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LA RESPONSABILITÁ MEDICA ALLA LUCE DELLA “LEGGE BALDUZZI”

EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI INFEZIONI OSPEDALIERE

3.9 LA RESPONSABILITÁ MEDICA ALLA LUCE DELLA “LEGGE BALDUZZI”

Nell’ambito delle azioni promosse dal Governo tecnico, si colloca il D. lgs. 13 settembre 2012, n. 158, adottato in via d’urgenza, stante la “contrazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio Sanitario Nazionale, a seguito delle manovre di contenimento della spesa pubblica”. La normativa, emanata in periodo di crisi economica, persegue la dichiarata finalità di limitare i costi pubblici, arginando “il fenomeno della c.d. medicina difensiva, che determina la prescrizione di esami diagnostici inappropriati, con gravi conseguenze sia sulla salute dei cittadini, sia sull’aumento delle liste di attesa e dei costi a carico delle aziende sanitarie”. La medicina difensiva induce, infatti, gli operatori sanitari ad utilizzare solo i trattamenti di comprovata validità, abbandonando invece quelli di probabile maggiore efficacia, ma non immuni da rischi. Senza contare il rischio che i medici, al fine di rifuggire da assunzioni di responsabilità, siano tentati di evitare di prendere posizioni precise e di consigliare il paziente, quali “intermediari eruditi”, sulla soluzione ritenuta ottimale.

L’obiettivo di contrastare tale situazione è stato perseguito ed incentivato anche dalla legge di conversione del suddetto decreto (L. 8 novembre 2012 n. 189), che è intervenuta con numerose modifiche, onde correggere quegli aspetti dell’originaria previsione normativa, che lasciavano ampio spazio alle azioni di responsabilità nei confronti dei medici e delle strutture sanitarie.

L’eccesso di responsabilità determina, infatti, un circolo vizioso: da un lato, andando a gravare in definitiva sul bilancio pubblico (su cui pesano in via prioritaria i costi e gli oneri del contenzioso sanitario); dall’altro lato, dando vita al descritto fenomeno della medicina difensiva. Tutto ciò si riflette negativamente sul sistema sanitario, riducendone le risorse e l’efficienza.

Su tale situazione ha inciso anche l’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni, che ha determinato una forte condizione di incertezza per gli operatori sanitari.

Il 1° comma dell’art. 3 del D.l. 13 settembre 2012, n. 158, così recitava: “Fermo restando l’art. 2236 c.c., nell’accertamento della colpa lieve nell’attività di esercente le professioni sanitarie, il giudice, ai sensi dell’art. 1176 c.c., tiene conto dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale”.

Tale norma, nella sua originaria previsione, interveniva dunque sul solo versante civilistico e dava per scontato che la responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie (sia esso un libero professionista o un medico dipendente dal servizio sanitario nazionale) fosse contrattuale (confermando gli approdi della giurisprudenza a partire dal 1999), come si desume dal richiamo all’art. 2236 c.c.. E’ evidente che tale previsione si poneva in contrasto con la finalità della riforma, ossia quella di limitare gli oneri risarcitori della parte pubblica, stanti il più lungo regime prescrizionale e l’onere della prova più favorevole, derivanti dal regime contrattuale. Per questa ragione, la norma è stata censurata dalla Commissione Giustizia e modificata dalla legge di conversione (L. 8 novembre 2012 n. 189).

Oggi la prima proposizione dell'art. 3, comma 1, riguarda la materia penale, e così recita: "L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve"; la seconda e la terza proposizione riguardano invece la responsabilità civile, e dispongono che "In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo", ossia dell'osservanza da parte del medico delle "linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica".

La nuova disposizione contiene, dunque, tre diverse direttive:

a) sul versante penale, una abolitio criminis parziale, qualora l’esercente la professione sanitaria abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche accreditate e versi in colpa lieve;

b) il mantenimento in tali casi della responsabilità civile;

c) la quantificazione del risarcimento, da temperarsi tenendo conto della condotta di cui al punto a).

Il testo del succitato art. 3 ha sollevato ampie discussioni, specie per quanto riguarda il profilo del regime della responsabilità del medico. Infatti, il secondo principio affermato dalla norma ha dato vita a diverse interpretazioni, non chiarite dalla lettura dei lavori parlamentari, e costituisce tutt’oggi il “nocciolo centrale del problema”.

Il fatto che il legislatore richiami l’art. 2043 c.c. (che prevede la clausola del neminem laedere), anziché l’art. 1218 c.c. (in tema di responsabilità contrattuale) ha indotto taluni a mettere in discussione i tradizionali criteri di accertamento della responsabilità civile del medico dipendente, finora consolidati sullo schema contrattuale, o meglio, da contatto sociale (Cass., 22 gennaio 1999, n. 589).

Parte della giurisprudenza (Trib. Varese, 26 novembre 2012; Trib. Torino, 26 febbraio 2013) ritiene che il legislatore, esprimendosi nei suddetti termini, abbia inteso qualificare la responsabilità del medico come extracontrattuale, coerentemente – si sostiene – con la

finalità di scongiurare i rischi legati alla medicina difensiva (in base allo schema della responsabilità aquiliana, è il paziente a soggiacere ad un onere probatorio e ad un regime prescrizionale più gravosi).

Altra parte della giurisprudenza (v. Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013) propugna, invece, l’idea che il rinvio all’art. 2043 c.c. vada letto semplicemente come un’imprecisione tecnica del legislatore, di per sé inidonea a mutare quell’orientamento giurisprudenziale costante che, a garanzia di una tutela più effettiva del paziente, predica la natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente. Ad esempio la sentenza di Cassazione n. 4030/2013 mostra di preferire la tesi contrattuale e dunque l’orientamento tradizionale. La Corte ritiene l’art. 3 della legge Balduzzi non intacchi la responsabilità da contatto del medico dipendente. Anzi, essa precisa che “la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate, e non solo per la responsabilità aquiliana del medico, ma anche per la cd. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”.

Si possono così riassumere le diverse interpretazioni che la normativa ha assunto in giurisprudenza ed in dottrina; da questo punto di vista, si delineano, anzitutto, due filoni principali:

- Secondo un primo orientamento, la responsabilità del medico e della struttura rimarrebbero entrambe di natura contrattuale, poiché il legislatore si è voluto riferire meramente all’obbligo risarcitorio, «restando ferma» l’evoluzione giurisprudenziale precedente; per cui il rinvio all’art. 2043c.c. dovrebbe intendersi in senso atecnico, quale mero richiamo al neminem laedere.

- Dal lato opposto, si collocano coloro che ritengono che il legislatore abbia consapevolmente utilizzato il richiamo all’art. 2043 c.c. e che, in ogni caso, non sia possibile ignorare tale scelta normativa.

Questo secondo filone ha dato vita, al suo interno, a più sottointerpretazioni, di diverso tenore, ossia:

- la responsabilità sia del medico che della struttura sarebbe oggi sempre extracontrattuale;

- la responsabilità del medico sarebbe extracontrattuale ma quella della struttura permarrebbe di natura contrattuale, considerato che, per la seconda, la norma nulla specifica. Ciò non impedirebbe, dunque, di convenire la struttura per responsabilità contrattuale: sarà questa a potersi poi rivalere eventualmente sul medico.

Questa interpretazione appare più fedele al tenore letterale e all’evoluzione giurisprudenziale. Essa rischia tuttavia di svilire la dichiarata finalità di contenere la responsabilità medica e la correlata spesa pubblica, creando anzi un possibile incremento di contenzioso nei confronti delle strutture e fra queste ultime ed i medici (con conseguente inasprimento dei relativi rapporti).

Inoltre, la legge Balduzzi esclude la rilevanza penale delle condotte dei medici connotate da colpa lieve, che si collochino all’interno dell’area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica; per converso, quindi, se il sanitario si attiene alle linee guida può essere ritenuto responsabile unicamente in caso di colpa grave. Non c’è dubbio che la riforma Balduzzi introduca nel panorama della responsabilità penale del sanitario due significativi elementi di novità. In primo luogo, il Legislatore ha valorizzato il ruolo che ricoprono le linee guida e le buone pratiche terapeutiche, purché corroborate dal sapere scientifico; oltre a ciò, l’art. 3 reintroduce nel diritto penale – sia pure con esclusivo riferimento agli esercenti la professione sanitaria – il concetto di colpa lieve che, secondo la ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, non avrebbe potuto trovare applicazione nelle ipotesi di colpa professionale, neppure limitatamente ai casi in cui “la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, previsti dall’art. 2236 c.c.. E tale introduzione costituisce un fatto di grande rilevanza giuridica perché ripropone la necessità di elaborare in maniera moderna i concetti di culpa levis e di culpa lata.

Le linee guida conoscono numerose e, spesso, assimilabili definizioni. Secondo una delle più diffuse in letteratura esse possono essere definite come: “raccomandazioni di

comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche”29.

In pratica, le linee guida puntano ad orientare le decisioni del sanitario tra le migliaia di notizie provenienti dalla letteratura biomedica, preselezionando le informazioni utili a impostare una soluzione di una questione clinica con la maggior probabilità di successo e il minor dispendio di risorse possibile. Esse possono provenire da diverse fonti (circolari, regolamenti, piani sanitari). La produzione di linee guida è un processo guidato da organismi che godono di credibilità rispetto alla professione medica (Società scientifiche, Istituzioni di ricerca). Occorre inoltre evidenziare che le migliaia di linee guida prodotte dalle Società scientifiche, dagli ordini professionali, etc., sono soggette a revisione scientifica-clinica costante e ad applicazione comparata a livello nazionale ed internazionale. Questo fenomeno di tendenziale standardizzazione delle condotte dei medici, si inserisce in un più ampio processo che interessa le principali attività sociali c.d. rischiose, ove a fronte della velocità del progresso scientifico-tecnologico e della complessità e molteplicità degli interessi sociali coinvolti, si tenta di operare una sempre maggiore standardizzazione delle regole cautelari. Tuttavia, parte della dottrina sottolinea che il descritto fenomeno di standardizzazione delle condotte terapeutiche è guardato con sospetto sia dalla classe medica, sia dalla magistratura: la prima per timore di una certa banalizzazione della propria attività professionale, la seconda per evitare un abbassamento della tutela penale al bene giuridico protetto per eccellenza, la vita e l'incolumità fisica, che potrebbe essere ridotta se si accentuasse l'obbligo di conformarsi alle "linee guida" o ai protocolli. Si afferma pertanto che nel campo medico, medici e giudici penali sono entrambi inclini a sostenere che le regole cautelari debbano essere “aperte”, e che quindi la miglior condotta terapeutica vada individuata solo caso per caso. Il risvolto negativo di tale impostazione è molto probabilmente l'aumento del contenzioso (proporzionale alle maggiori incertezze nell'accertamento dei profili di colpa del sanitario), con il rischio aggiuntivo di una dilatazione della responsabilità per colpa

professionale, dato che sarà quasi sempre possibile trovare una regola cautelare ulteriore rispetto a quella indicata nelle “linee guida”, la cui osservanza avrebbe potuto evitare l'evento avverso.

Le buone pratiche accreditate sono, invece, “protocolli di comportamento diagnostico- terapeutico, che descrivono le procedure alle quali l’operatore sanitario deve attenersi nella situazione specifica”30. Esse sono nate nel campo della sperimentazione (GCP, ossia Good Clinical Practice) e sono oggi utilizzate quotidianamente anche come regolamenti di servizio adottati dalle singole strutture ospedaliere. Le buone pratiche si sono affermate negli ultimi anni come “pratiche per la sicurezza”. La più recente letteratura specifica che sono identificabili in interventi, strategie e approcci finalizzati a prevenire o mitigare le conseguenze inattese delle prestazioni sanitarie o a migliorare il livello di sicurezza delle stesse. Esse possono includere interventi di sistema, organizzativi o di comportamento, singoli o combinati. Il focus viene posto sulle strategie adottate. In particolare, sono considerate pratiche per la sicurezza essenziali quelle che: hanno una forte evidenza in termini di probabilità di riduzione del danno al paziente; sono generalizzabili ovvero applicabili in contesti anche differenti; si basano su conoscenze condivisibili anche dai pazienti, dai professionisti, dai ricercatori. Le buone pratiche perciò attengono alla implementazione di principi clinici nell’operatività combinati con interventi organizzativi del sistema e dei singoli nell’ambito dell’obiettivo generale della sicurezza. Recentemente la “European Union Network for Patient Safety and Quality of Care” ha definito un modello concettuale per la classificazione delle pratiche per la sicurezza del paziente.31 I criteri per la classificazione delle pratiche sono stati identificati in: 1) effettiva realizzazione dell’esperienza; 2) valutazione dei risultati con analisi prima – dopo; 3) efficacia in termini di miglioramento della sicurezza dei pazienti. In accordo con questi criteri le pratiche sono state classificate in 4 categorie:

1. Pratiche Sicure (Safe Practices),

3. Pratiche potenzialmente sicure (Potentially safe practices) 4. Pratiche non valutate (Not evaluated practices),

Esisterebbe un’altra categoria che non viene riportata nell’elenco suindicato: le pratiche non implementate (Not implemented practice), che probabilmente non forma ancora una vera “pratica”, in quanto non passata al vaglio dell’organizzazione e come tale non può beneficiare della definizione di buona pratica. A titolo di esempio, per “buone pratiche” si intendono documenti come: la gestione del dolore, la gestione dei farmaci antiblastici, la prevenzione delle ulcere da pressione, l’adozione dell’indice di deterioramento cardiaco, la prevenzione della distocia di spalla, la prevenzione dell’evento sentinella etc.

La materia non è comunque pacifica in quanto, anche recentemente, il Ministero della salute ha emanato delle “raccomandazioni” per la “prevenzione degli errori in terapia con farmaci antineoplastici”.32 A livello di Conferenza Stato-Regioni troviamo un atto normativo che demanda all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali il monitoraggio delle “buone pratiche per la sicurezza delle cure”33.

È tuttavia da osservare che le linee guida ed i protocolli vengono trattati pressoché alla stessa stregua, evidenziandone il carattere non tassativo ma, al contrario, l’eterogeneità e la molteplicità in quanto spesso elaborati da enti, istituzioni e società scientifiche non riconosciute da autorità pubblica. Inoltre, nonostante prolifichino con estrema rapidità, difficilmente possono adattarsi a tutte le possibili situazioni cliniche, potendo anzi essere controversi e non più rispondenti ai progressi verificatisi nella cura della patologia.

In proposito, si è posto in luce il rischio che la Riforma induca gli operatori sanitari a tenere quei comportamenti che essa mira invece ad evitare: l’accento posto al rispetto delle linee guida può facilmente indurre a pratiche di medicina difensiva con cieco ossequio ai protocolli, esclusivamente per limitare, il riconoscimento di una pretesa risarcitoria. Sul punto, la Corte di Cassazione penale si è già pronunciata più volte affermando che le linee guida indicano solo orientamenti, la cui corretta applicabilità deve comunque essere verificata in relazione al caso concreto: se necessario, il medico deve derogarvi, potendo altrimenti incorrere in colpa grave.

Da quanto sopra si evince che la riforma Balduzzi non è riuscita pienamente nell’obiettivo di risolvere i problemi che si era prefissata, sollevando anzi ulteriori critiche e dubbi interpretativi - ad oggi irrisolti - sia nella giurisprudenza che nella dottrina : la norma rischia dunque di non risolvere, anzi di aggravare il problema economico, incrementando le richieste di risarcimento con l’aggancio in via solidale del medico alla struttura responsabile di inadempimento.

CAPITOLO 4

CASISTICA DELL’AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA