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Conclusioni e proposte (ipotesi e suggestioni)

Abbiamo presentato una rapida carrellata dei più significativi lavori sul ver- balismo. Cosa possiamo aggiungere al termine del nostro percorso? Sulla mol- teplicità degli approcci alla questione e dei metodi usati per valutare la cono- scenza semantica dei ciechi non diremo più di quanto non sia già stato detto nelle pagine precedenti. Proporremo invece qualche considerazione su quelle che a nostro avviso sono le ragioni che hanno determinato una distinzione così netta e apparentemente insanabile tra posizioni segnate dall’ottimismo e posi- zioni tendenzialmente pessimistiche.

In primo luogo, chiediamoci che cosa accomuna quelli che abbiamo chia- mato per semplicità gli ottimisti o, meglio ancora, che cosa li divida dai pessi- misti. La differenza principale tra i due orientamenti – per come essi si sono manifestati sinora – crediamo possa essere fatta risalire alla definizione stessa del verbalismo. Per gli ottimisti, infatti, il verbalismo è una conoscenza scorret- ta, imprecisa o povera dei significati delle parole (ognuno, come si ricorderà, ha la sua personale idea del significato), mentre per i pessimisti esso coincide con l’incapacità di riconoscere attraverso i sensi un oggetto di cui (più esattamente della parola che lo designa), però, si dimostri di possedere una conoscenza se- mantica adeguata. Abbiamo dunque due definizioni di una stessa nozione, che hanno dato origine a risultati sperimentali contrastanti e che, oltretutto, sono

ciechi, 8; il numero totale di definizioni corrette è 54 (somma delle colonne 1, 2 e 3). La per- centuale è data dalla formula (8/54)×100 = 14,8.

73 S. Von TETZCHNER, H. MARTINSEN, “A psycholinguistic study of the language of the blind:

state considerate dai rispettivi sostenitori come reciprocamente inconciliabili. Ma chiediamoci, a questo punto, se si tratta davvero di opzioni così netta- mente distinte? Ottimisti e pessimisti indagano due fenomeni di natura diversa, uno relativo al linguaggio e l’altro attinente alla percezione? È vero, come ha affermato Dokecki, che quella di Harley è semplicemente una misura delle ca- pacità di discriminazione tattile dei ciechi senza alcuna relazione con la que- stione del verbalismo?

Forse un punto d’incontro è non solo auspicabile ma concretamente possi- bile. In tale senso il primo passo che proponiamo di fare consiste nell’abban- donare per un momento il problema del significato e di sostituire alla domanda «quale significato attribuiscono i ciechi alle parole?» il seguente quesito: «cosa sanno fare i ciechi con le parole?».

Prima di abbozzare una risposta vale forse la pena cercare di capire, più in generale, che cosa sappiano fare i parlanti, indipendentemente dalle loro condi- zioni sensoriali, con le parole. Un parlante considerato competente rispetto ad una certa parola, supponiamo per ipotesi “forchetta”, possiederà probabilmen- te un insieme abbastanza eterogeneo di abilità connesse all’uso di quella parola. Ad esempio, sarà in grado di definirla, di indicarne un sinonimo, di parafrasar- la, di effettuare con essa alcune inferenze semantiche corrette ma anche di ri- spondere a semplici richieste come «passami la forchetta!» o a domande come «c’è una forchetta sul tavolo?». Delle abilità appena elencate solo le ultime due hanno direttamente a che fare con la percezione. È chiaro, infatti, che entram- be presuppongono la capacità di riconoscere l’oggetto forchetta o quantomeno di discriminarlo tra tutti gli altri oggetti presenti sul tavolo74.

Diego Marconi ha descritto la competenza semantica come composta da due famiglie di abilità di natura diversa, le quali danno origine, nel loro insieme, ai due aspetti o lati della competenza, quello inferenziale e quello referenziale. La competenza inferenziale comprende le capacità di definire, di parafrasare, di trar- re inferenze semantiche, di riconoscere e individuare sinonimi, di indicare il ter- mine cui una data definizione si riferisce ecc. La competenza referenziale indica invece la capacità di applicare i termini del lessico al mondo. Quest’ultima si fon- da su due abilità non strettamente linguistiche, il riconoscimento e la discrimina- zione. Infatti, per nominare un dato oggetto o per indicarlo a partire dal suo no- me (il naming e l’application costituiscono appunto le due abilità costitutive della competenza referenziale) è necessario, come si diceva prima a proposito della forchetta, essere capaci di riconoscerlo. Tuttavia, per riconoscere un oggetto, è cruciale averne avuto una qualche esperienza percettiva diretta. Facciamo un e- sempio banale: se io ho già visto un leone, avrò, qualora dovessi incontrarlo una

seconda volta, molte più probabilità di riconoscerlo rispetto a chi, diversamente da me, abbia del leone una conoscenza magari molto approfondita ma puramen- te verbale.

L’esperienza degli insegnanti che lavorano con i bambini ciechi è istruttiva in questo senso. Si consideri la seguente testimonianza. «Quel giorno provai a leg- gere in classe una storia sui leoni. I bambini mi ascoltavano passivamente, troppo passivamente. Mi resi subito conto che la storia che stavo raccontando era trop- po difficile per le loro possibilità. Così mi fermai e chiesi ad ognuno: “quanto è grande un leone”? […] uno di loro mi mostrò, con un cenno delle mani, una di- stanza pari a circa tre pollici, un altro a sei e un altro ancora a due piedi. Ad un certo punto un bambino, preso da grande eccitazione, […] si alzò in piedi e si gettò letteralmente sul libro che tenevo di fronte a me, dicendomi: “qui, qui, l’immagine sul tuo libro. Fammi vedere con le tue dita quanto è grande un leo- ne”. Quell’immagine non era più lunga di due pollici. Era giunto il momento di discutere seriamente di dimensioni. […] Decisi così di recarmi presso un grande supermercato, dove c’erano alcuni animali di peluche in scala reale tra cui una scimmia, una mucca, una tigre e anche un leone. […] Con la collaborazione del personale li feci toccare a tutti i miei allievi»75. La testimonianza prosegue con un invito agli insegnanti. «La migliore lezione è il contatto con animali veri. […] Fammi vedere, fammi vedere! Dice il bambino cieco mentre allunga le mani per toccare il leone di peluche. Maestri dei ciechi, per favore, ascoltate le sue parole, “vedere” non sentire parlare di..[…]. I bambini ciechi possono vedere, essi ve- dono con il tatto, il gusto, l’odorato e l’udito. Questa è esperienza attiva, questa è vita, questa è azione positiva opposta all’ascolto passivo. Non bisogna pensare che i bambini ciechi abbiano capito un concetto solo perché sanno dire qualche parola su di esso. Spesso i bambini ciechi verbalizzano, pronunciano parole di cui non conoscono bene il significato»76.

Consideriamo ora questo secondo esempio, proposto da Marconi. Da un la- to abbiamo un naturalista che sa tutto ciò che sia dato sapere sulla farfalla chiamata Aulularia Clemensi ma che, avendo studiato per anni su libri privi d’im- magini, non ne ha mai vista una. Se un giorno il nostro naturalista si recasse nella foresta amazzonica e ad un tratto un’Aulularia Clemensi dovesse passargli davanti, egli potrebbe non riuscire a riconoscerla, pur essendo in possesso, in linea di principio, delle risorse cognitive per farlo, pur conoscendone, ad esem- pio, la forma, le dimensioni e i colori (ha imparato queste informazioni sui li- bri). Dall’altra parte abbiamo invece un nativo della foresta, che, nel corso della

75 D. J. LLOYD, “Learning Through Experiencing”, in Education of the visually handicapped, 1972, p. 19.

sua vita, ha visto moltissime volte quella farfalla. «La capacità del naturalista di applicare il nome della farfalla all’oggetto reale – scrive Marconi – è molto infe- riore a quella del nativo della foresta. La differenza a cui alludiamo – prosegue Marconi – tra la competenza dello scienziato e quella del nativo non è sempli- cemente un fatto di quantità. Si tratta di una differenza tra due aspetti della competenza semantica, uno consistente nella conoscenza delle proposizioni ve- re in cui una certa parola è usata, l’altro attinente all’applicazione di quella paro- la al mondo. L’esperto genuino le possiede entrambe»77.

Il cieco, viceversa, si trova spesso nelle condizioni del naturalista di Mar- coni. Essendosi formato, per così dire, su libri senza immagini, la sua compe- tenza referenziale rischia di essere in qualche modo meno ricca ed articolata ri- spetto a quella di coloro che vedono. Le ricerche di Harley da un lato e di Ste- phen von Tetzchner e Harald Martinsen dall’altro si prestano ad essere inter- pretate come una conferma di tale congettura.

Che cosa dà origine, dunque, alle difficoltà dei ciechi sul piano referenziale della competenza, la cui esistenza, come detto, può essere ipotizzata sulla base dei risultati ottenuti da Randall Harley e da Stephen von Tetzchner e Harald Martinsen? La risposta a tale quesito è già emersa almeno in parte. Infatti, se il riconoscimento e la discriminazione dipendono strettamente dalla conoscenza percettiva, è ragionevole immaginare che un gravissimo handicap sensoriale co- me la mancanza della vista possa incidere in modo determinante su entrambe quelle capacità. Certo, è anche vero che le performance referenziali possono fondarsi su conoscenze inferenziali o su competenze referenziali indirette in ordine, ad esempio, ai termini di colore e di forma o ai concetti di livello base (Marconi, 1997). Tuttavia, come ha spiegato bene Marconi, le performance re- ferenziali indirette sono «intrinsecamente più difficili di quelle basate su proce- dure dirette [e] una competenza referenziale che fosse indiretta per la maggio- ranza delle parole sarebbe seriamente menomata»78.

Se tutto ciò è vero, per arricchire la competenza referenziale delle persone che non vedono, per migliorare quindi la loro padronanza generale del lessico, è cruciale arricchire il raggio delle loro esperienze, ampliare al massimo il loro universo percettivo. Da molto tempo, addirittura da secoli, esistono strumenti di comunicazione come i modelli, i bassorilievi e i disegni a rilievo, che posso- no accrescere notevolmente la conoscenza del mondo circostante da parte dei ciechi. Strumenti di questo genere possono rivelarsi utili anche per promuovere un uso più preciso e consapevole delle parole. E non solo a livello “referenzia- le”. Infatti, è vero che quella inferenziale e quella referenziale sono verosimil-

77 D. MARCONI, Lexical Competence cit., p. 58. 78 Ibidem, p. 63.

mente capacità distinte dal punto di vista cerebrale (esistono pazienti che, a se- guito di danni neurologici, subiscono gravissime menomazioni ad un aspetto della competenza, preservando invece l’altro, o viceversa) ma è altrettanto evi- dente che tra di esse esistono interazioni complesse. Abbiamo già notato che l’applicazione dei termini al mondo può essere sostenuta o facilitata dalle cono- scenze di tipo inferenziale. Allo stesso modo, noi «possiamo arricchire la nostra competenza inferenziale ragionando su come applichiamo le parole. Un bam- bino, ad esempio, può essere indotto a congetturare una connessione tra uomo e maschio riflettendo su come tali parole sono applicate da sé stesso e dalle persone che lo circondano»79.

L’esistenza di tali interazioni induce a credere che una grave limitazione sul lato referenziale della competenza possa ripercuotersi negativamente anche su quello inferenziale. Senza peraltro dimenticare che i risultati delle ricerche di cui disponiamo non confermano in alcun modo questa ipotesi: ad esempio, nei compiti di definizione – si ricordi che la capacità di definire rientra nel lato in- ferenziale della competenza – i ciechi si sono sempre dimostrati pressoché sul- lo stesso livello dei vedenti. Allo stesso modo, data l’esistenza di relazioni com- plesse tra i due aspetti della competenza, è plausibile che uno strumento in gra- do di agire su uno di essi possa generare effetti positivi anche sull’altro: ciò si- gnifica che modelli, bassorilievi e disegni a rilievo potrebbero, come già si è suggerito, rivelarsi utili non solo nel migliorare la capacità dei ciechi di applicare le parole al mondo circostante, ma anche nell’ambito delle capacità inferenziali. In ultima analisi si può forse affermare che, alla luce della teoria di Marconi e di tutto quanto abbiamo detto fin qui, la frattura tra ottimisti e pessimisti debba essere in parte ricomposta. Infatti, tanto la capacità di definire un termine, studia- ta da Ester Civelli e da Anderson e Olson, quanto quella di nominare oggetti previo il loro riconoscimento attraverso i sensi, della quale si sono occupati sia Harley sia Stephen von Tetzchner e Harald Martinsen, sono parte integrante del- la competenza semantica, vale a dire dell’insieme di abilità che i parlanti compe- tenti di una certa comunità linguistica normalmente possiedono. Possiamo dun- que affermare che le ricerche sul verbalismo, fatta eccezione per quella di De- mott e per quella di Dokecki, delle cui particolarità abbiamo già diffusamente di- scusso, si sono tutte interrogate, con maggiore o minore padronanza del pro- blema, su come il difetto visivo si ripercuota sulla competenza semantica. A que- sto punto, si potrebbe addirittura proporre una nuova definizione del verbali- smo, inteso come una generica lacuna nella competenza semantica e non come una conoscenza povera o non corretta dei significati. Tale cambiamento non ri- solverebbe i problemi relativi alla valutazione del tipo e del grado di verbalismo

riscontrabile ogni volta: si riproporrebbe, ad esempio, la questione di quale livello di competenza costituisca la “normalità”, così come, negli studi che abbiamo e- saminato, si poneva quella, analoga, di quale fosse la conoscenza semantica che i ciechi avrebbero dovuto possedere per essere giudicati come “soggetti nella norma”. Tuttavia, esso consentirebbe almeno di non vedere, come aveva fatto Dokecki, nelle ricerche della Civelli e di Harley, tanto per citarne due a caso, stu- di che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro; o forse anche di impostare un programma di ricerca più articolato e consapevole.

Indice dei nomi

Aguiari, Marinella; 72 Anderson, David W.; 144; 145; 146; 147; 163 Antonelli, Alessandro; 102; 103; 104; 105 Antonelli, Costanzo; 106 Arnheim, Rudolph; 25; 30 Barbier, Charles; 77; 78 Bentham, Jeremy; 42 Berkeley, George; 39 Berlanda, Alvar; 75 Bird, Sue; 54; 59; 86; 92 Bloom, Paul; 147; 148; 152 Borgo Medievale di Torino; 74; 99 Bousfield, Weston A.; 137 Braille, Louis; 77; 78; 79; 83; 125 British Museum; 54; 59; 86; 93; 98 Capozza, Dora; 139; 140 Civelli, Ester M.; 141; 142; 143; 144; 145; 146; 147; 163; 164 Collis, Glyn M.; 148 Cutsforth, Thomas; 5; 26; 127; 128; 129; 130; 132; 133; 134; 135; 136; 137; 138; 145; 146; 152; 153; 154; 155 D’Amicone, Elvira; 75; 85 Deese, James Earle; 137; 141

Demott, Richard M.; 136; 138; 139; 140; 141; 143; 144; 145; 146; 147; 163 Diderot, Denis; 36; 82; 90; 149 Dokecki, Paul; 136; 137; 138; 140; 141; 144; 145; 147; 160; 163; 164 Fidia; 54; 55; 56; 59; 60; 61; 86; 87 Frick, Katarine; 129 Gleitman, Lila; 147; 148; 149; 150; 151; 152 Gleitman, Lila; 147; 148; 149; 150; 151; 152 Gurioli, Cinzia; 73; 74 Harley, Randall K.; 153; 154; 155; 156; 158; 159; 160; 162; 163; 164 Haüy, Louis; 77 Hull, John Martin; 33

Jenkins, Ian Dennis; 54; 59; 86; 92 Keller, Hellen; 129; 130; 138 Kunz, Martin; 83 Landau, Barbara; 147; 148; 149; 150; 151; 152 Lasagno, Davide; 83 Leonardo da Vinci; 99 Levi, Fabio; 39; 45; 54; 73; 74; 75; 85; 86; 92; 103; 106; 149 Lloyd, Dorothy J.; 161 Locke, John; 147 Marconi, Diego; 142; 160; 161; 162; 163 Martinsen, Harald; 155; 156; 159; 162; 163 Mole Antonelliana; 102; 103; 104; 105; 106; 108; 109; 115 Molineux, William; 39 Morroi, Pasquale; 73

Museo Anteros (Bologna); 99; 119 Museo Correr (Venezia); 98

Museo Egizio (Torino); 75; 85; 86; 92; 97; 119 Museo Nazionale del Cinema (Torino); 5; 102;

109; 110; 115

Museo Omero (Ancona); 85; 118 Nelson, Katherine; 152

NISE [National Institute of Special Needs Education]; 119