Possiamo distinguere fra due diversi punti di vista sulla cecità. Il primo è quello di chi subisce la minorazione visiva, l’altro è invece di chi vede la cecità dal di fuori. Si tratta di due punti di vista fortemente eterogenei l’uno rispetto all’altro, in quanto è molto difficile, per non dire impossibile, che chi sperimen- ta l’uno possa sperimentare adeguatamente anche l’altro. Non è viceversa im- possibile indagare e descrivere quei due diversi approcci creando in tal modo le condizioni per la comunicazione e il dialogo.
Consideriamo in primo luogo il punto di vista di chi guarda alla cecità dal- l’esterno. Come ho appena accennato, la differenza concerne in primo luogo la sfera dell’esperienza: la condizione esistenziale che per il vedente si avvicina di più alla mancanza della vista è l’esperienza del buio; una condizione che ha profondi risvolti nella sfera delle emozioni e che può essere indagata attraverso strumenti più propriamente psicologici. C’è poi una seconda opportunità, per chi vede, di maturare una propria consapevolezza, rafforzata dall’esperienza ma con valenze emotive forse meno marcate, sulla natura della minorazione visiva: essa consiste nel rapporto diretto con una persona cieca, con il suo modo di vi- vere e i suoi problemi particolari. Va segnalato infine un approccio ulteriore al- la cecità, anch’esso a suo modo radicato nell’esperienza: tale approccio consiste nel proiettare su quel mondo altro, sconosciuto, valori e pregiudizi mutuati dal- la propria vita individuale e mediati dalla cultura del proprio ambiente.
Passiamo ora a considerare l’altro punto di vista: quello di chi sperimenta la cecità in prima persona. Al riguardo è necessario sottolineare in primo luogo che, mentre individuare e definire il punto di vista di chi sta “fuori” sembra es- sere relativamente facile, descrivere quello di chi vive la cecità da “dentro” è as- sai più problematico; se il primo, infatti, si è sviluppato nel corso di secoli e se- coli lasciando testimonianze di sé nella letteratura, nella pittura, nel teatro e nel- la cultura in generale, il secondo ha assunto connotati riconoscibili solo più di recente, dal momento che i ciechi hanno iniziato a costituirsi come categoria sociale in grado di esprimere un autonomo orientamento riguardo alla propria condizione da non più di due secoli.
Eppure di quel punto di vista “dall’interno” non possiamo in nessun modo fare a meno; e questo nonostante esso debba scontare un limite intrinseco ine- liminabile: quello per cui – come abbiamo notato più di una volta – chi non vede incontra difficoltà non indifferenti a definire la propria condizione in rap- porto a quella, così lontana, dei vedenti. Con il mondo dei quali il cieco ha pe- raltro una frequentazione molto più stretta di quanto non accada viceversa; si tratta però di un rapporto vissuto per lo più in una posizione di inferiorità, tale quindi da alimentare in lui desideri e frustrazioni che finiscono per influenzare
la sua immagine di chi vede e, in un complesso gioco di proiezioni reciproche, anche di sé stesso e della propria cecità.
Più in generale possiamo arrivare a dire però che, al di là delle indubitabili differenze di fondo, nella realtà della vita la separazione fra quei due punti di vista è forse meno netta di quanto possa sembrare di primo acchito. In ogni società e in ogni periodo storico, tra ciechi e vedenti si stabilisce infatti una sor- ta di gioco di specchi, fatto – appunto – di proiezioni reciproche, in cui ognuno vede l’altro in relazione alle proprie aspettative più o meno realizzate; un gioco per effetto del quale si producono quasi sempre immagini ibride e cariche di contraddizioni. Così nel punto di vista che tende ad affermarsi fra i ciechi si possono rintracciare elementi importati dalla comunità dei vedenti; allo stesso modo nel punto di vista espresso dai vedenti si trovano elementi che derivano senza alcun dubbio dalla comunità dei ciechi.
Ciò non significa tuttavia che sia impossibile tentare un’analisi più puntuale e ravvicinata di entrambi. Vediamo, per iniziare, quali sono gli aspetti che stori- camente ricorrono con maggiore frequenza nelle immagini della cecità prodotte dai vedenti:
a) la cecità come luogo della paura: paura del buio, dell’impotenza, della morte; b) la cecità intesa come punizione di una colpa commessa dallo stesso cieco o da altri a lui vicini; tale motivo ricorre in culture e tradizioni religiose anche molto diverse;
c) la cecità intesa come facoltà di percepire la verità oltre le apparenze; un’idea questa che si esprime attraverso la figura del cieco veggente – si pensi anche solo all’indovino Tiresia – o quella di personaggi capaci di un rapporto privi- legiato con la divinità e con il trascendente; di essa c’è anche una versione lai- ca, che si limita ad attribuire al cieco una maggiore capacità di concentrazione o una più profonda e consapevole visione della vita: al riguardo non si può non ricordare, fra gli altri, il matematico Saunderson che Diderot ritiene capa- ce di svelare i «misteri della geometria in un modo sconosciuto ai vedenti»3. Quale atteggiamento assumere verso simili rappresentazioni? Esse vanno trat- tate come attraenti suggestioni poetiche o viceversa come fantasie destinate a imporre sui ciechi veri, in carne ed ossa, immagini cariche di pregiudizi e in ulti- ma analisi dannose? In realtà la cecità intesa come metafora per eccellenza dei limiti della conoscenza costituisce, per la sua fortissima capacità evocativa, una chiave di lettura straordinariamente efficace del mondo in cui viviamo. E sul ter- reno delle emozioni, la paura che essa suscita può diventare una via per sondare le profondità dell’inconscio. Anche sul piano dei simboli è possibile percorrere
sempre nuove strade alla ricerca dei significati più profondi del reale. Ma è so- prattutto intorno alla metafora del visibile e dell’invisibile che nel corso del tem- po hanno preso forma interrogativi ineludibili: ha senso ad esempio stabilire una gerarchia precostituita fra vedere e non vedere? È possibile attingere a una verità più vera e profonda oltre il visibile? Attraverso quali strumenti della percezione non visiva, della conoscenza o della sensibilità è possibile praticare quel mondo altro? Interrogativi come questi non aiutano forse ad accomunare in un’unica prospettiva umana il mondo dei vedenti e il mondo dei ciechi e magari anche di impostare in una forma meno piatta ed empirica lo studio della specifica condi- zione del cieco?
Ma spostiamoci ora sull’altro versante e soffermiamoci sugli elementi che ricor- rono con maggiore frequenza nelle immagini della cecità prodotte dai ciechi. Preci- sando però – già lo si è accennato – che dello sviluppo di un punto di vista auto- nomo dei ciechi sulla propria condizione è possibile parlare da non più di due se- coli e, per essere precisi, da quando si sono verificati due fatti, di rilevanza cruciale e in stretta relazione l’uno con l’altro, che hanno consentito un progressivo accesso dei ciechi alla vita pubblica. Mi riferisco da un lato all’invenzione e alla diffusione in Europa e non solo della scrittura Braille nel corso dell’Ottocento e, dall’altro, alla nascita sempre nel XIX secolo degli istituti di educazione e, dopo la prima guerra mondiale, delle associazioni di categoria. Tali fattori hanno prodotto nel tempo un nuovo sistema di relazioni sociali nel quale i ciechi hanno via via assunto un ruolo da coprotagonisti e hanno così potuto esprimere in modo autonomo, per la prima volta, propri punti di vista su sé stessi e sulla cecità.
Vediamo al riguardo quali sono i motivi più ricorrenti:
a) i ciechi non sono individui impotenti o incapaci, ma neppure esseri dotati di facoltà eccezionali così come l’arte, la letteratura e il senso comune hanno affermato per secoli;
b) i problemi dei ciechi, pur nella loro gravità indiscutibile, non hanno nulla di straordinario e di incommensurabile; anzi, essi possono e devono essere af- frontati e risolti come tutti gli altri problemi;
c) per i ciechi è giusto rivendicare un trattamento analogo a quello riservato ai vedenti. Anche se il principio di eguaglianza è stato oggetto, soprattutto nel passato, di interpretazioni diverse a seconda dei vari periodi: per un certo tempo, ad esempio, l’uguaglianza dei diritti è stata confusa con l’obbligo, per i ciechi, di fare le stesse cose dei vedenti. Ciò ha prodotto, in molti casi, vere e proprie forzature – al limite della violenza non solo psicologica – perpetrate ai danni delle persone cieche allo scopo di renderle altrettanto abili dei vedenti. Più di recente invece, nel principio di uguaglianza si è cominciato a riconosce- re in prevalenza un’istanza di integrazione: la necessità cioè che non fosse messa in questione la piena parità di diritti e che il cieco fosse trattato nel ri-
spetto delle sue specificità, senza costringerlo ad acquisire per forza le stesse abilità e le stesse competenze – sociali, culturali ecc. – del vedente.
Definita dunque l’esistenza di due diversi approcci alla cecità, frutto di e- sperienze differenti e precisatisi in condizioni e con tempi diversi, cerchiamo di capire se tra di essi vi sia una qualche relazione possibile. Proviamo innanzitut- to a considerare la distanza che separa quei due punti di vista. Un buon metro può essere quello della fatica, che gioca un ruolo importante su entrambi i ver- santi: da un lato la fatica del vedente posto in vario modo di fronte alla cecità e costretto a confrontarsi, pur da una posizione di evidente vantaggio, con una realtà impossibile da sperimentare direttamente, con una problematica dura e destabilizzante, e con interrogativi di portata straordinaria. Dall’altro la fatica non sempre dichiarata del cieco, che lo accompagna giorno dopo giorno anche nelle attività più banali e che può generare diffidenza, e quindi lontananza, in chi guardi a lui e alla sua cecità dall’esterno, trascurando la sua sofferenza, e magari permettendosi atti o apprezzamenti viziati dal pregiudizio.
C’è però anche, oltre la distanza, un elemento in comune fra quei due punti di vista: il fatto cioè che entrambi si misurano con una realtà estrema, di fronte alla quale ci si trova tutti, vedenti o meno, in difficoltà, quasi come bambini resi simili dalla propria inadeguatezza di fronte a un problema troppo grande.
C’è infine una sorta di parallelismo, premessa forse di possibili convergenze. Si impone da un lato lo sforzo di scavare nella condizione di chi non vede allo scopo di contrastare la sottovalutazione delle conseguenze indotte dall’handicap e l’indifferenza che spesso ne deriva. Così pure può manifestarsi un impegno similare a indagare oltre la superficie del visibile nell’intento di superare un’a- naloga ma differente tendenza a banalizzare la realtà: quella di chi non riesce ad andare oltre l’immediatezza della mera apparenza.
Entrambi quegli sforzi, non necessariamente compiuti il primo solo da chi non vede e il secondo solo da chi vede, dovrebbero poter convergere assogget- tandosi a un imperativo comune: quello cioè secondo il quale il non vedere o il non visibile non debbano essere considerati necessariamente come una man- canza, un’assenza.
Così pure, se si cerca di andare più a fondo nell’analisi del problema costituito dalla cecità nelle sue diverse implicazioni, fuggendo forme troppo superficiali di conoscenza, la distanza tra il punto di vista interno e quello esterno potrà essere in parte ridotta. Affinché ciò davvero avvenga, è necessario però che su entrambi i versanti si prenda finalmente sul serio l’altro punto di vista, senza rifiutare a priori anche aspetti e idee che possono apparire sgradevoli o pregiudiziali. Il pre- giudizio, infatti, può anche essere considerato come una forma preliminare di conoscenza, utile quantomeno a istituire un primo canale di comunicazione tra universi a prima vista molto lontani tra loro.