, si trasforma in quello di non dire quello che non sa>>. Questo comporta una modificazione del rapporto poeta-Musa rispetto alla tradizione:non c’è più la cieca fiducia omerica del poeta nella completezza dell’insegnamento divino e i destinatari del canto non credono più all’onniscienza del poeta. Dice Arrighetti, 2006, p. 23: <<In altre parole, abbiamo un segno di un’incipiente crisi- forse non pienamente avvertita da parte di Esiodo- del rapporto fra poeta e divinità ispiratrice, del fatto che il poeta cominci ad avere sentore che l’ispirazione della divinità non basta per sapere tutto>>. 194 Siamo di fronte ad un’evoluzione del concetto di “sapere”, così come nel fr. 91C dove

Alcmane appone con fierezza il sigillo del proprio nome e ricorda espressamente la sua capacità di comporre riproducendo il canto delle pernici. Alcmane è ormai consapevole che, pur con l’interferenza fra sfera umana e divina, la produzione poetica si attua in una concreta realizzazione secondo tecniche ben precise, di cui il poeta stesso è responsabile. L’atto concreto del comporre consta di una conoscenza (eidenai) e di un’invenzione (heurein): versi e melodia sono trovati dal poeta attraverso un’opera sapiente di imitazione della realtà. σοφός è colui che “artefice” della propria opera, che fa da sé ed è consapevole dei propri sforzi (il ποιεῖν, inteso come “far da sé”, è già presente in Tirteo, fr. 10, 17W, nell’esortazione ad un comportamento valoroso:ἀλλὰ μέγαν ποιεῖσθε κα ἄλκιμον ἐν φρεσὶ θυμόν). Per l’evoluzione del concetto di “sapere” si vedano Gianotti, 1975, p. 88-92 e Snell 1978 (1991, pp. 40-43).

testi in cui mostra se stesso come creatore di poesia e scopritore di versi e melodie. È stato ipotizzato195 che l’attività della Musa e quella del poeta e la collaborazione fra di esse riproducano diversi momenti e modi di sentire di uno spirito avvinto al passato e insieme sensibile al nuovo <<sotto il premere del progrediente sviluppo della coscienza umana>>. Certo è che i frammenti di Alcmane sono un importante punto di partenza per la riflessione sul fenomeno