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Descriviamo ora brevemente le funzioni delle informazioni testuali associate alle immagini a rilievo, che possono essere registrate su supporto audio o trovarsi direttamente sul foglio, accanto alle figure, in forma di legenda e altro:

a) il testo descrive le figure, evidenziandone gli elementi costitutivi e sottoli- neando le relazioni tra di essi;

b) il testo guida le mani del lettore nell’esplorazione tattile delle figure, se- guendo un itinerario specifico a seconda dei casi che può ad esempio pro- cedere da una prima considerazione dell’insieme fino all’analisi dei singoli elementi che le compongono;

c) il testo aggiunge informazioni a quelle proposte attraverso il disegno, allo scopo di dare significato e spessore alle figure, con una particolare attenzio- ne a ciò che l’immagine in rilievo da sola non può comunicare, come i colori e molto altro.

Vediamo adesso quali caratteristiche specifiche debba possedere un testo concepito per persone che non vedono:

a) le informazioni testuali devono essere precise, le definizioni devono essere espresse in modo accurato e i vari termini vanno usati con coerenza: a ele- menti uguali devono corrispondere definizioni uguali;

b) il testo deve essere strutturato in forma lineare, senza salti bruschi né sul pi- ano sintattico né su quello dei contenuti, e la sequenza del discorso deve corrispondere il più possibile alla sequenza che si suppone il lettore adotti nell’esplorazione delle figure;

c) il testo deve essere facile e accessibile anche a persone di giovane età e con un livello culturale non particolarmente elevato. Bisogna sempre tenere pre- sente, in altre parole, i possibili effetti di deprivazione culturale connessi, a volte, con la limitazione visiva;

d) il testo deve essere adeguato alla condizione specifica del lettore cieco. Più precisamente esso va tendenzialmente concepito a misura di persone che non vedono dalla nascita. Se si offre un’informazione mirata ai casi più dif- ficili è più facile rispondere alle esigenze di tutti.

Riguardo all’ultimo punto, occorre fare alcune precisazioni. Per realizzare un testo adeguato a chi non vede bisogna conoscere, almeno sommariamente, le dif- ficoltà più comuni che caratterizzano il rapporto dei ciechi con il linguaggio. Sto- ricamente l’attenzione al problema del linguaggio è stata condizionata da equivoci e pregiudizi. Per lungo tempo si è creduto infatti che fra ciechi e vedenti, quanto all’apprendimento e all’uso degli strumenti linguistici, non vi fossero differenze si- gnificative. Di conseguenza ci si è limitati a garantire ai ciechi l’accesso alle infor- mazioni testuali normalmente prodotte per i vedenti attraverso l’adozione di ac- corgimenti tecnici come il Braille o altre forme di scrittura in rilievo, la sintesi vo- cale, la barra adattata al computer, ecc.

Il solo vero problema dei ciechi con il linguaggio è sembrato essere per mol- to tempo il verbalismo, termine con il quale si sono indicati – e tuttora si indi- cano – due fenomeni distinti ma strettamente legati l’uno con l’altro. Il primo consiste nell’uso ricorrente di parole “vuote”, sterili cioè sotto il profilo seman- tico a causa delle ridotte esperienze cui possono riferirsi nel caso di individui gravemente limitati nella loro capacità percettiva. Il secondo consiste in un uso improprio delle parole: perduta la loro funzione di “parte del discorso”, di esse ci si serve unicamente per riempire il vuoto che la condizione di cecità spesso provoca in chi la subisce. Può trattarsi di un vuoto di esperienza, ma anche di un vuoto relazionale, dovuto alla difficoltà di stabilire rapporti sociali.

In realtà, però, il problema del rapporto tra cecità e linguaggio è assai più complesso e non può essere ridotto unicamente al verbalismo. Vi sono vari a- spetti della questione che andrebbero indagati più a fondo di quanto non sia stato fatto fino a oggi. Vediamone alcuni:

a) va segnalata in primo luogo una sostanziale estraneità di chi non vede – questo vale a maggior ragione per i ciechi dalla nascita – ai termini che si ri- feriscono più o meno direttamente alla dimensione del “vedere” oppure che alludono ai colori o alla luce;

b) a questo si aggiunge l’impossibilità di padroneggiare tutti i significati delle pa- role – che sono innumerevoli – con una specifica dimensione visiva;

c) la ridotta capacità di acquisire dati percettivi dalla realtà esterna può poi de- terminare una generale riduzione del patrimonio linguistico;

d) viceversa chi non vede, dovendo fare fronte a una grave limitazione nella sua possibilità di comunicare, può trovarsi costretto a sovraccaricare lo strumento linguistico. Si crea così una sorta di circolo vizioso: un linguaggio dalle poten- zialità assai ridotte è chiamato a soddisfare esigenze comunicative accresciute; e) il cieco tende ad oscillare tra un eccesso di concretezza, dovuto al fatto che i

significati si riferiscono per lui alle limitate esperienze vissute in modo diret- to e ravvicinato, e un eccesso di astrazione, dovuto invece al fatto che, come abbiamo già notato, le parole da lui utilizzate si riferiscono spesso a concetti generici e privi di un solido e ricco rapporto con la realtà. La persona cieca, in altre parole, costruisce una semantica a partire dalle esperienze ridotte che le è dato di vivere direttamente ma poi deve applicarla a una realtà molto più ampia, varia e lontana;

f) in assenza di alcune dimensioni essenziali del discorso, quali ad esempio la prossemica o l’insieme dei rimandi iconici tra le parole, la persona cieca deve fare particolare affidamento alla strutturazione e alla coerenza sintattica delle frasi.

Costruire testi adeguati alle capacità linguistiche di chi non vede significa dunque scontrarsi con una questione che ha sì molte facce diverse, ma rinvia in ultima analisi a una base comune e cioè alla drastica riduzione, provocata dalla deprivazione sensoriale, dell’esperienza che sta a fondamento del linguaggio e che è condizione necessaria per l’acquisizione delle competenze semantiche. Se questo è vero, per promuovere un uso del linguaggio da parte della persona cieca che sia non solo più corretto ma soprattutto ancorato a solide basi percet- tive, occorre accrescere le occasioni in cui le sia data l’opportunità di fare espe- rienze dirette. Ma occorre anche metterle a disposizione un numero crescente di rappresentazioni tattili utili a compensare, ma in una forma pregnante dal punto di vista percettivo, le inevitabili carenze di esperienza diretta; insieme a tutto questo vanno curate le relazioni fra quelle rappresentazioni e i possibili testi di accompagnamento. Curare tali relazioni significa fra l’altro:

a) evitare di proporre immagini prive di un testo di accompagnamento o con un testo che le descriva solo in parte. In un libro, ogni immagine deve essere

accuratamente spiegata, anche quando si tratti di immagini simili ad altre già descritte. Ciò che importa, infatti, è di evidenziare le differenze tra le figure, anche quelle all’apparenza meno rilevanti, al fine di offrire una rappresenta- zione della realtà che sia sempre la più ricca e la più varia possibile;

b) evitare di far prevalere il testo sull’immagine. Non bisogna cioè offrire in- formazioni testuali che non abbiano un corrispettivo preciso e facilmente in- dividuabile nelle figure. Le parole devono essere uno strumento di conoscen- za che operi in sinergia con l’immagine a rilievo e non una semplice fonte di suggestioni, un’occasione cioè per stimolare la sfera emotiva del lettore; c) evitare che nel discorso vi siano salti bruschi. Più esattamente il testo deve

rispettare al massimo i percorsi cognitivi che caratterizzano l’approccio del lettore cieco all’immagine a rilievo;

d) curare la proprietà lessicale e soprattutto utilizzare le parole rispettando i si- gnificati che si suppone i lettori ciechi attribuiscano loro. Non introdurre termini che siano palesemente in contrasto con l’universo sperimentato e sperimentabile dal lettore.