• Non ci sono risultati.

Accettare la cecità o convivere con essa

La mancanza della vista – lo abbiamo sottolineato più di una volta – ha in- numerevoli implicazioni sulla vita delle persone che la subiscono. Tali implica- zioni, di cui è indiscutibile la forte valenza emotiva, contribuiscono a far emerge- re condizioni, sensazioni, caratteristiche o inclinazioni della personalità che, non a caso, tra i ciechi sembrano assai più diffuse e radicate che non tra i vedenti. Consideriamone alcune:

a) la fatica: quando si dispone di risorse limitate, la fatica per raggiungere qualsi- asi obiettivo cresce inevitabilmente; ciò è vero anche per compiti che da chi vede sono ritenuti facili – come ad esempio la gran parte delle incombenze casalinghe – ma che, per un cieco, possono essere assolti solo con grande impegno e, appunto, con evidente fatica;

b) lo stress: lo stress può dipendere in particolare dal fatto che i tempi necessari a compiere molte operazioni in assenza della vista sono più lunghi. Pensiamo a una situazione abbastanza comune: una persona, in coda alla cassa di un su- permercato, alla quale cada per terra una moneta. Se la persona in questione fosse cieca dovrebbe chinarsi e cominciare a esplorare con le mani tutto lo spazio circostante, in modo accurato e sistematico, determinando un ingorgo insopportabile. Quanto allo stress, esso si può produrre nell’interessato non solo nel malaugurato caso in cui la moneta sia caduta, ma ancor più per il ti- more che essa possa cadere;

c) senso di frustrazione: spesso il senso di frustrazione insorge perché il cieco o- pera in condizioni di continuo ritardo rispetto agli altri e riuscendo oltre tut- to a raggiungere risultati limitati. Ecco ancora un esempio pratico: la lettura del giornale. Da qualche anno i ciechi sono in grado di accedere, attraverso la rete, ai più importanti quotidiani nazionali. Tale circostanza, pur rappre- sentando un notevole progresso rispetto al passato, non cancella le ragioni di possibile frustrazione, perché le opportunità offerte ai ciechi sono in ogni caso ridotte rispetto a quelle garantite a chi vede: il numero di articoli dispo- nibili, ad esempio, è limitato, le informazioni legate all’impaginazione – tito- li, sottotitoli, colonne, occhielli, neretti ecc. – vanno in buona parte perdute e così via;

d) senso di impotenza: il senso di impotenza discende dalla consapevolezza di non poter fare molte delle cose che i vedenti possono fare o di dover di- pendere stabilmente dall’aiuto degli altri. L’esempio più evidente riguarda la

mobilità fisica: come è stato già notato, infatti, chi non vede molto spesso, soprattutto in situazioni nuove, non può fare a meno di un accompagnatore; e) egocentrismo: l’egocentrismo, la propensione cioè a essere concentrati su sé

stessi e a concepire il mondo circostante per lo più in relazione al proprio io, può essere una conseguenza dalla riduzione delle stimolazioni esterne che la condizione di cecità produce;

f) solitudine: la solitudine può essere il frutto della difficoltà di intrattenere rela- zioni con gli altri, anche a causa della minorazione visiva. Così molti ciechi sono spesso costretti a dipendere dal desiderio o dalla volontà dell’altro an- che solo di manifestare la propria presenza, e ancor più di stabilire una rela- zione interpersonale;

g) sensazione di essere minacciati: la sensazione di essere continuamente in presen- za di qualche pericolo può essere accentuata dalla mancanza di un adeguato controllo sull’ambiente circostante;

h) passività: quando non si ha, come nel caso della persona cieca, piena cono- scenza di che cosa stia accadendo nell’ambiente circostante, può crescere la difficoltà a prendere l’iniziativa;

i) iperattività: in certi casi la persona cieca può essere indotta a reagire al rischio di passività cui è sottoposta con una forma di iperattività. L’iperattività può anche essere un modo per prevenire l’iniziativa degli altri cui si teme di non poter rispondere adeguatamente e, viceversa, per imporre un terreno favo- revole su cui avviare il confronto.

Si sarà notato che nel descrivere i dati psicologici indicati come caratteristici della personalità del cieco essi non sono mai stati presentati quali conseguenze necessarie della limitazione visiva, ma più che altro come rischi o tendenze pos- sibili. Le impostazioni deterministiche, anche se dotate a volte di un certo fasci- no, finiscono infatti per dare della realtà una rappresentazione troppo rigida e ri- duttiva. Possono rientrare in una tale prospettiva anche le ipotesi definite dagli autori che, a partire dalla fine dell’Ottocento, abbagliati dagli straordinari oriz- zonti offerti dalla psicanalisi, hanno voluto interpretare la condizione del cieco alla luce del senso di castrazione che sarebbe necessariamente associato alla de- privazione visiva. Spiegazioni simili sono tanto più discutibili perché, oltre tutto, pretendono di ricondurre una pluralità di conseguenze e di implicazioni possibili a un’unica chiave interpretativa.

Voler individuare cause univoche risulta essere un’operazione ancor meno re- alistica alla luce di alcune osservazioni già proposte in precedenza, e cioè:

a) la difficoltà di distinguere e definire il peso specifico della cecità sulla forma- zione della personalità di un individuo o anche solo sui suoi comportamenti in un momento particolare;

b) le non minori difficoltà in quel senso per chi viva la minorazione visiva in prima persona, tenuto conto oltre tutto della sua comprensibile tendenza a difendersi dalla sofferenza cui deve fare fronte.

La necessità di evitare descrizioni semplicistiche e banalizzanti deve condurci d’altra parte a non voler definire in modo univoco la rappresentazione che il cie- co offre della propria cecità e del rapporto che essa intrattiene con la sua vita; è molto più utile prendere in considerazione le diverse e molteplici immagini che nella realtà concreta i singoli individui propongono volta per volta. Per brevità ci limitiamo qui ad analizzarne due fra le più diffuse, che possiamo assumere come i poli estremi fra i quali si situano molte altre rappresentazioni possibili.

Da un lato il rapporto tra il cieco e la sua condizione può essere descritto nei termini di una maggiore o minore accettazione dell’handicap. In una tale pro- spettiva le differenze di atteggiamento sarebbero più che altro una questione di grado. La retorica dell’accettazione è molto diffusa non solo nel linguaggio cor- rente o tra chi guarda la cecità dal di fuori ma anche nei modi in cui i ciechi de- scrivono sé stessi. Sono numerose ad esempio le autobiografie nelle quali gli au- tori descrivono la propria vita da ciechi appunto come un percorso di progressi- va accettazione; come una sequenza continua di sfide vittoriose lanciate contro le limitazioni imposte dalla cecità. Si tratta di storie che raccontano di successi eroi- ci sulla strada della riconciliazione con il mondo e con sé stessi; storie di reden- zione e di normalità riconquistata, nelle quali la sofferenza viene spinta sullo sfondo fino ad essere rimossa o addirittura negata, quasi come se la cecità fosse in realtà una condizione superabile una volta per tutte, un nemico che può essere sconfitto in via definitiva.

In un’altra prospettiva il rapporto tra il cieco e la sua condizione può essere rappresentato in termini di convivenza. Qui il riferimento è in primo luogo al bel libro di John Hull Il dono oscuro2.

Ma cosa vuole dire, concretamente, convivere con la cecità? Innanzitutto signi- fica imparare a convivere con la propria cecità e cioè con le particolarità della pro- pria condizione così come essa viene sperimentata e vissuta quotidianamente.

Significa convivere con i suoi aspetti evolutivi e cioè con gli aspetti che ren- dono la cecità un dato sì ineliminabile della propria vita ma al contempo mutevo- le o progressivo – molti difetti visivi hanno infatti natura progressiva, degenerati- va o, a volte, regressiva con il passare del tempo –, rispetto al quale non è possi- bile quindi maturare risposte definitive; occorre invece adottare strategie elasti- che, frutto di una continua riconsiderazione delle proprie necessità.

Significa convivere con gli effetti concreti della cecità sulla propria esistenza quotidiana, ma anche con le sue implicazioni per così dire filosofiche, con gli

interrogativi che la minorazione visiva può in certi casi suscitare in chi la subi- sce: perché la cecità? Perché proprio a me? E via interrogando.

Vuole dire convivere con le sofferenze che la cecità impone: saperle ricono- scere e sapersi misurare con esse, traendone spunto per riflettere sulla propria condizione di vita e per imparare ad affrontare i problemi che si ripresentano giorno dopo giorno in forme sempre nuove.

Significa convivere con una compagna indesiderata, che non può essere scacciata una volta per tutte dalla propria vita – come invece vorrebbe la retori- ca dell’accettazione –, ma che al contrario si ripresenta in circostanze spesso imprevedibili e con modalità inattese.

Significa infine – e ciò non deve sembrare paradossale – convivere con una condizione in grado di offrire non solo ragioni di rabbia e di sofferenza ma an- che opportunità positive: di riflettere sulla propria specificità di individui, di ma- turare nuovi punti di vista sul mondo e sulla vita ecc.; opportunità che possono essere colte, però, soltanto se si diventa capaci di uscire dalla rigida alternativa, e dunque dal doloroso confronto, fra il molto che la cecità toglie e il poco che essa può dare.

Abbiamo detto come la polarità accettazione-convivenza incida non solo sull’atteggiamento del cieco ma anche su quello di chi osserva il cieco e la sua condizione dall’esterno.

Per il cieco, un atteggiamento nei confronti della propria condizione caratte- rizzato dalla cosiddetta “accettazione” del problema, con tutto quanto ne conse- gue in termini di rimozioni e di negazione, può essere discutibile ma appare senz’altro legittimo, tanto più se – come si è detto poc’anzi – esso riesce ad offri- re motivi di consolazione e ragioni per affrontare la vita in positivo. Chi vicever- sa si limita a guardare la cecità dall’esterno dovrebbe sentire una ben minore ne- cessità di consolare sé stesso a fronte di una condizione, pur drammatica, che non si trova a dover vivere in prima persona. Da chi vede, in altre parole, ci si dovrebbe attendere un atteggiamento più aperto, consapevole e responsabile; un atteggiamento privo da un lato di cedimenti alla retorica dell’accettazione (e della rimozione) e orientato dall’altro a guardare non solo al cieco ma soprattutto alla persona cieca, non solo alla limitazione in quanto tale ma all’individuo che tale limitazione subisce.

Un atteggiamento del genere potrebbe peraltro aiutare chi decidesse di assu- merlo a non cadere nell’errore di considerare la cecità come un dato astratto e separato da chi in concreto ne soffre; potrebbe condurre inoltre ad evitare gene- ralizzazioni indebite e, soprattutto, a considerare i problemi nel loro riproporsi quotidiano, senza mai cessare di interrogarsi al loro riguardo.