• Non ci sono risultati.

EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI INFEZIONI OSPEDALIERE

3.5 LA VALUTAZIONE DELLA COLPA

Il giudizio sulla colpevolezza della condotta della struttura e del medico in relazione all'insorgenza delle IO tende a rimanere in secondo piano rispetto all' accertamento dell'eziologia. Da un lato, infatti, si deve osservare che, con la progressiva attrazione della fattispecie in esame nell’ambito della responsabilità contrattuale, la valutazione della condotta del responsabile tende ad essere meramente eventuale, posto che la colpevolezza non rappresenta più un requisito imprescindibile ai fini dell'imputazione, rilevandone l'eventuale assenza solo ai fini della prova esimente.

D'altra parte, si rileva che la prova della carenza di negligenza da parte del convenuto, medico o struttura, ben raramente appare decisiva ai fini dell' esonero della responsabilità, posto che, una volta accertata l'eziologia tra il ricovero o l'intervento sanitario e l'infezione, ne consegue, quasi automaticamente, anche il giudizio sulla negligenza. Tale atteggiamento è confermato anche dall' analisi delle sentenze esaminate, in nessuna delle quali si riscontra che sia stata fornita una prova della diligente esecuzione della prestazione sanitaria, tale da escludere la responsabilità del convenuto. La valutazione della condotta dei convenuti finisce, pertanto, per rilevare, indirettamente o quale fattore meramente aggiuntivo, ai fini del giudizio di responsabilità o, piuttosto,

come già rilevato in precedenza, ai fini dell'agevolazione dell'accertamento sull'eziologia attraverso il ricorso al modello di accertamento causale dell'aumento del rischio.

Alcune delle incertezze e difficoltà in relazione alla valutazione della condotta, nell'ambito del giudizio in materia di IO, sono, peraltro, riconducibili alla vexata quaestio in ordine alla determinazione del parametro di riferimento della diligenza in materia di responsabilità della struttura sanitaria. Come osservato da autorevole dottrina, il riferimento agli standard di efficienza e organizzativi dettati dal legislatore, se da un lato costituisce un criterio insostituibile ai fini della valutazione della condotta della struttura o del medico, dall'altro è in molti casi insufficiente al fine di esonerare i convenuti dalla responsabilità, in presenza di ulteriori profili di negligenza ad essi ascrivibili.

Peraltro, nella fattispecie in esame il riferimento alla disciplina speciale regolamentare è pressoché del tutto assente ed i criteri di valutazione della condotta fanno riferimento, al più, ai generici doveri di asepsi e sterilizzazione senza necessità di individuare il preciso obbligo di condotta normativamente prescritto che si ritiene violato o, al contrario, senza che la prova dell' osservanza delle prescrizioni legali venga utilizzata con successo dai convenuti ai fini dell' esonero dalla responsabilità.

Spesso, inoltre, i consulenti tecnici incaricati tendono a fare riferimento a criteri valutativi diversi rispetto a quelli relativi alle misure igieniche da osservare, focalizzando la loro analisi, piuttosto, su aspetti più prettamente terapeutici, quali quelli relativi, ad esempio, alle misure profilattiche preventive o successive alla sottoposizione al trattamento terapeutico.

In dottrina si è cercato di individuare in modo sistematico i possibili standard di riferimento della condotta del medico in relazione alle IO (in particolare con riferimento all'ipotesi, ricorrente, di quelle contratte a seguito di operazioni chirurgiche), con la ricognizione dei possibili profili di negligenza addebitabili in relazione alle diverse fasi nelle quali l'attività medica è coinvolta, vale a dire quelle preoperatoria, operatoria e postoperatoria.

l'omissione dei dovuti controlli sulle condizioni igieniche ambientali e degli strumenti da utilizzare, nonché per l'inadempimento dei doveri di segnalazione, informazione ed eventualmente anche astensione nel caso di carenze igieniche e strutturali che incrementino il rischio infettivo.

Nel corso dell'operazione si è rilevata l'importanza, oltre che del controllo degli strumenti, anche dell'adozione di tutti gli accorgimenti idonei a ridurre il rischio infettivo (quali ad es. l'inserimento di tubi di drenaggio), nonché dell'attenzione specifica agli errori tipici, quale ad esempio la dimenticanza di strumenti o altri materiali estranei all’interno del corpo del paziente.

Particolare importanza riveste, infine, ai fini del giudizio sulla responsabilità, l'adozione da parte dei sanitari delle appropriate misure profilattiche nella fase successiva all'operazione tenendo anche conto del particolare stato di debilitazione del paziente. Inoltre, come nelle altre fattispecie di responsabilità medica, è stata prospettata la possibile imputazione al medico o alla struttura dell'omissione dei doveri informativi in relazione al rischio infettivo connesso al trattamento terapeutico, tale da costituire un autonomo fattore di responsabilità a carico del convenuto.

In conclusione, si rileva, anche in relazione alla valutazione della condotta, un atteggiamento incline al rafforzamento della tutela della posizione del paziente danneggiato, che si manifesta da un lato nella tendenza ad adottare modelli di inquadramento che consentono di prescindere dall'esame puntuale di profili di negligenza, una volta accertata la natura nosocomiale dell'infezione, dall'altro nell'ampliamento del novero dei doveri ai quali sono sottoposti medico e struttura.

Riguardo l'antibiotico-profilassi peri-operatoria - distinta in raccomandata e non raccomandata - essa è stata strutturata per tipologia di intervento chirurgico, evidenziando le misure relative a benefici e rischi, tenendo conto del rischio di infezione del sito, della potenziale gravità dell'eventuale infezione, dell'efficacia e delle possibili conseguenze della profilassi per quel determinato intervento e per quella determinata tipologia di pazienti, con specificazione che gli antibiotici utilizzati per la profilassi

debbano essere somministrati nei 30-60 minuti precedenti l'incisione chirurgica, secondo dosaggi appropriati e in base allo spettro di azione efficace nei confronti degli agenti contaminanti maggiormente prevedibili. Trattasi di raccomandazioni ove si sottolinea anche il dovere della regolare registrazione di quanto previsto ed attuato, anche perché l'equipe operatoria deve controllare se gli antibiotici sono stati somministrati entro i 30-60 minuti precedenti l'incisione, dovendo giustificare l'eventuale somministrazione di una dose aggiuntiva intraoperatoria, ovvero l'estensione della profilassi nelle prime 24 ore post-intervento: misura peraltro da adottarsi soltanto in condizioni cliniche ben precise, cioè in presenza di un elevato rischio di infezioni post-operatorie, giungendo persino a prevedere la necessità di registrare in cartella il prolungamento della profilassi oltre la durata stabilita dalla linea guida adottata. A ciò si aggiungono specifiche indicazioni comportamentali in tema di tricotomia (non sempre necessaria), di preparazione della cute con agenti antisettici appropriati, di conferma documentale, da parte dell'infermiere o di altro operatore responsabile, della preparazione del set chirurgico, tramite il controllo e la valutazione degli indicatori di sterilità; è inoltre prevista la comunicazione di eventuali problemi infettivologici al chirurgo e all'anestesista.

È quindi ormai di tutta evidenza che eventuali manchevolezze in questo contesto procedurale, dal pre al post-operatorio, fino alla dimissione ed ai controlli a distanza, rappresentano una violazione degli obblighi derivanti dal contatto sociale, se nel caso aggravati dall'inosservanza del dovere di dimostrare l'espletamento di una corretta ed assidua monitorizzazione dei parametri e degli indicatori di infezione, nonché dell'attuazione e della rendicontazione delle colture microbiologiche e dei relativi antibiogrammi.

In tal senso si è espressa la Cassazione Civile, Sezione III, con la sentenza n. 257 del 7 gennaio 2011 a proposito di una grave infezione contratta in occasione di un parto, in relazione alla quale sono stati mossi precisi addebiti di negligenza, per la mancata adozione di profilassi antibiotica prima dell'intervento, per la mancata effettuazione di

antibiogramma tramite analisi emocolturale, per la conseguente somministrazione di antibiotici generici e non mirati, nonché per l’omessa registrazione in cartella clinica dei dati relativi all’evolvere dell’iniziale ferita episiotomica. La Suprema Corte ha rilevato come la prassi dell'emocoltura sia ben nota alla scienza medica, per cui si sarebbe dovuta adottare, specie a fronte dell'incertezza della diagnosi e dei già manifestati sintomi di un quadro infettivo. In ordine alla somministrazione per più giorni di antibiotici generici, anziché mirati, la Corte ha così argomentato "II richiamo al criterio empirico- epidemiologico, in luogo di adeguata indagine emocolturale non costituisce sufficiente motivazione dell'esonero dei medici da responsabilità, in mancanza di ogni chiarimento circa l'esatta natura ed efficacia del suddetto criterio, che - così come espresso - sembra manifestare più la giustificazione verbale e apodittica di un comportamento di inerzia e di accettazione dello status quo, che non l'espressione di una consapevole scelta terapeutica, alternativa all'emocoltura". La pronuncia prosegue con un ulteriore addebito di negligenza, riguardante appunto la violazione degli obblighi documentali cui si è fatto riferimento: " ... manca poi ogni motivazione in ordine all'addebito avente ad oggetto l'incompleta redazione della cartella clinica, nella quale è stata omessa la registrazione dei dati relativi all'evolvere della ferita, .... dalla quale ben potrebbe avere avuto origine l'infezione. Trattasi di omissione che di per sé configura inesatto adempimento, per difetto di diligenza".

Analogo orientamento si riscontra in altre pronunce civili – come la sentenza n. 1538 del 2010 della Corte di Cassazione - nonché, sempre in relazione a ritardo diagnostico ed omessi accertamenti, anche in ambito penale. In quest'ultimo, la Cassazione, con la sentenza n. 27824 del 2009 , si è così orientata in relazione ad un caso di infezione da Pseudomonas aeruginosa: " ... il soggetto è stato dimesso il 10 marzo... con esami di laboratorio che risalivano all'8 marzo ed ancora segnalavano un'alterazione dei globuli bianchi e delle transaminasi che, sebbene non significative di malattia in atto, dovevano almeno imporre un'attenta osservazione e un approfondito monitoraggio"; di conseguenza, la Corte ha dedotto che "diligenza e prudenza minime imponevano ai

sanitari che avevano in cura ... di continuare il controllo del giovane fino al momento della dimissione e consigliare il rientro a casa solo in assenza di alterazioni".

All'interno del novero delle sentenze, che optano per un inquadramento della fattispecie nell'alveo delle regole di responsabilità contrattuale, a fronte della costante allocazione in capo al paziente agente in giudizio del solo onere di provare la sussistenza del nesso di causalità e la sussistenza del danno, si registra una difformità in ordine al contenuto richiesto per la prova liberatoria della non imputabilità del danno da parte del convenuto. Mentre in alcuni casi, infatti, l'esimente viene fatta coincidere con la prova del diligente adempimento della prestazione da parte della struttura o del medico convenuti, in altri casi a questi ultimi viene richiesta, ai fini dell'esonero dal giudizio di responsabilità, la prova positiva di un fattore esterno imprevisto e imprevedibile quale causa non imputabile.

Al riguardo si segnala la pronuncia del Tribunale di Roma, Sezione II, 15 giugno 2006 , relativa ad un caso di endocardite da Staphylococcus aureus conseguente all'impianto di un pace-maker, nella quale le accezioni del nosocomio convenuto circa la mera fatalità dell'insorgenza e la predisposizione da parte dei sanitari di tutte le cure farmacologiche possibili non ha trovato accoglimento da parte del giudice che, sulla base unicamente della stretta applicazione della regola dettata dall'art. 1218 C.C., ha ritenuto non fornita la prova positiva della causa esterna non imputabile all'origine dell'infezione, con conseguente condanna del convenuto.

Nello stesso orientamento la sentenza della I Sezione della Corte di Appello di Roma, 23 aprile 2007, relativa ad un caso di meningite acuta purulenta neonatale da stafilococco coagulasi negativo, con la quale la struttura ospedaliera è stata condannata al risarcimento per non aver fornito la prova liberatoria, ovvero la dimostrazione dell’asetticità degli ambienti in cui era ricoverato il neonato e dove allo stesso era stato applicato il catetere venoso ombelicale responsabile dell’infezione.

Ed ancora, la sentenza del Tribunale di Genova, II Sezione, 27/03/2008, relativa ad un caso di intervento di discectomia L5-S1 complicato dall’insorgenza di spondilodiscite da

Staphylococcus epidermidis, con cui l’Ente ospedaliero convenuto è stato ritenuto responsabile per non aver “fornito adeguata prova sul punto [che l’inadempimento non vi era stato o che pur esistendo esso non era stato etiologicamente rilevante] dimostrando ad esempio che erano state adottate nel caso concreto tutte le misure pre-operatorie, intra- operatorie e post-operatorie idonee alla prevenzione delle infezioni del sito chirurgico …”.

Si segnala, inoltre, la sentenza n. 1228 del Tribunale Civile di Pisa del 22 ottobre 2009, relativa ad un caso di infezione da HCV insorta in seguito ad un intervento chirurgico di gastrectomia con successiva somministrazione di albumina, con cui la struttura ospedaliera– una volta accertato il nesso causale sia sulla base della compatibilità cronologica, sia per il fatto che prima del ricovero la paziente fosse risultata negativa agli esami di laboratorio - è stata condannata per non aver fornito la prova liberatoria della non imputabilità.

È evidente come in decisioni del genere la prova liberatoria per il convenuto si configuri in termini di tipica “probatio diabolica”, in quanto viene posto a suo carico l'onere di dimostrare la causa esterna dell'insorgenza, che rimane estranea al proprio ambito di attività.

La sentenza del Tribunale di Monza, 17 luglio 2006, ad esempio, relativa ad un caso di infezione conseguente ad un intervento di protesi di anca per frattura dell'arto, pur riconducendo la prova liberatoria a carico del convenuto alla dimostrazione dell'assenza di profili di negligenza nella propria condotta, finisce per accontentarsi di una ricostruzione in termini meramente presuntivi della stessa, imputando all'azienda convenuta la responsabilità per l'inadeguata igiene della sala operatoria, accertata soltanto "verosimilmente", nonché per il ritardo nella rilevazione dell'infezione, nonostante lo stesso CTU avesse rilevato il «modo subdolo» del relativo decorso.

Ancor più emblematica del sopra descritto atteggiamento giurisprudenziale, è la pronuncia della Corte di Cassazione Civile, 29 settembre 2005, n. 20136, relativa ad un caso di infezione, seguita ad un'operazione con tecniche d'avanguardia, nella quale

l'inquadramento della responsabilità da parte dell'attore nell'ambito delle regole extracontrattuali di cui all'art. 2043 c.c., non ha tuttavia impedito ai giudici di merito di ricorrere ad un accertamento della negligenza del nosocomio e del medico convenuto, sulla base di argomentazioni meramente deduttive. Tale accertamento è stato, infatti, fondato sul «sillogismo » in base al quale, una volta ritenuta accertata dai consulenti la natura esogena dell'infezione, sostenuta da germi di tipo ospedaliero, ne è conseguita la declaratoria di responsabilità dei convenuti per non avere adottato “adeguate misure preventive” del rischio infettivo, peraltro, non meglio precisate. Avverso l'apoditticità di tale pronuncia ricorreva in Cassazione il nosocomio, eccependo il vizio di motivazione della decisione impugnata e chiedendo la rinnovazione della CTU espletata, sulla base della circostanza che l'opportunità di una profilassi antibiotica in relazione al tipo di operazione da essi effettuato era ai tempi del fatto controverso, nonché sul rilievo che l'evento dannoso, essendo l'unico verificatosi all'interno di quel tipo di intervento, praticato allora in Italia solamente nell'ospedale convenuto, fosse, peraltro, assolutamente in linea con i dati statistici relativi all'alea tipica dell'intervento. La Corte di cassazione ha, tuttavia, rigettato il ricorso del nosocomio rilevandone l'inconferenza rispetto all'effettiva motivazione della sentenza di merito, in quanto quest'ultima non avrebbe fatto riferimento ad alcun addebito specifico in ordine alle misure profìlattiche, limitandosi solamente a rilevare, con motivazione ritenuta congrua, l'inidoneità in generale delle misure preventive adottate alla luce dell'insuccesso dell'intervento.

La medesima genericità nell'apprezzamento della condotta dei sanitari non è, tuttavia, ritenuta sempre sufficiente dalla Corte di legittimità; in particolare non lo è, qualora la decisione impugnata si sia espressa, contrariamente al caso sopra esaminato, per la non configurabilità della responsabilità del nosocomio convenuto per le infezioni insorte. Al riguardo si segnala la decisione della Cassazione civile, 29 settembre 2005, n. 19145, nella quale la Suprema Corte, accogliendo il ricorso della paziente danneggiata da un'infezione insorta successivamente ad un intervento di revisione cavitaria, ha rinvenuto il vizio di insufficiente motivazione ex art 360, n. 5 c.p.c. e conseguentemente ha cassato

con rinvio la decisione della Corte territoriale che aveva ritenuto, tra l’altro, insussistente la negligenza del nosocomio convenuto per le dimissioni della paziente senza prescrizione di adeguata terapia antibiotica. Nello specifico la Corte territoriale aveva fondato la propria decisione sulla base delle considerazioni dei consulenti incaricati che avevano rilevato come la dimissione senza prescrizione di terapia antibiotica a seguito di interventi del tipo di quello oggetto della causa, era conforme alla prassi medica “nella stragrande maggioranza dei casi”, nonché coerente con la mancata rilevazione al momento della dimissione della paziente di processi infettivi in atto. La Corte di legittimità ha ritenuto tuttavia tale motivazione insufficiente nella misura in cui aveva omesso di precisare “le ragioni per le quali il caso concreto sofferto dalla ricorrente così come sviluppatosi poteva dirsi riconducibile alla stragrande maggioranza nei quali non si faceva luogo a prescrizione antibiotica”.

La difformità dei parametri di valutazione evidenziati nelle due sentenze da ultimo esaminate conduce alla considerazione che il sopra rilevato atteggiamento della giurisprudenza, incline ad una tutela rafforzata della posizione del paziente danneggiato a fronte di situazioni di incertezza, trovi espressione anche nella variabile modulazione del proprio potere di apprezzamento da parte dei giuristi di legittimità. Ulteriore riscontro dell'atteggiamento giurisprudenziale sopra evidenziato è dato dalla costante negazione dell'applicabilità della disciplina dettata dall'art. 2236 c.c. alla fattispecie delle IO. Tale orientamento, peraltro in linea con la tendenza alla progressiva erosione dell'ambito applicativo dell'art. 2236 c.c. in materia di responsabilità medica, si caratterizza, con riferimento alla fattispecie delle IO, per il modo esplicito con il quale, sin dalle sentenze più risalenti, è da sempre stata negata la riferibilità di tale disciplina alle ipotesi delle IO. Come visto in precedenza, già nelle prime pronunce del Tribunale di Casale Monferrato e della Corte di appello di Torino si rinviene l'espressa affermazione dell'inapplicabilità dell'art. 2236 c.c. nel caso di IO, stante “il carattere del tutto normale del procedimento di asepsi della sala operatoria e degli strumenti”. L'orientamento viene confermato costantemente dalla giurisprudenza successiva alla luce della considerazione secondo cui

“non essendo la predisposizione dell'ambiente di esecuzione dell'intervento afferente all'esecuzione dello stesso” in relazione a tale ipotesi non è possibile “affermare la sussistenza di problemi tecnici di speciale difficoltà richiesti dall'art. 2236 c.c”.,

Dalla separazione degli obblighi di asepsi e di predisposizione di un ambiente igienicamente sicuro, rispetto alla prestazione medica principale, consegue che, anche nell'ipotesi di speciale difficoltà di quest'ultima, in quanto concernente un caso straordinario o eccezionale o riguardo al quale sussista una difformità di opinioni scientifiche, non possa trovare applicazione la limitazione di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c., in relazione all'insorgenza di IO, in conseguenza della sottoposizione al suddetto trattamento medico.

In altri casi, la mancata applicazione dell'art. 2236 c.c. viene fatta discendere dal consolidato orientamento che nega la riferibilità della disciplina dettata da tale norma alle ipotesi di negligenza e di imprudenza, alle quali solgono ricondursi i casi in cui è addebitato ai sanitari l'omissione delle indagini opportune o la sottoposizione ad adeguate terapie profilattiche in relazione all'insorgenza delle infezioni.

Al giudizio di esclusione dell'applicabilità dell'art. 2236 c.c., consegue, non solo la valutazione della condotta secondo il parametro ordinario della colpevolezza, ma anche la persistenza in capo al convenuto dell' onere di dimostrare la non imputabilità del danno, secondo le regole ordinarie discendenti dall'inquadramento della fattispecie all'interno del modello della responsabilità contrattuale. Da ciò trova conferma l'osservazione, precedentemente svolta, per la quale, all'interno dell'inquadramento della fattispecie in esame nell'ambito delle regole probatorie della responsabilità contrattuale, la valutazione della condotta tende ad essere meramente eventuale, posto che la colpevolezza non rappresenta più un requisito imprescindibile ai fini dell'imputazione, rilevandone solamente l'eventuale assenza ai fini della prova esimente.

L'analisi delle sentenze esaminate conferma, peraltro, anche l'ulteriore precedente considerazione secondo la quale l'eventuale valutazione della condotta dei convenuti effettuata in alcune delle pronunce, rileva principalmente ai fini della determinazione del