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MUSE E SIRENE: IL FASCINO DEL CANTO E DELL'ISPIRAZIONE POETICA. ALCMANE FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE.

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Dipartimento di Filologia e Storia dell’Antichità

Corso di Laurea in Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di laurea

Muse e Sirene: il fascino del canto e dell’ispirazione poetica.

Alcmane fra tradizione e innovazione.

Relatore:

Dott.ssa Maria Isabella Bertagna

Correlatore:

Dott. Dino De Sanctis

Candidata: Giulia Bezzi

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INDICE

Introduzione ... 3 Capitolo I.

I frammenti che contengono un’invocazione alla musa ... 10

Capitolo II.

Il coro intermediario fra la musa e il poeta ... 43

Capitolo III.

Il poeta unico artefice del proprio canto ... 63

Capitolo IV.

Il FR. 3C: un esempio della poetica “mista di Alcmane ... 85

Capitolo V.

Il FR. 143C: la bellezza del canto ... 100 Capitolo VI.

Muse e sirene: il FR. 86C ... 107 Conclusione ... 121

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INTRODUZIONE

Nella presente ricerca mi propongo di spiegare lo sviluppo della coscienza poetica, lungo un cammino che va da Omero alla lirica arcaica, focalizzando l’attenzione sulla produzione di Alcmane (VII sec. a.C.) e, in particolar modo, sui frammenti di questo lirico che contengono enunciati di poetica.

Cercherò di mostrare come siano mutate sensibilità e percezione della funzione poetica nella poesia lirica arcaica rispetto a Omero e, tenendo necessariamente presente l’esperienza poetica di Esiodo, mostrerò come in Alcmane coesistano importanti elementi di novità, uniti consapevolmente ad elementi poetici derivanti dalla tradizione1.

La vita di Alcmane va collocata alla fine del VII secolo a.C., come sembra di poter dedurre da uno degli stessi frammenti alcmanei (fr. 80d-fC), in cui egli cita il re Leotichida I, sovrano della dinastia degli Euripontidi nell’ultimo quarto del VII secolo a.C., secondo quanto possiamo ricavare da Erodoto (8, 131-132). La Suda2 riferisce che Alcmane visse nel periodo della XXVII Olimpiade (672-669 a.C.), al tempo in cui Ardis era re dei Lidi.

Eusebio di Cesarea3 afferma che Alcmane nacque nel quarto anno della XXX Olimpiade, ovvero nel 657 a.C., ma in un altro passo4 dice che Alcmane era già famoso nel secondo anno della XLII Olimpiade (609-608 a.C.), datazione che coincide con il riferimento a Leotichida I.

Dunque, è giusto datare la vita di Alcmane alla seconda metà del VII secolo a.C., momento in cui Sparta era una potenza culturale ed economica, come dimostrano anche la poesia di Tirteo e gli scavi effettuati nel santuario di Artemide Ortia5.

1 Per delineare lo sviluppo della coscienza poetica in Alcmane, saranno fondamentali, tra gli altri, i lavori di Arrighetti, 1961; 1987; 1992; 1998; 2006.

2 Suida Lexicon, Adler A. (edid.), 1928-1938, voce Ἀλκμάν, I, n. 1289, p. 117. 3 Eusebio di Cesarea, Chronicon, OI. 30,3.

4 Eusebio di Cesarea, Chronicon, OI. 42,2

5 Huxley, 1962, pp. 61-62; Vernant, 1984, pp. 13-27; Hutchinson, 2001, p. 72; Cavanagh, 1996.

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Invece, sulla questione dell’origine di Alcmane si è a lungo dibattuto se fosse nativo di Sardi o di Sparta6. Quattro sono le fonti alla base di queste due tradizioni:

 Il frammento 8C di Alcmane, in cui viene menzionato un uomo di Sardi del quale si dice che

οὐκ ἦς ἀνὴρ ἀγρεῖος οὐ- δὲ σκαιὸς οὐδὲ παρὰ σοφοῖ- σιν οὐδὲ Θεσσαλὸς γένος, Ἐρυσιχαῖος οὐδὲ ποιμήν, ἀλλὰ Σαρδίων ἀπ’ ἀκρᾶν.

“Non era un uomo rustico non Era uno sciocco neppure

A confronto dei saggi, nè tèssalo Nè di Erisiche, nè un pastore, Ma era dell’alta Sardi”.

come se il poeta volesse sottolineare la proverbiale raffinatezza dei costumi dei Lidi. Calame7 non esclude che qui Alcmane volesse rappresentare un cattivo poeta in contrasto con chi conosce l’eleganza della famosa Sardi, pur non essendoci certezza alcuna che questo poeta lidio vada identificato con Alcmane stesso. Un importante dato testuale è l’imperfetto ἦς, che sembra implicare un netto contrasto con l’attualità della performance corale. Se, dunque, Alcmane stesse davvero parlando di se stesso, si potrebbe pensare che immaginasse che in futuro, una volta morto, i cori ne avrebbero ricordato le qualità compositive (“non era un uomo rustico...”). Se, invece, Alcmane non sta parlando di sé, è possibile che qui volesse rendere omaggio ad un poeta a lui precedente e di cui

6 Per una visione approfondita della questione dell’origine di Alcmane, si veda Valletta, 2016.

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continuava la tradizione, come Terpandro.

 Il Papiro di Ossirinco 2389, col. I, 14 (fr. 8C), in cui il commentatore spiega che l’origine lidia di Alcmane era stata sostenuta da figure autorevoli come Aristotele, ma che in realtà era falsa perché scaturita da un’erronea interpretazione dei suoi testi.

 La Suda, nel lemma dedicato ad Alcmane, attribuisce al nostro poeta un’origine spartana, precisamente Messoa.

Un epigramma dell’Anthologia Graeca attribuito ad Alessandro Etolo (riferitaci da Plutarco, Moralia, 599e), che parla di Alcmane come di uno spartano, ma esordisce con una Σάρδιες ἀρχαῖαι, πατέρων νόμος (v. 1), che ha fatto pensare ad alcuni che Alcmane fosse nato a Sardi e poi arrivato a Sparta, dove avrebbe ricevuto la cittadinanza8 e avrebbe adottato il nome greco di Alcmane. Bowra, infatti, parla di una forma ionica Ἀλκμέων che il poeta avrebbe cambiato nella dorica Ἀλκμάν, mentre la forma Ἀλκμάων (fr. 92C) sarebbe una forma intermedia, che avvicina l’originale ionico in una forma più comune per Sparta9.

Sicuramente rilevanti per collocare la figura di Alcmane sono le testimonianze di Ateneo10, che dice che a Sparta era molto importante l’educazione musicale, e quella di Eliano11, secondo la quale, poiché gli Spartani si dedicavano in primo luogo alla disciplina militare, quando avevano bisogno di un poeta, ricorrevano ad uno straniero, come Terpandro di Lesbo e Talete di Gortina.

Queste due testimonianze, sebbene antitetiche, sono ugualmente importanti per comprendere l’humus culturale in cui fiorì l’attività poetica di Alcmane. Infatti, oggi sappiamo che Sparta nel periodo arcaico era una città viva dove,

8 Cuartero, 1972, pp. 3-34. 9 Bowra, 1961 (1973, p. 27). 10 Ateneo, 14, 632f-633a. 11 Eliano, Storia Vera, 12,50.

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come dice Terpandro (fr. 5Gost.):

ἔνθ’ αἰχμά τε νέων θάλλει καὶ Μῶσα λίγεια καὶ Δίκα εὐρυάγυια, καλῶν ἐπιτάρροθος ἔργων.

“Dove fiorisce il vigore guerriero dei giovani e la Musa sonora e Giustizia dalle ampie strade, che ispira ad opere belle”.

I nomi dei poeti attivi a Sparta fra VII e VI secolo a.C. sono più numerosi che in qualsiasi altra polis12 e a ciascuno di essi è attribuita un’innovazione in ambito musicale: Terpandro di Lesbo fu inventore della lira a sette corde e del

nomos citarodico, Xenodamo di Citera creò l’iporchema e Sacada di Argo fu

l’inventore del nomos pitico. In epoca arcaica era dunque a Sparta e non ad Atene che arrivavano artisti stranieri, che potevano trovare in questa città numerosi festivals e rituali pubblici e privati, che erano l’occasione naturale e necessaria per l’esecuzione poetica e musicale13.

Ma perché gli artisti, specialmente dall’Oriente, si recavano in Laconia? Perché, se ammettiamo che Alcmane fosse un lidio, avrebbe dovuto trasferirsi a Sparta?

In primo luogo perché Sparta, con la fine della prima guerra messenica (740-720 a.C.) aveva ottenuto una notevole stabilità politica e militare, poi per il grande sviluppo culturale e rituale, che ebbe il suo centro in un’istituzione sociale simile al simposio ateniese, ovvero il συσσίτιον, un grande banchetto pubblico quotidiano, di matrice militare, in cui, stando a quanto riferisce l’oratore Licurgo (Contro Leocrate, 106-107), c’era spazio per la poesia di tematica guerresca, come quella di Tirteo.

Vero è che l’esame dei frammenti dei poeti attivi a Sparta permette di supporre l’esistenza, accanto ai συσσίτια, di simposi privati, ovvero di

12 Boring, 1979, pp. 1-97. 13 Calame, 1983, pp. XII-XIII.

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prosecuzione delle feste pubbliche, nei quali c’era spazio per poesia di tematica diversa da quella militare14.

In terzo luogo, occorre ricordare che Sparta era legata da rapporti politici ed economici a Delfi, che, oltre che centro oracolare, era il santuario per eccellenza della poesia, del canto e della danza15.

Dunque, la produzione poetica di Alcmane, sia che la sua Musa fosse dorica o lidia, era rivolta alla comunità cittadina ed era destinata ad essere eseguita nel contesto di simposi o di cerimonie religiose di importanza sociale e politica. Tipico è il caso dei parteni, ovvero di quei canti destinati all’esecuzione da parte di un coro di fanciulle nel contesto di rituali iniziatici, attraverso i quali si articolava il processo educativo della gioventù spartana16.

Nei suoi testi Alcmane mantiene il motivo letterario dell’invocazione alla Musa che, partendo da Omero e passando attraverso Esiodo, con l’apparizione delle Muse sull’Elicona, è elemento rivelatore del rapporto che il poeta ha con la materia del suo canto.

I frammenti di Alcmane che verranno analizzati in questo lavoro17, sono riconducibili a tre nuclei fondamentali18:

 Un primo gruppo comprende quei frammenti in cui Alcmane sembra aderire alla concezione omerica della poesia come dono divino, che il poeta si limita ad interpretare e a far conoscere agli altri. Rientrano in questa categoria i frammenti 4C, 21C, 26C, 84C,114C, i versi 96-98 del fr.

14 Nafissi, 1991, p. 177, dichiara esplicitamente di tentare una ricostruzione del banchetto spartano di età classica, ben distinto da quello di epoca arcaica.

15 Quattrocelli, 2002, pp. 7-32.

16 Calame, 1977, pp. 51-70. Da ricordare il fatto che il genere del partenio pare già adombrato in Iliade XVI (182-183), in cui si descrive Polimela “bella nel danzare”, della quale si innamorò il dio Hermes “vedendola fra le compagne che si esibivano nel coro per Artemide”, De Martino-Vox, 1996, p. 155.

17 Seguo le edizioni di Calame, 1983 e Davies, 1991. 18 Garzya, 1963, p. 26.

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3C, e anche il fr. 86C può essere inteso come espressione di una coscienza poetica tradizionale.

2) Il secondo gruppo comprende quei frammenti in cui Alcmane mostra di intendere la poesia come frutto della collaborazione tra il poeta e la Musa, collaborazione che si concretizza grazie alle fanciulle che compongono i cori, percepiti come il tramite tra il poeta ispirato e la Musa. Rientrano in questa categoria i frammenti 82C, 90C, 149C e i versi 85-87 e 100-101 del fr. 3C.

3) Il terzo gruppo comprende quei frammenti in cui Alcmane parla di poesia come frutto esclusivo della capacità creativa del poeta, senza fare alcuna menzione della Musa, mostrando così come si sia venuta formando l’idea della piena personalità del poeta, che avrebbe avuto poi i suoi maggiori sviluppi con autori successivi come Simonide e Pindaro. Di questo gruppo analizzerò i frammenti 88C, 89C, 91C, 140C, 143C, i versi 36-40 del fr. 3C, ed anche il fr. 86C può essere fatto rientrare in questa categoria, oltre che nella prima.

Tra i frammenti che verranno studiati, particolare attenzione verrà rivolta al fr. 86C, in cui Alcmane paragona curiosamente le Muse ad un’altra categoria di esseri canori, altrettanto celebri nell’antichità, le Sirene.

Muse e Sirene hanno in comune il fatto di essere associate alla sfera del canto, della voce e dell’udito, che è per i Greci il senso tramite il quale è possibile seguire il filo logico di una storia e di una poesia (funzione cognitiva), lo strumento più efficace per memorizzare dati (funzione mnemonica) e il mezzo per godere della bellezza (funzione edonistica): la voce permette di descrivere il mondo in cui l’uomo greco vive e che la fantasia può ricreare nella mente19. Attraverso l’analisi delle differenze e delle analogie del canto proprio delle

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Muse e delle Sirene, tenendo presente l’episodio omerico di Odissea XII, cercherò di interpretare l’accostamento operato da Alcmane, che cela una precisa idea del “fare poetico”, in parte ancora legato alla tradizione ma, in buona parte, innovatore rispetto ad essa.

Nell’esame dei vari frammenti verranno analizzate caso per caso le attestazioni, a partire da Omero, di termini particolarmente importanti (come λιγύς, frequentemente impiegato da Alcmane per caratterizzare la Musa), o di figure retoriche legate al canto, per evidenziare le innovazioni linguistiche presenti nei testi di Alcmane20.

Per quanto poco numerosi e frammentari risultino i canti di Alcmane che ci sono pervenuti, questo studio vuole mostrare come siano delle preziose testimonianze di un mondo (la Sparta del VII sec. a.C.)21 a cui Alcmane ha dato voce, in parte usando elementi della tradizione, in parte innovando, così da lasciare ai poeti successivi la strada già aperta per giungere alla definitiva scissione dell’“io poetico” dalla figura della divinità ispiratrice.

<<Ma le pur scarne reliquie di Alcmane insegnano a non lasciarsi suggestionare troppo dalla nozione di arcaismo. Altrimenti si finisce col dispogliare l’arcaico anche dei radi panni dei quali legittimamente si riveste>>22.

20 A questo scopo, i principali strumenti utilizzati saranno Chantraine, 1968 e Snell, 1978 (1991)e 1979.

21 Per una visione approfondita dei caratteri di Sparta arcaica si consideri Nafissi, 1991. Egli analizza in modo dettagliato gli eventi capitali della storia di Sparta, le sue istituzioni e le forme di vita comunitaria (dai simposi, alle pratiche funerarie, alle cerimonie religiose), con costante riferimento ai ritrovamenti archeologici e alle testimonianze letterarie dei poeti che operarono in questa città. Tra gli altri si vedano Janni, 1970, vol. II; Calame, 1977, vol. I, pp. 251-357.

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CAPITOLO I

I FRAMMENTI CHE CONTENGONO UN’INVOCAZIONE

ALLA MUSA

Fr. 4C=14aD

Il fr. 4C=14aD costituisce secondo Calame23 la parte iniziale di un poema

composto da Alcmane per un coro di fanciulle, in cui il poeta invita le Muse a cantare direttamente per bocca delle coreute.

Μῶσ’ ἄγε Μῶσα λίγηα πολυμμελὲς

αἰὲν ἀοιδὲ μέλος

νεοχμὸν ἄρχε παρσένοις ἀείδην.

“Musa, Musa canora dalla voce melodiosa canto perenne,

intona un nuovo canto per le fanciulle”.

Μῶσ’ ἄγε Μῶσα è l’in

vocazione iniziale alla Musa (peraltro ripetuta, per

cui siamo di fronte ad un’anafora) che sottolinea che il delicato momento iniziale di ogni performance, quello in cui la Memoria ha un ruolo fondamentale nel suggerire il ritmo e le trame dei versi, è profondamente legato alle figlie stesse di Mnemosyne: le Muse. Con questa espressione Alcmane si collega al motivo tradizionale di invocazione alla Musa, per cui alla dea viene chiesto di cantare essa stessa24, o di dire al poeta qualcosa che gli

23 Calame, 1983, p. 349. λιγεία è un termine che aveva già fatto la sua comparsa in Odissea XXIV, 62, laddove Agamennone, raccontando ad Achille dei funerali che vennero fatti in suo onore, dice che le nove Muse in persona erano presenti ed intonarono il lamento funebre.

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preme raccontare25, nella consapevolezza che ciò che la dea ispira è verità rivelata e che in questo consiste il dono delle Muse26.

ἄρχε

riconduce proprio ad una funzione proemiale di questi versi, ai quali doveva seguire la vera e propria οἴμη; il verbo ἄρχειν, infatti, è un verbo tecnico, che indica il ruolo preciso attribuito alle Muse, ossia quello di intonare il canto e di fornire il tema dell’esecuzione corale27. In Omero i verbi ἄρχειν ed

ἐξάρχειν, che sono tra loro sinonimi, venivano usati per indicare l’attività del cantore, oltre che qualsiasi intervento di un eroe, non necessariamente quello in apertura del dialogo28. Così, ad esempio, nella descrizione della danza di

Nausicaa e delle sue ancelle (Odissea VI, 99), un primo verbo indica la danza delle ancelle e un secondo dice che fra loro Nausicaa iniziò (ἄρχετο) il canto29. ἄρχειν è uno dei verbi e delle espressioni che sono stati usati dagli antichi poeti per rendere l’immagine allegorica del discorso come cammino: il discorso poetico, in quanto atto linguistico, è infatti dotato di un principio e di una fine,

25 Ne sono un esempio i versi 484-487 di Iliade II: Ἔσπετε νῦν μοι, Μοῦσαι Ὀλύμπια δώματ’ἔχουσαι /ὑμεῖς γὰρ θεαί ἐστε, πάρεστέ τε, ἴστε τε πάντα,/ἡμεῖς δὲ κλέος οἶον ἀκούομεν οὐδέ τι ἴδμεν /οἵ τινες ἡγεμόνες Δαναῶν καὶ κοίρανοι ἦσαν (“Ditemi adesso, Muse che abitate l’Olimpo/ voi, dee, voi siete sempre presenti, tutto sapete,/ noi la fama ascoltiamo, ma nulla vedemmo/ quali erano i capi e i comandanti dei Danai”).

26 Il primo verso dell’Iliade è incentrato sul canto della dea, quasi che l’aedo non esistesse anche se la sua persona sembra comparire insieme alla Musa subito dopo al v. 8. Sempre nel primo canto dell’Iliade, al v. 604, si dice che le Muse cantano in canti alterni ὁπὶ καλῇ: le Muse cantano con voce bella , allietano gli dei e il loro canto ha come contenuto la verità, in quanto proviene da divinità che sono ovunque e che tutto vedono. In questo modo, non si pone la possibilità di un contenuto non vero espresso in forma bella. Come fa notare Arrighetti (1987, pp. 32-43) in Omero l’identità fra poesia bella e verità è accettata senza discutere. È con Esiodo che comincia ad essere avvertita la crisi di questa identità, con la conseguenza che risulta necessario trovare nuove garanzie che assicurino veridicità alla poesia. Già dal proemio della Teogonia Esiodo si pone questo problema e lo risolve affermando di essere stato scelto lui, e non altri, dalle Muse: questa scelta operata dalla divinità lo ha reso superiore agli altri, egli è risultato degno della gratificazione divina e, di conseguenza, la sua poesia canta il vero.

27 Il verbo ἄρχε è una forma di infinito attivo tipico di Alcmane, che alterna per questa orma verbale le desinenze -εν/-ην (Calame,1983, p. 352). Snell, 1979, pp. 1387-1389 analizza le occorrenze di tale verbo nell’epica e negli Inni e fa notare che viene usato per aprire una conversazione, per segnare l’inizio di un discorso in assemblea e nell’invocazione alla divinità in apertura di un componimento poetico.

28 Iliade, II, 272 (di Odisseo); Odissea XII, 339 (di Euriloco). 29 Rodriguez Adrados, 1976 (2007, pp. 50-55).

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e il suo sviluppo è paragonabile allo snodarsi di una strada da percorrere30. Nel frammento ci troviamo di fronte ad un’accumulazione di epiteti riferiti alle qualità canore della Musa:

λίγηα

31

è l’epiteto caratteristico di un essere sonoro ben distinguibile e dotato di una voce che fende l’aria. Si tratta di un aggettivo che si collega con l’idea di chiarezza e di penetrazione sonora; si veda, a proposito, il consimile fr. 278PMGF di Stesicoro, dove l’aggettivo λιγύς si accompagna al verbo

φθέγγομαι, per definire la forza e la precisione del canto della Musa:

ἄγε Μοῦσα λίγειʹ ἄρξον ἀοιδᾶς ἐρατωνύμου

Σαμίων περὶ παίδων ἐρατᾷ φθεγγομένα λύρα.

“Intona, penetrante Musa, un canto d’amore parla di quei ragazzi di Samo sulla cetra d’amore”.

Qui, oltre all’aggettivo λιγύς, compare anche il verbo ἄρχω a sottolineare che l’avvio del canto, se non è intrapreso dalla stessa divinità, è ad ogni modo da essa dipendente.

Πολυμμελές,

riferito a μέλος32

, indica la varietà dei suoni e dei canti per coloro che ascoltano33.

30 Durante, 1976, p.123. Vengono ricordati, ad esempio, νέομαι (Pindaro, Pitica VIII, 67), ἀνέδραμον (Pindaro, Olimpica VIII, 54), ἔπειμι (Ibico, fr. 282A, 24P), oppure espressioni nominali come τρίβος (Inno IV, ad Hermes, 448) e πόρος (ὕμνων) (Empedocle, fr. 35 Diels).

31 λιγύς è aggettivo riferito da Alcmane alla Musa anche nel fr. 86C, come vedremo nel capitolo VI. Snell, 1979, pp. 1692-1694, afferma che questo aggettivo ha già nell’epica e negli Inni il significato di “chiaro”, “acuto”, persino “stridulo” e “penetrante”.

32 Platone (Repubblica, 398d) di unità di parola, musica e ritmo nell’esecuzione corale, cui la Musa stessa presiederebbe, ovvero equivarrebbe al concetto di μουσική, che in origine aveva proprio il significato di “arte delle Muse”, come perfetta unione di suoni, parola e danza.

33 La varietà dei suoni e dei canti è un valore sia positivo che negativo nella cultura greca arcaica. Si vedano πολυηχέα φωνήν (Odissea XIX, 512), δῆριν πολύμνον (Ibico, fr. 282P, 6), e τῇ πολυκρότῃ σὺν Γαστροδώρῳ (Anacreonte, fr. 427P, 2-3).

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αἰὲν ἀοιδέ

sottolinea il carattere di eterna cantatrice della Musa34. La combinazione fra anafora (Μῶσα... Μῶσα) e i richiami etimologici πολυμμελὲς/ μέλος e ἀοιδὲ/ἀείδην <<creano un ritmo che, con il piacere della ripetizione,restituisce all’uditorio l’essenza delle Muse, del μέλος, della τέρψις e del μιμνήσκειν, sempre pronte ad ispirare un canto nuovo e dolce>>35.

Νεοχμόν

, “nuovo”, è il canto che il poeta chiede alla Musa di cominciare.

Questo termine richiama inevitabilmente alla memoria il libro I dell’Odissea (336-344), in cui Penelope, rattristata nell’udire l’aedo Femio cantare il ritorno in patria degli Achei, gli chiede di cantare qualcuno degli altri canti che egli conosce (337-339):

Φήμιε, πολλὰ γὰρ ἄλλα βρωτῶν θελκτήρια οἷδας. ἔργ’ ἀνδρῶν τε θεῶν τε, τά τε κλείουσιν ἀοιδοί.

“Femio, molti altri canti tu sai, affascinatori degli uomini, fatti d’eroi, di numi, che gli aedi glorificano”36.

34 L’originale appellativo αἰὲν ἀοιδὲ può essere riunito in in’unica parola, αἰεναοιδέ, secondo Bergk 1865, analogamente a αἰένυπνος in Sofocle, Edipo a Colono, 1576. Inoltre, occorre precisare che il termine ἀοιδή esprime in genere il concetto di voce umana, ma nell’epica è riferito anche a figure estranee alla sfera umana: il cavallo Xanto, in Iliade XIX, 407; Calipso e Circe rispettivamente in Odissea X, 136 e XII, 449; le Muse nella Teogonia di Esiodo, 39. Si vedano le osservazioni di Calabrese De Feo, 2011, pp. 8-9. Per il termine ἀοιδή come canto inteso come mestiere o attività praticato quasi esclusivamente da esperti, ai quali le Muse hanno assegnato in dono tale abilità, si veda Snell, 1979, pp. 976-980.

35 Buè, 2015, p. 16.

36 Dietro la figura di Femio si deve vedere un graduale cambiamento del rapporto Musa-poeta, che investe la personalità dell’aedo e la sua originalità. Rispetto al proemio dell’Iliade, quello dell’Odissea (Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα...) presenta il pronome personale μοι, che mette in maggior rilievo la persona dell’aedo, che manca nel primo verso dell’Iliade. Gradualmente l’aedo prende coscienza di sé in quanto soggetto attivo del canto: si prepara così la via per una crisi della quale <<l’Odissea conserva tracce inequivocabili>> (Accame, 1963, p. 268). In particolar modo, nel libro VIII dell’Odissea, Odisseo parla dell’ispirazione poetica non più come di un dono delle Muse, bensì di un insegnamento (vv. 487-489): Δμόδοκ’, ἔξοκα δή σε βροτῶν αἰνίζομ’ ἀπάντων·/ἢ σέ γε Μοῦσ’ ἐδίδαξε, Διὸς πάις, ἢ σέ γ’ Ἀπόλλων (“Demodoco, io ti adoro sopra tutti i mortali; / certo Apollo o la Musa, figlia di Zeus, ti istruirono”). Poi, nel libro XXII dell’Odissea,

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Femio viene invitato a intonare nuovi canti perché ha la capacità di scegliere

fra i vari argomenti e di organizzarne la trama, ma la sua responsabilità non investe la verità del racconto, che è garantita dalla Musa ispiratrice.

Fr. 21C=8D

Il fr.21C, per quanto lacunoso, permette di vedervi un’introduzione proemiale contenente un’invocazione alla Musa.

Μῶσαι μ[ Μν]αμοσνα μ[

γεῖσα π[ ]... ς ἐγέννατο [ μα[ ]ρ θανατοῖσι τέρπεσ[θαι.

“Muse, (voi che) Mnemosyne Ha generato unendosi a... I mortali si rallegrano”.

ἐγέννατο

è suscettibile di due possibili interpretazioni37: la prima considera

Femio dice di se stesso ai vv. 347-348:αὐτοδίδακτος δ’ εἰμί, θεὸς δέ μοι ἐν φρεσὶν οἴμας/ παντοίας ἐνέφυσεν (“Da solo imparai l’arte, un dio tutti i canti/ mi ispirò nel cuore”). Lanata (1954, p. 5) afferma che questa espressione voglia riferirsi all’arte, cioè alla tecnica con cui il poeta riveste il contenuto che gli è stato ispirato dalla Musa. Oppure si può pensare che Femio distingua l’azione dell’ispirazione divina dalla capacità propria dell’aedo di organizzare il canto sulla base di ciò che gli è stato trasmesso dalla divinità (Bowra, p. 220; Lesky, 1961, p. 31). Accame (1963, pp. 388-389) sostiene che Femio è maestro di se stesso proprio perché non ha imparato da altre persone la tecnica poetica, ma dall’insegnamento divino. Interessante è l’ipotesi di Arrighetti (1987, pp. 43-44) che vede nell’investitura poetica di cui le Muse hanno fatto dono ad Esiodo, ovvero nell’attribuzione che Esiodo fa a se stesso, in qualità di poeta, di una responsabilità collegata con l’essere degno di ricevere l’ispirazione delle Muse, un’interpretazione dell’αὐτοδίδακτός δ’ εἰμί di Femio, ovvero di un timido accenno al valore della personalità del poeta nei confronti della sua produzione. Dice Arrighetti:<<Può trattarsi, se abbiamo visto giusto, di un’anticipazione delle posizioni pindariche contenute nella dottrina della “sapienza per natura” che presupponeva la possibilità di sviluppare solo le capacità innate>>. Invece, non pare accettabile l’ipotesi di Setti, 1958, p. 150, per cui Femio inventa i suoi canti, mentre gli altri poeti imparano canti composti da altri perché, come dice Arrighetti:<<è assolutamente anacronistica la ricerca in Omero di una contrapposizione fra poesia puramente o essenzialmente ripetitiva e una originale>>. 37 Calame,1983, p. 385.

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Mnemosyne come soggetto di ἐγέννατο, la seconda intende come soggetto la madre di Mnemosyne: Gea. Queste due diverse interpretazioni scaturiscono da due tradizioni riguardanti l’origine delle Muse.

Una prima tradizione, infatti, fa capo ad Omero (Iliade II, 491-492), che afferma che le Muse sono figlie di Zeus: εἰ μὴ Ὀλυμπιάδες Μοῦσαι, Διὸς αἰγιόχοιο θυγατέρες e ad Esiodo che dice che le Muse sono figlie di Mnemosyne e di Zeus (Teogonia, 53): Μοῦσαι Ὀλυμπιάδες, κοῦραι Διὸς αἰγίχοιο, e le definisce Ὀλυμπιάδες38, proprio come Zeus perché, come il loro

padre, hanno dimora sull’Olimpo. Già nell’Iliade, infatti, si affermava che le Muse hanno dimora sull’Olimpo: Μοῦσαι Ὀλύμπια δώματ’ ἔχουσαι (II, 484; X, 112; XIV, 518). In base a questa tradizione, dunque, le Muse sono nate insieme al regno olimpico di Zeus39. Il nome della loro madre, Mnemosyne,

farebbe pensare che anche nella parola Μοῦσα sia da riconoscere la radice del ricordo (μιμνήσκω, memini); a questo proposito Plutarco40afferma che le Muse

erano dette anche Μνεῖναι41.

L’associazione fra le Muse e Mnemosyne42 si ritrova anche in Solone. Infatti, l’antologista Stobeo ci ha trasmesso un lungo brano di 76 distici elegiaci, noti come elegia Alle Muse, che si apre con un’invocazione alle Muse, figlie di Mnemosyne e di Zeus Olimpio, le divinità della παιδεία umana, ossia della cultura che insegna il vivere secondo civiltà, alle quali il poeta chiede di ottenere ricchezza e fama, purché ciò avvenga con il volere degli dei, ovvero secondo giustizia (1-8). Per Solone, infatti, l’arte delle Muse era funzionale al

38 Esiodo, Teogonia, 25, 52, 966, 1022. L’epiteto riferito alle Muse era già presente in Omero, Iliade II, 491.

39 Già negli Inni Omerici ci si rivolge alla Musa iniziatrice del canto in qualità di figlia di Zeus (Inno XIV, Alla Madre degli dei; Inno XXV, Alle Muse e Apollo; Inno XXXI, A Helios; Inno XXXII, A Selene).

40 Plutarco, Quaest. Sympos. 9, 14.

41 Otto, 1954 (2005, pp. 29-31), ricorda che Livio Andronico (fr.26) aveva reso il greco Μοῦσα con Moneta, un nome divino avente la radice di moneo. Ogni lettore avrebbe subito pensato alla dea Iuno Moneta Regina, moglie di Zeus, proprio come Mnemosyne. Il nome significava “consigliera”,“ammonitrice”: le Muse sono, dunque, dee rammemoratrici ed ammonitrici.

42 Questa associazione fra le Muse e Mnemosyne è attestata anche da un passo dell’Eutidemo di Platone (275d): καθάπερ οἱ ποιηταί, δέομαι ἀρχόμενος τῆς διηγήσεως Μοῦσας τε καὶ Μνημοσύνην ἐπικαλεῖσθαι.

(16)

suo impegno politico, con la difesa dei valori sui quali deve fondarsi ogni collettività43(fr. 13W, 1-2):

Μνημοσύνης καὶ Ζηνὸς Ὀλυμπίου ἀγλαὰ τέκνα Μοῦσαι Πιερίδες, κλῦτέ μοι εὐχομένῳ.

“Luminose figlie di Mnemosyne e Zeus Olimpio, Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera”.

Analogamente in Terpandro (fr. 3 Gost.):

Σπένδωμεν ταῖς Μνᾶμας “Brindiamo alle Muse παισὶν Μώσαις. le figlie di Memoria”.

Il compito di ricordare è proprio delle Muse; ciò significa che la memoria è un elemento fondamentale del canto, come afferma Senofane (fr. 1DK, 20):

ὡς ἦι μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς. “Memoria e propositi di virtù”44.

La giustapposizione Μῶσαι-Μναμοσύνα del fr.21C potrebbe, dunque, essere spiegata come un’adesione di Alcmane alla tradizione che risale ad Esiodo. Tuttavia, sappiamo da Diodoro Siculo (IV, 7, 1) che, in un passo che non ci è pervenuto, Alcmane definiva le Muse figlie di Urano e di Gea:

Περὶ δὲ τῶν Μουσῶν ἐπειδήπερ ἐμνήσθημεν ἐν ταῖς τοῦ Διονύσου πράξεσιν, οἰκεῖον ἂν εἴη διελθεῖν ἐν κεφαλαίοις. Ταύτας γὰρ οἱ πλεῖστοι τῶν μυθογράφων καὶ μάλιστα δεδοκιμασμένοι φασὶ θυγατέρας εἶναι Διὸς καὶ Μνημοσύνης. Ὀλίγοι δέ τῶν ποιητῶν, ἐν οἷς ἐστι Ἀλκμάν, θυγατέρας ἀποφαίνονται Οὐρανοῦ καὶ Γῆς. 43 Fränkel, 1962 (1997, p. 350, n. 35).

44 Si tratta di un verso in cui il termine τόνος allude alla scansione metrica della poesia, mentre μνημοσύνη è riferito alla concezione arcaica della poesia come ricordo di quanto le Muse hanno insegnato (Aloni, 2007, pp. 204-205).

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L’apparente contraddizione che ne deriva può essere spiegata considerando il fr.13W di Mimnermo, tramandato da Pausania (IX, 29,4). In base a questo frammento, esisteva una doppia genealogia delle Muse, ovvero una suddivisione delle stesse in più antiche, figlie di Urano e di Gea, e più recenti, figlie di Zeus e di Mnemosyne45. Dunque, è probabile che Alcmane,

considerando le Muse figlie del Cielo e della Terra, volesse collocarle in una luce particolarmente reverenziale e coinvolgerle nel primordiale processo cosmogonico, come se volesse dire che la poesia ha fatto la sua comparsa fra le primissime manifestazioni della vita ordinata46.

Se ammettiamo che Alcmane considerasse le Muse figlie di Mnemosyne e di Zeus, è chiaro che egli doveva conoscere le implicazioni che la connessione Muse-Memoria aveva già nell’epica omerica47: a) la funzione di perpetuare e di

immortalare κλέα ἀνδρῶν; b) la funzione di conservare le informazioni; c) la funzione creativa, dal momento che memoria ed ispirazione poetica sono alla base del processo compositivo48.

τέρπεσθαι

compare nel verso 2 compare accanto al termine θανατοῖσι. Lo

Chantraine, alla voce τέρπομαι49, dice che tale verbo nel testo omerico (ad esempio, in Iliade XIX, 19; XXIV, 636 e in Odissea XVII, 164; XII, 188; XVI, 26) significa “trovare un completo soddisfacimento di un proprio desiderio” e specifica che τέρψις50, “soddisfazione”, “piacere”, che è detto della musica, dei

pasti e dei giochi, è ben distinto da ἡδονή, che possiede un significato più generale. Questo verbo è strettamente connesso al contesto della musica e del canto, in quanto sottolinea che il dono delle Muse è fonte di gioia per i mortali.

45 Bowra, 1961 (1973, p. 41). 46 Garzya, 1963, pp. 27-28.

47 Iliade, VI, 358; Odissea VIII, 73 e 580; XXIV, 196-197; Inno IV (ad Apollo, 298-299). 48 Notopoulos, 1938, pp. 465-493.

49 Chantraine, 1968, pp. 1107-1108.

50 Quanto questo termine sia tipico del linguaggio della cultura aedica lo si deduce dal patronimico di Femio, Τερπιάδης (Odissea XXII,330), da Τερψικλῆς, nome di un rapsodo in un’iscrizione da Dodona, e da Τέρπανδρος, il fondatore leggendario della citarodia lesbia.

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Ne sono esempi:

Achille che si diletta a suonare la cetra presso la sua tenda (Iliade XIX,185- 186):

Μυρμιδόνων δ’ ἐπί τε κλισίας καὶ νῆας ἱκέσθην, τὸν δ’ εὗρον φρένα τερπόμενον φόρμιγγι λιγείῃ.

“E giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni, e lo trovarono che con la cetra sonora si dilettava”;

 Teognide, 791:

τερποίμην φόρμιγγι καὶ ὀρχηθμῶι καὶ ἀοιδῆι.

“Possa io gioire della cetra, della danza e del canto”.

 Pindaro nel fr. 129, 10-11M, in cui il poeta rappresenta la vita post mortem dei beatI, fra prati fioriti, piacevoli occupazioni e pie cerimonie (1-2):

τοὶ δὲ φορμίγγεσι τέρπονται, παρὰ δέ σφισιν εὐανθὴς ἅπας τέθαλεν ὄλβος.

“Essi si dilettano con la cetra, presso di loro fiorisce rigogliosa e completa la felicità”.

Anche nel proemio della Teogonia si trova l’idea della poesia come diletto e sollievo dagli affanni (55 e 98-103):

λησμοσύνην τε κακῶν ἄμπαυμά τε μερμηράων.

“Che fossero oblio dei mali e tregua alle preoccupazioni” (con riferimento alle Muse);

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εἰ γάρ τις καὶ πένθος ἔχων νεοκηδέι θυμῷ ἄζηται κραδίην ἀκαχήμενος, αὐτὰρ ἀοιδὸς Μουσάων θεράπων κλεῖα προτέρων ἀνθρώπων ὑμνήσει μάκαράς τε θεοὺς οἳ Ὄλυμπον ἔχουσιν, αἶψ’ ὅ γε δυσφροσυνέων ἐπιλήθεται οὐδέ τι κηδέων μέμνηται· ταχέως δὲ παρέτραπε δῶρα θεάων.

“Se c’è qualcuno che per gli affanni nel petto fresco di lutto disseca nel dolore il suo cuore, se un aedo

delle Muse ministro le glorie degli uomini antichi celebra e gli dei beati signori d’Olimpo,

subito egli scorda i dolori, né i lutti

rammenta: presto lo distolgono i doni delle dee”51.

Fr. 26C=3D

Il fr. 26C=3D, di provenienza papiracea (Papiro di Ossirinco 2387, frr. 1-3, tra I sec. a.C e I sec. d.C), è secondo per estensione soltanto al fr. 3C, con il quale presenta numerose affinità tematiche ed espressive, benché purtroppo il suo stato di conservazione sia peggiore.

Dai pochi versi leggibili si deduce tuttavia chiaramente che si tratta anche in questo caso di un partenio, in cui il ruolo della corega è svolto da una giovane di nome Astimelusa: la sua posizione è analoga a quella di Agesicora nel fr. 3C e l’atto rituale che essa compie si iscrive parimenti nel complesso dei riti

51 Come spiega Arrighetti (1987, pp. 40-41), per Esiodo la poesia doveva possedere due pregi: verità e diletto e lo dimostra quando afferma che le cose che le Muse gli hanno insegnato sono le stesse che dilettano Zeus sull’Olimpo (Teogonia, 36). Analogamente, che il dono delle Muse sia costituito sia di verità che di fascino lo si ricava anche dai vv. 85-89, dove Esiodo dice che la grandezza di un re è misurata sulla capacità di amministrare rettamente la giustizia e di placare le contese con dolci parole. Ancora, a 98, Esiodo afferma che le qualità del poeta consistono nel θέλγειν e nel τέρπειν.

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iniziatici cittadini52.

Manca nella parte conservata la sezione mitica, mentre è presente quella proemiale, che mostra alcuni caratteri interessanti53. Di seguito saranno analizzati i versi 1-10 e 61-62: [Μῶσαι Ὀλ]υμπιάδες περί με φρένας [...]ς ἀοιδᾶς [...]ω δ’ ἀκούσαι [...]ας ὀπός [...]ρα καλὸν ὑμνιοισᾶν μέλος ]οι

52 Il nome Astimelusa compare in posizione enfatica al v. 64 (Ἀστυμέλοισα δέ μ’ οὐδὲν ἀμείβεται, “Astimelusa nulla mi risponde”) e al v. 73 (Ἀστυμέλοισα κατὰ στρατόν, “Astimelusa tra la folla”), dove diviene oggetto di un gioco etimologico. Infatti, al v. 73 compare il termine στρατόν e nel successivo v. 74 (μέλημα δάμωι, “delizia per i cittadini”) il termine δᾶμος (=δῆμος), che indicano chiaramente che l’atto rituale svolto da Astimelusa ha un significato civico ed istituzionale, che riguarda quindi tutta la comunità, in mezzo alla quale appunto si svolge. Questa valenza collettiva è espressa in termini erotici: il desiderio che le coreute provano per la corega (vv. 77 e ss.) è condiviso dagli altri cittadini, per i quali Astimelusa è “oggetto di cure”, μέλημα, termine che appartiene alla sfera del linguaggio amoroso. Inoltre, il nesso μέλημα-δάμῳ è una specie di gioco di parole con la corega, di cui si vuole fornire un’etimologia: poiché ἄστυ=δῆμος e -μελοισα è ricondotto alla stessa radice di μέλω, donde anche μέλημα. Astimelusa è, dunque, “una fanciulla dal nome trasparente”, come dice Garzya, 1963, p. 40. Astimelusa, allo stesso modo di altri componenti dei cori di Alcmane, come Agesicora del fr. 3C e Agesidamo del fr. 82C, sono dei nomi “parlanti”, che esprimono quello che Arrighetti (1987, pp. 13-22) chiama “gusto etimologico”, che è ben attestato nella poesia arcaica. Infatti, fino all’età dei Sofisti, l’unico tipo di riflessione di tipo linguistico che la cultura greca conosce è l’etimologia, ovvero la spiegazione del significato delle parole. Quando Platone nel Cratilo (391d e seg.) analizza vari “casi” della poesia omerica, che testimoniano della capacità di Omero di conoscere la correttezza dei nomi, si afferma che la ὀρθότης τῶν ὀνομάτων dipende dalla “prova” etimologica, ovvero dalla perfetta corrispondenza del nome in questione con la realtà che esso indica, come accade, ad esempio, per il nome Astianatte (Iliade XXII, 507), “signore della città”, che ben si addice al figlio di Ettore, grande difensore della città di Troia.

53 È probabile che il nome della divinità a cui la festa era dedicata doveva trovarsi nella lacuna proprio all’inizio del componimento. Un’ipotesi è che si trattasse di Ἄνθεια, l’epiteto con cui oggi sappiamo che Hera veniva venerata ad Argo (Pausania, II, 22, 1) e a Mileto, ma la presenza al v. 65 del termine πυλεών, “corona”, associata alla notizia del lessicografo Panfilo (in Ateneo, XV, 678a), secondo il quale era così designata la corona con cui i Laconi erano soliti onorare le statue di Hera, e al fr. 126C di Alcmane, in cui il coro invoca la divinità mentre le offre appunto un πυλεών (καὶ τὶν εὔχομαι φέροισα/ τόνδ’ ἑλιχρύσω πυλεῶνα/ κἠρατῶ κυπαίρω= “e ti invoco recando questa corona di elicriso e di incantevole cipero”) sembra corroborare l’ipotesi secondo cui Astimelusa si muove attraverso lo spazio di danza, recando alla dea Hera questa offerta floreale.

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[ὕπνου ἀ]πὸ γλεφάρων σκεδ[α]σεῖ γλυκύν [...]ς δέ μ’ ἄγει πεδ’ ἀγῶν’ ἴμεν [ἆχι μά]λιστα κόμ[αν ξ]ανθὰν τινάξω ]σχ [ ἁπ]αλοὶ πόδες. <vv. 11-60> λυσιμελεῖ τε πόσῳ, τακερώτερα δ’ ὕπνου καὶ σανάτω ποτιδέρκεται.

“Muse olimpie, nel mio animo ...del canto

...udire ...la voce

...che cantano in coro la bella melodia …

che disperderà dalle palpebre il dolce sonno ...e mi guida alla festa

dove con forza scuoterò i miei capelli biondi ...piedi delicati

<vv. 11-60>

e con desiderio che scioglie le membra, ma più struggente del sonno e della morte guarda”.

Ὀλυμπιάδες

è l’epiteto usato per definire le Muse, che collega queste divinità

ispiratrici alla mitica generazione di Zeus e non già a quella dei Titani54 e che

54 Sulla presenza delle due tradizioni mitiche si veda il commento fatto in questo capitolo al fr. 21C.

(22)

rinvia ad una delle più antiche residenze delle Muse celebrate dal mito, ovvero l’Olimpo, mentre la seconda dimora prediletta dalle Muse è l’Elicona55. D’altra parte, sull’Olimpo esse sono nate, proprio sulla sua cima innevata (Esiodo,

Teogonia, 62-63), sull’Olimpo esse cantano per rallegrare Zeus e nella regione

olimpica della Pieria Orfeo, figlio della Musa Calliope, aveva cantato e trovato la morte.

Σκεδασεῖ...τινάξω

sono i due futuri che si giustificano rispetto al presente

ἄγει del v. 8 con il fatto che in questo proemio appare chiaramente uno degli espedienti tipici della lirica corale arcaica: il coro, che sta eseguendo il canto di fronte al pubblico, descrive se stesso nell’attimo immediatamente precedente la rappresentazione, come se questa dovesse ancora iniziare. Così qui le fanciulle del coro affermano che il canto delle Muse le scuote dal sonno (vv. 5-8), invitandole a recarsi alla festa per danzare e cantare, mentre in realtà stanno già eseguendo il canto. Nello stesso tempo il coro delle fanciulle che canta incarna il coro delle Muse, di cui rappresenta in un certo senso l’attualizzazione in forma umana, mentre l’accenno al sonno abbandonato indica, con ogni probabilità, che il rito si svolgeva all’alba56.

ὀπός

è termine usato ampiamente in Omero per denotare la voce umana, quella che si esprime sia attraverso i discorsi che attraverso il canto (Iliade I, 604; Odissea X, 221). ὄψ ricopriva uno spettro sonoro piuttosto ampio, tanto da poter indicare sia la parola umana, sia il lamento che il grido inarticolato57. Nel nostro frammento, si riferisce alla voce delle Muse58.

55 Che le Muse siano legate all’Olimpo si vede bene in Iliade II, 491; Inno IV (ad Hermes, 450); Esiodo, Teogonia, 25 e 52.

56 Il modulo per cui, all’inizio del componimento, la Musa viene invita a partecipare alla festa trova dei paralleli nella produzione pindarica (Olimpica XI, 16 e ss; Pitica IV, 1; Nemea IX, 1). La prospettiva per cui l’esecuzione che il coro ha già intrapreso viene proiettata nel futuro prossimo ha un preciso paragone in Pindaro, Partenio II, (fr. 94B, vv. 6-169).

57 Bettini, 2008, pp. 36-37.

58 Secondo Calame, 1983, p. 396, i termini ἀοιδᾶς del v. 2 e ὀπός del v. 4 si riferiscono al canto e alla voce delle Muse, le quali sarebbero il soggetto di ὑμνιοισᾶν (v. 5), mentre le

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ὕπνον γλυκύν,

“il dolce sonno” che il canto ha il potere di allontanare ἀπὸ γλεφάρων, “dalle palpebre” (v. 7) delle fanciulle, è un’immagine di ascendenza omerica. Infatti, il sonno era definito γλυκύς già in Omero (Odissea II, 395), dove Atena fa scendere sui Proci il sonno per favorire la partenza di Telemaco: ἔνθα μνηστήρεσσιν ἐπὶ γλυκὺν ὕπνον ἔχευε.

Che il canto possa avere valore ristoratore è ben visibile già in Omero (Iliade IX, 182-183), dove si descrive Achille nella sua tenda che cerca di lenire la collera che angustia il suo animo cantando e accompagnandosi con uno strumento a corde, la φόρμιξ, e in Esiodo (Teogonia, 97 e 102-103) che dice che se qualcuno, triste o spaventato, ascolta della musica, “subito ansia e dolore dimentica, né i lutti / ricorda: presto lo distolgono i doni delle Muse”. Anche la connessione canto-sonno non è un’invenzione di Alcmane, ma egli la deriva consapevolmente dalla tradizione. Le testimonianze letterarie pre-alcmanee sulla stretta parentela che intercorre fra sonno e morte sono numerose.

In Omero, Ὕπνος, fratello di Θάνατος, è celebrato nell’episodio della Διὸς ἀπάτη, l’inganno ordito da Hera nei confronti di Zeus, per distogliere la sua

coreute sono il soggetto del verbo ἀκούσαι (v. 3). Per consentire la traduzione della parte iniziale del fr. 26C sono state effettuate delle integrazioni. Prima di tutto, nel v. 3, il Page ha pensato ad un verbo reggente (πίμπλετε=colmate), connesso in tmesi con περί, “attraverso”, “da parte a parte”, del v. 1, allo stesso modo in cui Pindaro (Pitica IV, 122) scrive: ἄν περιψυχὰν γάθησεν, ossia “gioì nel suo animo”. In questo caso abbiamo περὶ φρένας, espressione di origine omerica, che si trova nei passaggi in cui Omero descrive una sensazione che invade il cuore di una persona. Al v. 2 compare il termine ἀοιδας, che si può intendere come genitivo ἀοιδᾶς, ma non si può escludere un accusativo plurale ἀοιδάς; il termine doveva comunque essere accompagnato da un aggettivo immediatamente precedente, ad esempio νέας (Page) o ἀγλαᾶς (Barrett). Nella prima parte del v. 2 o all’inizio del v. 3 doveva essere incluso un verbo indicante il desiderio, da parte delle coreute, di ascoltare il canto delle Muse, ad esempio ἰθύω o ἱμείρω. Questo verbo di desiderio doveva reggere l’infinito aoristo I di ἀκούω (ἀκούσαι), a sua volta reggente ἀοιδᾶς o il successivo ὀπός (v. 4), anch’esso genitivo. Al v. 5 abbiamo il genitivo plurale del participio femminile di ὑμνέω, con la terminazione eolica -οισα e il vocalismo laconico ε=ι davanti a vocale (come σιοί=θεοί). Il verbo ὑμνέω, che qui si riferisce alle Muse, è collegato con il sostantivo ὕμνος. Lo Chantraine afferma che tale termine sembra avere una coloritura religiosa. Di etimologia oscura, ὕμνος sembra derivato da ὑμνή, come λίμνη da λιμνή, ποίμνη da ποιμνήν. Partendo dal senso originale di ὑμνή, “collegamento”, ὕμνος vorrebbe dire “canto assemblato” al fine di celebrare qualcuno o qualcosa. Le Muse intonano (ὑμνιοισᾶν) il “bel canto” (καλὸν μέλος), in cui μέλος designa, secondo la definizione che ne fornisce Platone (Repubblica, 398d), l’insieme di parole, musica e ritmo, proprio di un’esecuzione corale.

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attenzione dalle vicende della guerra troiana (Iliade XIV, 231-237): ἔνθ’ Ὕπνῳ ξύμβλητο, κασιγνήτῳ Θανάτοιο, ἔν τ’ ἄρα οἱ φῦ χειρὶ ἔπος τ’ ἔφατ’ ἔκ τ’ ὀνόμαζεν· Ὕπνε, ἄναξ πάντων τε θεῶν πάντων τ’ ἀνθρώπων, ἠμὲν δή ποτ’ ἐμὸν ἔπος ἔκλυες, ἠδ’ ἔτι καὶ νῦν πείθευ· ἐγὼ δέ κέ τοι ἰδέω χάριν ἤματα πάντα. κοίμησόν μοι Ζηνὸς ὑπ’ ὀφρύσιν ὄσσε φαεινώ, αὐτίκ’ ἐπεί κεν ἐγὼ παραλέξομαι ἐν φιλότητι.

“Qui al Sonno, fratello della Morte, si fece incontro, e lo prese per mano, lo chiamò per nome e disse: Sonno, signore di tutti gli dei, degli uomini tutti, sempre la mia parola ascoltasti: ora di nuovo ubbidiscimi, te ne avrò grazia per sempre.

Sotto le ciglia addormentami gli occhi lucenti di Zeus, di colpo, appena con lui mi sarò stesa in amore”.

Poi, a Ὕπνος e Θάνατος è affidato il compito di trasportare in Licia il cadavere di Sarpedone, affinché riceva gli onori funebri (Iliade XVI, 677-683):

βῆ δὲ κατ’ Ἰδαίων ὀρέων ἐς φύλοπιν αἰνήν, αὐτίκα δ’ ἐκ βελέων Σαρπηδόν δῖον ἀείρας πολλὸν ἀποπρὸ φέρων λοῦσεν ποταμοῖο ῥοῇσι χρῖσέν τ’ ἀμβροσίῃ, περὶ σ’ ἄμβροτα εἵματα ἕσσε· πέμπε δέ μιν πομποῖσιν ἅμα κραιπνοῖσι φέρεσθαι, Ὕπνῳ καὶ Θανάτῳ διδυμάοσιν, οἵ ῥά μιν ὦκα κάτθεσαν ἐν Λυκίης εὐρείης πίονι δήμῳ.

“Mosse dai monti dell’Ida verso la lotta tremenda; subito, sottratto dai dardi Sarpedone glorioso,

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lo portò molto lontano, lo lavò nelle correnti del fiume, l’unse d’ambrosia, gli vestì veste immortale

e lo diede a portare ai rapidi portatori,

al Sonno e alla Morte, gemelli, che velocemente lo deposero nella fertile contrada di Licia.

Sulla loro parentela parla anche Esiodo (Teogonia, 755-766):

Ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θαάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. Ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρχεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. Τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν.

“L’uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l’altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa.

Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dei; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi,

sia che il cielo ascenda o che il cielo discenda. Di essi l’uno la terra e l’ampio dorso del mare tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell’altra ferreo è il cuore e di bronzo l’animo,

(26)

spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dei immortali”.

ποτιδέρχεται

fa riferimento allo sguardo magnetico di Astimelusa59, che

produce un effetto erotico che induce alla dissoluzione ancora più del sonno e della morte (τακερώτερα δ’ ὕπνου καὶ σανάτω, 61-62).

λυσιμελεῖ

60

πόσῳ

si aggiunge efficacemente all’immagine dello sguardo più

struggente e incantatore del Sonno e della Morte. In questa espressione è possibile, a mio giudizio, vedere adombrata l’immagine mitica delle Sirene, personificazione del canto ammaliante, che intorpidisce i sensi come il Sonno. Così, sebbene in altri luoghi61 anche le Muse siano associate al Sonno (un

sonno che comunque si presenta sempre come ristoratore e tranquillizzante), al v. 5 del fr. 26C Alcmane dice che esse destano dal Sonno (ὕπνου ἀπὸ γλεφάρων σκεδασεῖ γλυκύν), perché ne vuole esaltare la funzione ispiratrice: esse aiutano il poeta e il suo coro ad esprimere al meglio la loro arte62 e sono le

59 ποτιδέρχεται=προσδέρχεται è sinonimo di ποτιγλέποι (=προσγλέποι) del fr. 3C. Il verbo δέρχομαι indica lo sguardo in condizioni particolari, ad esempio lo sguardo fisso che paralizza,

60 Λυσιμελεῖ è formato da λύω e μέλη (“membra”), quindi si tratta di un dativo strumentale, che sta per λύων τὰ μέλη. Arrighetti (1987, pp. 25-26) nota che questo aggettivo viene usato nell’Odissea in riferimento al sonno: εὖτε τὸν ὓπνος ἔμαρπτε, λύων μελεδήματα θυμοῦ /λυσιμελής (XX, 56-57); οἱ γλυκὺς ὕπνος /λυσιμελὴς ἐπόρουσε, λύων μελεδήματα θυμοῦ (XXIII, 342-343). Invece, in Esiodo (Teogonia, 121-123) λυσιμελής non è riferito a Hypnos ma ad Eros: λυσιμελής...δάμναται ἐν στήθεσσι νόον καὶ ἐπίφρονα βουλήν, dove indica l’effetto fisico provocato dal potere di Eros, un potere che si esercita contemporaneamente sul corpo, sulla mente e sulla volontà. Questo aggettivo ricorre anche nel fr. 196W di Archiloco (ἀλλά μ’ ὁ λυσιμελὴς ὦταῖρε δάμναται πόθος, “ma mi soggioga il desiderio che scioglie le membra”), in cui al desiderio, così come al sonno, viene attribuita l’azione di “soggiogare”, come in Iliade XIV, 198-199.

61 Pindaro, Pitica I, 5-24, dice che, quando le Muse cantano sull’Olimpo, anche il lampo fiammeggiante spegneva, l’aquila sullo scettro di Zeus chiudeva gli occhi e si assopiva e Ares stesso, il potente, lasciava cadere le armi mortali e scivolava in un dolce sonno. Nell’Inno IV (ad Hermes, 449), si racconta dello stupore di Apollo di fronte all’invenzione dello strumento a corde da parte di Hermes: “Veramente vi sono riunite tre cose: bellezza, amore e sonno profondo”. Pausania (II, 31, 3) ricorda che al dio Hypnos e alle Muse si facevano sacrifici comuni a Trezene.

62 In Odissea VIII, 481, Odisseo, parlando con l’araldo, dice che gli aedi sono amati da tutti perché la Musa stessa ama la stirpe degli aedi (φίλησε δὲ φῦλον ἀοιδῶν). Ma, all’inizio del libro (43-44) Alcinoo ordina di chiamare “divino” Demodoco, poiché a lui la Musa ha

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garanti della poesia, affinché essa sia e rimanga depositaria di un sapere collettivo63.

ἀγῶνα

indica la festa cui le coreute sono spinte ad andare dal canto delle

Muse. Il termine potrebbe avere il valore omerico di “adunanza” per assistere ad uno spettacolo64, oppure quello di “gara” o di “luogo di una gara”65.

Fr. 84C=27D

Il fr. 84C=27D, che contiene i concetti correlati del piacere, del canto ispirato dalla Musa, dell’accompagnamento strumentale e dell’avvio alla performance,

donato il canto per dilettare in grado eminente (περὶ). Le due affermazioni, che a prima vista possono sembrare contraddittorie, in realtà confermano da un lato la fede nel canto come dono divino, dall’altro introducono l’idea dell’arbitrio della dea, che dà di più a chi più ella ama (Accame, 1963, pp. 280-281), concetto che si avvicina a quello esplicitato da Esiodo nel proemio della Teogonia, dove afferma di trovarsi su un piano di netta superiorità rispetto agli altri cantori, perché lui e non altri è stato scelto dalle Muse (Arrighetti, 2008, p. 43 e seg.).

63 Esiodo, contrapponendo se stesso agli altri poeti, aveva elaborato la concezione dell’inganno delle Muse, che agli altri ispirano menzogne mentre a lui dicono verità; tuttavia, non era riuscito a chiarire fino in fondo i motivi su cui basava la sua certezza di essere il depositario della verità e si era accontentato di un’affermazione riguardante il possesso di una particolare “dignità”. Anche Stesicoro, pur avendo introdotto l’idea della compartecipazione del poeta come elemento determinante dell’atto dell’ispirazione divina, attraverso l’immagine della “vista” del poeta, che rappresentava un notevole accrescimento delle sue responsabilità, tuttavia, persisteva nella fiducia dell’ispirazione divina e dell’autorevole garanzia assicurata dalle Muse (si veda Arrighetti, 2006, pp. 61-63).

64 Iliade XXIII, 258; Odissea VIII, 200.

65 L’idea della gara tra le fanciulle del coro è presente anche nel fr. 3C (v. 49, vv. 64-65, vv. 92-95). Secondo Rodriguez Adrados (2007, pp.187-189), là la comparazione delle due fanciulle, Agido ed Agesicora, con due cavalli da corsa indica la presenza di due cori rivali pronti a gareggiare in una corsa. Secondo lo studioso, analoga è la situazione qui, nel Partenio di Astimelusa, la coreuta che parteciperà all’ἀγών e che in esso (ἆχι=ἦχι) agiterà la chioma, bionda come quella di Agesicora, e dove cori rivali pronti a gareggiare in una corsa. Secondo lo studioso, analoga è la situazione qui, nel Partenio di Astimelusa, la coreuta che parteciperà all’ἀγών e che in esso (ἆχι=ἦχι) agiterà la chioma, bionda come quella di Agesicora, e dove i suoi piedi delicati danzeranno e correranno. Inoltre, è possibile che i cori di entrambi i parteni partecipino ad un rituale preciso, quello della festa spartana chiamata Tosteria, che iniziava con l’offerta di un peplo e continuava con una corsa di due “semi-cori”. Sappiamo che gare di questo tipo avvenivano ad Olimpia (Pausania, V, 16, 2) e nella stessa Laconia (Pausania, III, 13, 6). Da notare, inoltre, l’espressione ἁπαλοὶ πόδες, che è di derivazione omerica (Iliade XIX, 92; Inno II (a Demetra, 287; Inno IV (ad Hermes, 73)), in cui ἁπαλός indica sempre la delicatezza di una parte del corpo umano.

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costituisce con ogni probabilità 66la parte iniziale di un componimento che non ci è pervenuto.

Μῶσ’ ἄγε Καλλιόπα, σύγατερ Διός, ἄρχ’ ἐρατῶν ἐπέων, ἐπὶ δ’ἵμερον ὕμνωι καὶ χαρίεντα τίσει χορόν.

“Orsù Musa Calliope, figlia di Zeus, dà inizio alle parole amabili, e desiderio unisci al canto e la danza leggiadra”.

Μῶσ’ ἄγε...ἄρχε

sono le stesse espressioni di invocazione alla Musa che

abbiamo trovato nel fr. 4C, che possono essere considerate elementi tipici del linguaggio formulare non solo della poesia epica, ma anche della lirica corale. La Musa, che tutto conosce perché tutto ricorda, essendo figlia di Mnemosyne, e che è sempre presente (Iliade II, 485), che può narrare al poeta tutti gli eventi, fin da quando era il Caos (Esiodo, Teogonia, 114-116), è colei che ἄρχε, che dà avvio al canto, assolvendo il suo ruolo di ispiratrice della creazione poetica.

ἐπέων, ὕμνωι, χορόν

che compaiono in questo incipit alcmaneo, insieme al

verbo ἄρχε, che indica l’inizio del canto, delineano i tre elementi fondamentali di una performance corale, ossia parole, musica e danza.

Questo fa pensare ad un parallelo con il fr. 250 PMGF di Stesicoro67: ἀρχεσίμολπος, “iniziatrice di canti e di danze”, un composto dal valore pregnante, che riunisce in un solo termine i ruoli di iniziatrice della poesia, di cantatrice e di danzatrice della Musa68.

66 Calame, 1983, p. 462. 67 Buè, 2015, p. 56.

68 Per quello che riguarda il rapporto di Stesicoro con la Musa, Arrighetti (2008, pp. 58- 62) spiega che l’atteggiamento di questo poeta era sostanzialmente di accettazione nei

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In Omero si trovano alcuni un passi emblematico per la definizione di avvio della performance corale, in cui non soltanto è confermato lo stretto legame fra il poeta e la dea, ma è messa anche in luce l’importanza che l’elemento orchestrico assume nell’economia della performance musicale. Nel XVIII canto dell’Iliade, grande spazio viene dato alla descrizione delle armi di Achille fabbricate per l’eroe dal dio Efesto su richiesta di Teti, e in particolar modo allo scudo “grande e pesante”. Su di esso vengono rappresentate due città, una in stato di guerra ed una in pace; in quest’ultima vengono descritte nozze, banchetti e danze (490- 496):

Ἐν ὲ δύω ποίησε πόλεις μερόπων ἀνθρώπων καλὰς. ἐν τῇ μέν ῥα γάμοι τ’ ἔσαν εἰλαπίναι τε, νύμφας δ’ ἐκ θαλμων δαίδων ὕπο λαμπομενάων ἠγίνεον ἀνὰ ἄστυ, πολὺς δ’ ὑμέναιος ὀρώρει· κοῦροι δ’ ὀρχηστῆρες ἐδίνεον, ἐν δ’ ἄρα τοῖσιν αὐλοὶ φόρμιγγές τε βοὴν ἔχον· αἱ δὲ γυναῖκας ἱστάμεναι θαύμαζον ἐπὶ προθύροισιν ἐκάστη.

“Vi fece poi due città di mortali, belle. In una erano nozze e banchetti; spose dai talami, sotto torce fiammanti

guidavano per la città, s’alzava molto Imeneo, giovani danzatori giravano, e fra di loro

flauti e cetre davano suono; le donne

dritte ammiravano sulla sua porta ciascuna”.

confronti della tradizione e ciò significava che non poteva ignorare il concetto per cui la veridicià dei contenuti poetici dipendeva dall’ispirazione divina. Nel caso della Palinodia, il primo canto, quello mendace, era dovuto al poeta stesso, che era stato “cieco”, ovvero non era stato capace di vedere la verità, che le Muse gli avevano trasmesso. Quindi, in Stesicoro rimane salda la fede nel dono delle Muse e indefinito resta ancora il ruolo del poeta collaborante all’atto della creazione poetica. Accame (1964, pp. 257-261) afferma che Stesicoro, anche nella Palinodia, mostra la sua fiducia nella Musa ispiratrice dei poeti.

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Poi, all’inizio del IV canto dell’Odissea, si apre alla vista di Telemaco la scena della fastosa reggia di Menelao a Sparta. In questo contesto, Omero indugia nella descrizione di una festa nunziale, a cui non mancano elementi essenziali quali il canto del divino aedo, l’accompagnamento della φόρμιξ e la danza dei saltimbanchi (15-19): ὣς οἱ μὲν δαίνυντο καθ’ ὑψερεφὲς μέγα δῶμα γείτονες ἠδὲ ἔται Μενελάου κυδαλίμοιο, τερπόμενοι· μετὰ δέ σφιν ἐμέλπετο θεῖος ἀοιδὸς φορμίζων· δοιὼ δὲ κυριστητῆρε κατ’ αὐτοὺς μολπῆς ἐξάρχοντες ἐδίνευον κατὰ μέσσους.

“Così essi banchettavano nella grande sala dall’alto soffitto, i vicini e i parenti di Menelao glorioso,

provando piacere; insieme a loro cantava il divino aedo suonando la cetra; e due saltimbanchi fra loro

cominciando la danza volteggiavano al centro”.

In pochi versi Omero evoca sia immagini (la sala dall’alto soffitto, l’inizio della danza dei saltimbanchi) che suoni (il canto dell’aedo e il suono della φόρμιξ) afferenti al contesto esecutivo. Analogamente fa Alcmane, condensando nei tre versi di questo frammento tutti gli elementi propri di una performance corale.

C’è poi un altro passo dell’Odissea, in cui rintracciamo la μολπή, intesa come “canto e danza insieme”, evocata dal fr. 84C di Alcmane e dal fr. 250PMGF di Stesicoro. Siamo nel libro VIII e alla reggia dei Feaci, dove l’aedo Demodoco comincia a cantare mentre dei giovani gli danzano attorno (261-266):

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Δημοδόκῳ· ὁ δ’ ἔπειτα κί ἐς μέσον· ἀμφὶ δὲ κοῦροι πρωθῆβαι ἵσταντο, δαήμονες ὀρχηθμοῖο, πέπληγον δὲ χορὸν θεῖον ποσίν. αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς μαρμαρυγὰς θηεῖτο ποδῶν, θαύμαζε δὲ θυμῷ. Αὐτὰρ ὁ φορμίζων ἀνεβάλλετο καλὸν ἀείδειν ἀμφ’ Ἄρεος φιλότητος ἐυστεφάνου τ’ Ἀφροδίτης.

“L’araldo arrivò portando la cetra sonora

a Demodoco; e questi venne nel mezzo e intorno dei giovani nel primo fiore gli stettero, i più esperti di danza,

e battevano coi piedi il ritmo divino: Odisseo

l’agile gioco dei piedi ammirava e stupiva nel cuore. Ed ecco tentando le corde intonò un bel cantare l’aedo: gli amori di Ares e di Afrodite bella corona”.

Καλλιόπα:

è interessante notare che, rispetto agli altri frammenti fin qui

analizzati, Alcmane aggiunge nell’invocazione alla Musa il nome proprio della divinità: Calliope. Il nome Calliope, che è formato dall’aggettivo καλός, “bello” e dal sostantivo ὄψ, “voce”, indica il rapporto privilegiato di questa Musa con il canto poetico69: essa è la Musa “dalla bella voce”, dotata di bellezza e dolcezza timbrica.

Calliope è invocata anche all’inizio dell’Inno XXXI (ad Helios, 1-2) e nel fr. 240PMGF di Stesicoro:

δεῦρ ἄγε Καλλιόπεια λίγεια. “Qui orsù, Calliope, voce penetrante”.

in cui il poeta si rivolge alla Musa dalla “dolce voce”, aggiungendovi l’aggettivo λιγύς che, come abbiamo visto nell’analisi del fr. 4C, evoca l’idea di chiarezza del suono.

69 Calame, 1983, p. 462.

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Secondo quanto afferma Esiodo, Calliope è la più importante delle Muse (Teogonia, 75-80): ταῦτ’ ἄρα Μοῦσαι ἄειδον Ὀλύμπια δώματ’ ἔχουσαι, ἐννέα θυγατέρας μεγάλου Διὸς ἐκγεγαυῖαι, Κλειώ τ’ Εὐτέρπη τε Θάλειά τε Μελπομένη τε Τερψιχόρη τ’ Ἐρατώ τε Πολύμνιά τ’ Οὐρανίη τε Καλλιόπη θ’· ἡ δε προσφερεστάτη ἐστὶν ἁπασέων. ἡ γὰρ καὶ βασιλεῦσιν ἅμ’ αἰδοίοισιν ὀπηδεῖ.

“Ciò, dunque, le Muse cantavano, che abitano le olimpie dimore, le nove figlie dal grande Zeus generate,

Clio ed Euterpe, Talia e Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia e Urania, e Calliope, che è la più illustre di tutte. Essa, infatti, i re venerati accompagna”.

Le Muse hanno tutte nomi “parlanti”70: Clio è colei che conferisce la gloria (κλέος), Euterpe possiede il canto che allieta (εὔ+τέρπεσθαι), Talia dona la poesia alle feste (θαλία=festa), Melpomene evoca la musica (μέλπομαι) e Tersicore la danza (χόρος); Erato suscita l’amore per la poesia (ἔρως), Polimnia sovrintende alla varietà delle forme e dei ritmi (πολυμελής), Urania eleva la poesia al cielo (οὐρανός) e Calliope cura la bellezza della voce (καλός+ὄψ)71.

Il significato dell’atto di attribuzione dei nomi alle nove Muse operato da

70 Arrighetti (1987, pp. 23-25) nota che in Esiodo la percentuale di etimologie e di spiegazioni di parole è molto più alta che in Omero e che in Esiodo tutte le etimologie sono relative a nomi di divinità e di eroi. Lo studioso ricorda che Friedlaender, nella recensione alla Teogonia curata da Jacoby nel 1928, si accorse che i nomi delle nove Muse alludono all’ azione stessa delle Muse, di cui Esiodo ha parlato fin dall’inizio dell’opera. Così, Clio: 44 e 66 κλείουσιν; Euterpe: 37 τέρπουσι; Talia: 65 ἐν θαλίῃς; Melpomene: 66 μέλπονται; Tersicore: 4 ὀρχεῦνται, 7 χορούς e 37 τέρπουσι; Erato: 65 ἐρατήν e 67 ἐπήρατον; Polimnia: 37 ὑμνεῦσαι; Urania: 71 δ’ οὐρανῷ; Calliope: 41 e 68 ὀπί.

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