EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI INFEZIONI OSPEDALIERE
3.4 L'ACCERTAMENTO DEL NESSO CAUSALE
Il giudizio sulla sussistenza del nesso di causalità tra il ricovero o l’effettuazione del trattamento terapeutico e l'insorgenza dell'infezione risulta decisivo ai fini della declaratoria della responsabilità.
Tale osservazione è confortata dalla considerazione dell'orientamento, oggigiorno dominante, che, riconducendo la responsabilità medica alle regole sull'allocazione probatoria in ambito contrattuale, finisce per assorbire all'interno del giudizio sulla sussistenza del rapporto eziologico anche quello sulla negligenza del convenuto.
Peraltro, proprio in relazione alla fattispecie delle IO, è stata osservata una tendenza da parte degli organi giudicanti a sostituire l'indagine volta a determinare la causa precisa e le modalità specifiche di insorgenza dell'infezione, secondo il criterio della certezza, con l'ampio ricorso a metodi alternativi di accertamento dell' eziologia, quali in particolare il ricorso alla prova presuntiva ed al criterio della probabilità logica o razionale.
La ragione del ricorso da parte delle corti a modalità presuntive di accertamento del nesso causale, in relazione alle controversie in materia di IO, può essere individuata valorizzando le modalità specifiche di insorgenza e di manifestazione di tali patologie. In ordine all'insorgenza delle infezioni si devono, infatti, considerare le evidenti difficoltà, sotto il profilo probatorio, della precisa ricostruzione eziologica della patologia, spesso generata da microrganismi diffusi e di origine incerta. Si deve, altresì, aggiungere come la non riconducibilità ad uno specifico sanitario di molte delle prestazioni sanitarie implicate nel processo di prevenzione delle infezioni non sia di aiuto nella ricerca della specifica condotta, commissiva o omissiva, all'origine dell'insorgenza della patologia.
Inoltre, si deve osservare che la distinzione, invalsa nella letteratura scientifica, tra infezioni esogene ed endogene, non è sempre decisiva ai fini dell’accertamento del rapporto di causalità giuridica e della conseguente declaratoria di responsabilità, posto che, anche in relazione alle patologie del secondo tipo, possono riscontrarsi profili ulteriori di addebito nei confronti della struttura per ciò che concerne la carenza delle misure profilattiche adottate o l'agevolazione dell'insorgenza delle patologie infettive, tramite l'esecuzione di trattamenti eccessivamente debilitanti.
Per quanto concerne il profilo temporale dell'insorgenza di tali patologie, si osserva che le IO possono manifestarsi sia durante il ricovero che in seguito alle dimissioni, in un periodo variabile a seconda delle patologie.
In proposito si rileva che, per convenzione medica, universalmente accettata, si considerano come nosocomiali le infezioni insorte dopo 48 ore dal ricovero: il riferimento a tale intervallo di tempo si rinviene in molte sentenze quale fattore tenuto in considerazione al fine del giudizio di accertamento del nesso eziologico.
Passando alla disamina della casistica giurisprudenziale, si rileva che le sopra evidenziate difficoltà nella ricostruzione dell'eziologia dell'infezione fanno sì che in nessun caso l'accertamento del nesso di causalità da parte degli organi giudicanti si spinga fino a ricercare la causa precisa e specifica dell'infezione, essendo ritenuto sufficiente il ricorso a criteri presuntivi.
Ad esempio, il Tribunale di Torino, nella sentenza n. 1188 dell’1 marzo 1999 ha ritenuto provata la responsabilità di una Casa di Cura nella causazione del danno osservando che, sebbene l'attrice non avesse indicato con precisione quali fossero le misure di asepsi omesse, la tipologia batterica risultava idonea a dimostrare che si trattava di un'infezione insorta durante le medicazioni, a causa di insufficienti misure di asepsi. Anche in questo caso l'attore non deve individuare la causa precisa del suo danno; infatti “sarebbe irragionevole chiedere al CTU di indicare quale pratica non fosse stata effettuata in modo corretto, atteso che il CTU a distanza di tempo dal fatto non può certo controllare se gli strumenti utilizzati nella medicazione e le condizioni in cui era
avvenuta erano ottimali …”.
Quindi, il diffuso ricorso a criteri presuntivi di accertamento della causalità nello specifico settore delle IO viene usualmente giustificato dalle difficoltà della ricostruzione eziologica in presenza di germi diffusi e di incerta provenienza e dal carattere anonimo di molte prestazioni sanitarie implicate nel processo di prevenzione delle infezioni, elemento quest'ultimo che vanifica la ricerca della specifica condotta, commissiva od omissiva, all'origine della patologia infettiva.
Emblematica a riguardo risulta la sentenza n. 24401 del 2010, con la quale la III Sezione della Corte di Cassazione ha condannato l'Azienda Ospedaliera per le gravi lesioni riportate da una neonata. I genitori di una neonata avevano avanzato richiesta di risarcimento del danno in considerazione delle gravi lesioni neurologiche riportate dalle medesima, riconducibili ad un’emorragia cerebrale insorta dopo la nascita. La Corte di Cassazione, pur non avendo ravvisato l'esistenza di un nesso causale tra l'operato del personale medico e l'insorgenza dell'emorragia cerebrale, ha sancito che la responsabilità delle lesioni subite dalla bambina fosse da ascrivere esclusivamente all'ente ospedaliero, posto che l'emorragia era stata provocata da sepsi da Klebsiella, infezione nosocomiale. Il carattere nosocomiale della infezione è stato, pertanto, ritenuto sufficiente per la declaratoria di responsabilità.
Da ciò si evince che, nell'attuale orientamento giurisprudenziale, una volta accertata la correlazione tra il ricovero e l'infezione ne consegue, quasi automaticamente, anche il giudizio sulla negligenza. In questo senso, la valutazione della condotta del responsabile tende ad essere meramente eventuale, dal momento che la colpevolezza non rappresenta più un requisito essenziale ai fini dell'accertamento della responsabilità.
L'accertamento del nesso di causalità in termini di certezza scientifica viene dunque sostituito con il ricorso a modelli probabilistici o di credibilità logica o, in altri casi, con l'assorbimento nel giudizio sulla colpevolezza, attraverso l'impiego dei modelli della causalità adeguata e dell'aumento del rischio.
elementi specifici ulteriori rispetto alla concomitante rilevazione dell'astratta compatibilità tra l'infezione ed il trattamento sanitario ricevuto e dell'assenza di certezza in ordine ad altre cause alternative di spiegazione dell' origine dell'infezione.
Tra gli elementi specifici tenuti, talora, presenti dalla giurisprudenza, al fine di avvalorare il giudizio di accertamento della sussistenza del nesso causale, il più ricorrente è rappresentato dalla corrispondenza sotto il profilo cronologico tra il momento di manifestazione dell' infezione ed il periodo del ricovero.
A tale riguardo si segnala la sentenza della Corte di Cassazione Civile, 29 settembre 2005, n. 19145 che ha cassato con rinvio la pronuncia di merito che, con motivazione ritenuta insufficiente, non aveva riconosciuto la sussistenza del rapporto causale tra un'infezione postoperatoria e l'intervento chirurgico senza considerare, quale criterio decisivo al fine del giudizio, se il lasso di tempo tra la manifestazione dell'infezione e la sua insorgenza potesse essere ritenuto compatibile con l'ipotesi di riconduzione dell' origine della stessa all'operazione chirurgica.
Sempre sullo stesso punto vertono altre due sentenze; quella del Tribunale di Alba, 19 gennaio 2005 da cui risulta “ ... Pur evidenziando la mancata individuazione della causa precisa e specifica dell'infezione la genesi è riconducibile all'intervento considerando il fatto che l’infezione non si era palesata prima dell’intervento, non erano presenti condizioni favorevoli, era insorta in stretta connessione temporale con I’intervento e dunque poteva ricondursi a contaminazione dell'ambiente operatorio o degli strumenti utilizzati…” e quella del Tribunale di Campobasso, 15 giugno 2005 “ ... Nonostante l'accertata rarità della complicanza (1% dei casi) e la possibile origine ematogena, ha ritenuto sussistere il nesso causale tra operazione e infezione sulla base dell'evidente legame cronologico ...” .
Tali sentenze mostrano l'evoluzione giurisprudenziale, in sede civile, verso un inasprimento della responsabilità a carico dei sanitari; con la ormai sempre più diffusa tendenza all'utilizzo del criterio presuntivo nella valutazione del nesso di causa, si è - in estrema ratio - giunti ad un'ampia diffusione dell'utilizzo del principio “Post hoc ergo
propter hoc”. Infatti, secondo gli ultimi orientamenti della Corte di Cassazione, il criterio cronologico sarebbe da sé solo sufficiente per la valutazione del rapporto di causalità tra la condotta medica ed il danno.
In altri casi, l'accertamento del giudice sulla sussistenza del nesso causale viene ad essere fondato prevalentemente su criteri logici, di comune esperienza e buon senso. È il caso, ad esempio, della sentenza del Tribunale di Roma, 7 novembre 2004 , nella quale il giudice - pur prescindendo dal contributo della consulenza tecnica d'ufficio espletata, considerata erronea ed inappagante - ha ritenuto, sulla base di criteri esclusivamente logici e del buon senso, provata l'origine nosocomiale di un'infezione ad una ferita chirurgica. Tale giudizio è stato fondato, da un lato, sul rilievo dell'assenza di altre spiegazioni logiche plausibili dell'evento dannoso e dall'altro sull'osservazione circa la compatibilità temporale tra il momento di suppurazione della ferita (avvenuta due giorni dopo le dimissioni) ed il ricovero. Il giudizio è stato infine corroborato dalla considerazione, basata sul ricorso alla comune esperienza, secondo cui, essendo la danneggiata un'infermiera, sarebbe stato “sommamente implausibile" che ella fosse stata “ imprudente e malaccorta, dopo le dimissioni nel portare la propria ferita a contatto con potenziali focolai di agenti patogeni”.
Come sopra rilevato, le difficoltà nell'accertamento del nesso causale in materia di IO sono alla base di un'altra diffusa tendenza delle corti a eluderne l'accertamento attraverso l'assorbimento nel giudizio sulla colpevolezza.
Emblematica in tal senso è la pronuncia della Corte di appello di Roma, 23 gennaio 2006, nella quale l'accertamento da parte del CTU dell'inadeguata esecuzione di un intervento chirurgico diretto ad eliminare la calvizie precoce con tecnica innovativa, per errata programmazione preoperatoria, è stato ritenuto sufficiente ai fini della condanna del medico convenuto per le infezioni insorte nel paziente, pur in assenza della prova in ordine all' origine delle stesse. Tale accertamento era, peraltro, reso più incerto nel caso specifico dalla circostanza della pregressa sottoposizione da parte del paziente ad altra operazione di impianto di capelli sintetici e dalla dimissione volontaria del paziente
contro il parere dei sanitari.
La tendenza all' assorbimento della prova del nesso nel giudizio sulla colpevolezza è evidente, peraltro, anche in quelle sentenze che fanno riferimento, espresso o implicito, ai modelli della causalità adeguata o dell'aumento del rischio, in particolare in relazione a fattispecie nelle quali vengono addebitate alla struttura e/o al medico comportamenti omissivi nella diagnosi e nella cura delle infezioni, ulteriori rispetto alle mere carenze igieniche dei locali e degli strumenti chirurgici utilizzati. In proposito si osserva, inoltre, una tendenza della giurisprudenza civilistica a privilegiare in tale materia il ricorso al modello dell'aumento del rischio, più favorevole alle ragioni dell'attore rispetto a quello della causalità adeguata.
Tra le sentenze che fanno ricorso al criterio dell'aumento del rischio di fronte ad una situazione di incertezza sull'accertamento causale, merita una particolare segnalazione la pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia, 25 agosto 2005, relativa ad un caso di osteomielite insorta in un paziente ricoverato in seguito ad una frattura esposta ed in cui tale ultima circostanza faceva propendere per un giudizio di origine esogena dell'infezione. Il CTU, pur rilevando che la lesione ossea subita dal paziente doveva “per definizione considerarsi infetta” e che il rischio infettivo non poteva comunque essere considerato come ineliminabile, essendo stimato di norma in medicina nella percentuale del 2-7%, accertava, tuttavia, alcuni ritardi nell'apprestamento delle opportune misure profilattiche da parte dei sanitari convenuti, tali da determinare un aggravamento del rischio di sopravvenienza dell'infezione. Il giudice, riteneva, pertanto, accertato, contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti, il rapporto di causalità tra le omissioni dei convenuti ed il danno patito dal paziente, alla luce di un criterio “necessariamente probabilistico”. In particolare, sulla base delle considerazioni dei consulenti incaricati, il giudice osservava che: “qualora fossero state adottate tutte le profilassi indicate ..., il rischio di contrarre infezioni sarebbe stato trascurabile, potendo essere soggetti a tali patologie al massimo solo 7 pazienti ogni 100”. La soluzione adottata dalla sentenza in esame veniva inoltre suffragata dall'affermazione secondo cui “una volta accertata
un'azione ed omissione colpevole del medico convenuto … la prova della mancanza di nesso causale (nell'esecuzione di prestazioni non aventi carattere di speciale difficoltà) ricade sul professionista stesso” .
Il riferimento al criterio dell'aumento del rischio ai fini dell'accertamento del nesso causale è frequente anche nella giurisprudenza più recente e riscontrabile anche in relazione a casi nei quali la percentuale di successo delle misure preventive omesse si attesti su soglie più basse - e, pertanto, più incerte - di quelle suddette.
La sentenza del Tribunale di Monza, 6 giugno 2005, relativa ad un caso di infezione da Staphylococcus aureus con esito mortale riconducibile ad un precedente impianto di una valvola cardiaca, ma sviluppatasi nel corso di un ricovero ospedaliero per una patologia dermatologica, ha ritenuto responsabile l'azienda sanitaria convenuta per aver omesso di ricorrere ad un intervento chirurgico urgente per l'eradicazione dell'agente patogeno limitandosi a ricorrere a inadeguate cure antibiotiche. La sussistenza di un valido nesso causale è stata ritenuta accertata sulla base di un apprezzamento in termini probabilistici, secondo cui l'omissione dell'intervento aveva determinato un “più che apprezzabile aumento” del rischio di mortalità dal 10-35% (corrispondente alla percentuale di insuccesso dell'operazione) al 55-85% (corrispondente alla percentuale di mortalità dei pazienti con endocardite e insufficienza cardiaca).
Nello stesso orientamento si inquadra la pronuncia della Corte d'appello di MiIano, 16 febbraio 2006, n. 369, la quale ha ritenuto che la prolungata ospedalizzazione (2 mesi) di un paziente in attesa di essere sottoposto ad intervento neurochirurgico per la rimozione di un tumore, non sorretta da specifiche esigenze e accompagnata dalla sottoposizione a trattamenti debilitanti, abbia costituito un fattore di trasformazione di “un rischio medio basso” in “un'esposizione altamente rischiosa alle infezioni nosocomiali”, così da ritenere accertato il nesso di causalità in relazione alla polmonite nosocomiale con esiti mortali contratta dal paziente durante la degenza.
E anche nella già citata sentenza del Tribunale di Torino del 1999 si evince che: “… il rischio di infezioni nosocomiali è intrinseco al ricovero, ma quando il ricovero non è
sorretto da alcuna esigenza di diagnosi e cura ed è per giunta associato a un trattamento non appropriato … assume i connotati di una condotta negligente del medico che ha esposto deliberatamente ed inutilmente, il paziente agli agenti patogeni. Tale condotta è fonte di danno e di responsabilità medica …”; l’omessa informazione al paziente concretizzerebbe, ai danni del sanitario responsabile, un profilo autonomo di colpa per negligenza e quindi un’autonoma fonte di responsabilità al manifestarsi di una IO.
Talora, infine, le difficoltà di accertamento del nesso di causalità sono, invece, risolte sul piano delle regole processuali, come nei casi in cui non siano sollevate eccezioni da parte dei convenuti sui rilievi formulati dai consulenti tecnici d'ufficio o di parte in ordine alla sussistenza del rapporto eziologico, o in cui il medico convenuto non si presenti a rendere l'interrogatorio formale sullo specifico capitolo di prova in ordine all’origine dell'infezione, dedotto dall' attore.
Fin qui sono state esaminate le sentenze in materia di IO che, accertata la sussistenza del nesso di causalità, hanno fatto seguire un giudizio di responsabilità a carico dei medici e/ o delle strutture convenute; restano da esaminare alcune delle sentenze che, al contrario, proprio sulla base della carenza di prova in ordine alla sussistenza del nesso di causalità hanno rigettato le richieste risarcitorie dei danneggiati.
Si tratta peraltro di ipotesi quantitativamente esigue e relative a fattispecie peculiari, che, pertanto, non contraddicono l' orientamento generale della giurisprudenza a risolvere in favore dell'attore le difficoltà e le incertezze in ordine all'accertamento del nesso di causalità, con il ricorso a criteri presuntivi e probabilistici.
In particolare, la peculiarità di tali sentenze consiste nel fatto che l'insussistenza della prova del nesso di causalità viene, per lo più, fatta discendere dalla mancata prova in ordine a circostanze di fatto ulteriori, dedotte dall'attore quali fattori all'origine del processo infettivo.
In tal senso, si segnala la pronuncia della Corte di Cassazione Civile, 23 febbraio 2000, n. 2044, che ha ritenuto esente da vizi la pronuncia di merito impugnata, che aveva escluso la sussistenza del nesso di causalità per la mancata prova del fatto posto
dall'attore all'origine del processo infettivo. In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto non assolto da parte dell' attore l'onere della prova del nesso tra un'errata introduzione di uno stent nel corso di un intervento chirurgico di litotrissia extracorporea con onde d'urto e una stenosi uretrale successivamente riscontrata, in quanto, a fronte di una possibile varietà di cause esplicative dell'infezione, non risultava essere stata fornita la prova della negligente esecuzione della manovra da parte del chirurgo.
Sul punto si riporta anche la sentenza del Tribunale Bari, 4 giugno 2005 in cui l'attore aveva convenuto in giudizio l'azienda sanitaria presso la quale era stato sottoposto ad una terapia iniettiva di farmaci mediante utilizzo di siringhe tradizionali in vetro e non monouso, per sentirne dichiarata la responsabilità in relazione ad un'infezione epatica diagnosticatagli circa dieci anni dopo il ricovero. Il giudice ha ritenuto non provata la sussistenza del nesso di causalità da parte dell'attore, che si era limitato a riportare, per mezzo della testimonianza della moglie, alcune voci correnti nell' ospedale circa la riutilizzazione di aghi non sterilizzati, ritenendo inammissibile non solo il ricorso a tale fonte di prova, ma anche alla c.d. praesumptio de praesumpto, “non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto, per derivarne da essa un'altra presunzione”. Anche in questo caso, pertanto, l'insussistenza del nesso di causalità è fatta discendere dalla carenza di prova in ordine alla circostanza di fatto dedotta dall'attore quale fattore all'origine del processo infettivo. Peraltro, ai fini della decisione hanno inciso in maniera determinante anche l'assenza di ulteriori fattori che, come sopra visto, costituiscono elementi imprescindibili nel giudizio di tipo presuntivo sull'eziologia, posto che era stata rilevata la discrepanza temporale tra il ricovero e la diagnosi dell'infezione, nonché la sussistenza di possibili altre cause di spiegazione della patologia.
Anche il Tribunale di Roma, 6 giugno 2004, in un caso di processo fibrotico- aderenziale insorto successivamente ad un intervento di ricostruzione di un legamento, ascritto dal danneggiato alla carente profilassi infettivologica postoperatoria, ha valorizzato quale elemento decisivo ai fini del giudizio in ordine alla mancata prova del
nesso di causalità tra la suddetta omissione ed il danno, la presenza di una pluralità di fattori alternativi di spiegazione dell’eziologica dell'infezione. Peraltro è da osservare che la suddetta pronuncia è pervenuta, comunque, alla declaratoria di responsabilità del medico convenuto, ritenendo accertata la sussistenza del nesso causale tra i postumi lamentati dell'attore e altre condotte negligenti del medico convenuto nella fase esecutiva dell' operazione chirurgica.
Tali dati fanno concludere nel senso di ascrivere la flessibilità della giurisprudenza in ordine ai criteri di accertamento del nesso causale, anche in materia di IO, all'esigenza di garantire, ancora una volta, il più possibile le ragioni risarcitorie dei pazienti danneggiati.