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Agricoltura e sviluppo capitalistico nella Toscana moderna

Nel Settecento, le campagne toscane appaiono caratterizzate da un assetto diventato omogeneo nella maggior parte della regione (escluse le pianure litoranee fino alla Maremma e le campagne da Lucca in su) con l’espansione dello Stato mediceo e della proprietà fiorentina: un assetto basato sulla coltura promiscua e sull’appoderamento mezzadrile, in cui i poderi appartengono per lo più a grandi proprietari terrieri. La stessa terra appartenente ad enti laici o ecclesiastici, nonostante la presenza di forme enfiteutiche e di livello, è “largamente riorganizzata secondo il modello mezzadrile-poderale toscano”119

. In effetti, lungi dal verificarsi alcun processo di superamento della mezzadria, si arriva ad un suo rafforzamento e ad una sua ulteriore espansione: anche i nuovi proprietari organizzano la produzione agricola sulla base di poderi affidati a nuclei familiari di mezzadri. Il rapporto mezzadrile, dunque, diventa sempre più il rapporto di produzione maggiormente diffuso in Toscana, anche perché si estende a terre fino a questo momento non coltivate oppure poco coltivate ed affidate solo a piccoli livellari o mezzaioli. Nei primi decenni dell’Ottocento viene elaborato un vero e proprio «mito della mezzadria»: tale «mito» parla di un giusto patto societario fra proprietari e contadini, impegnati concordemente in un’impresa che solo così può dare il massimo prodotto possibile (con vantaggio di entrambi i «soci»), attribuendo ad esso meriti quali la garanzia dell’equilibrio sociale, della pacifica convivenza civile e dei tradizionali valori morali e sociali, “a fondamento di un assetto politico moderato, con le sue componenti essenziali, di rispetto dell’ordine da un lato e di un uso paterno

119 M. MIRRI, «Contadini e proprietari nella Toscana moderna» in Contadini e proprietari. Atti del convegno di

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dell’autorità dall’altro”120

. Tale «mito» viene costruito “da un gruppo dominante di «campagnoli», mossi da precise preoccupazioni politiche e sociali e ricorrendo a coerenti assunti ideologici, di matrice sismondiana, in risposta ad analisi delle condizioni dell’agricoltura e delle prospettive di sviluppo del paese, avanzate, con accento critico verso il tipo di rapporti di produzione più diffusi, da una parte non marginale di intellettuali, a cominciare da un Aldobrando Paolini, un Leonida Landucci e un Vincenzo Salvagnoli”121

. Anche Carlo Bertagnolli, nel 1877, critica i dominanti rapporti mezzadrili osservando che essi sono incompatibili alla lunga con una economia di mercato moderna e attendendosi la loro scomparsa in seguito alla crescita dell’industrializzazione e della quota di popolazione non dedita all’agricoltura. Qualche anno più tardi è Stefano Jacini, istitutore di un confronto fra critici ed esaltatori della mezzadria nel 1884, ad esprimere un parere decisamente critico nei confronti del sistema mezzadrile, di cui sottolinea “le caratteristiche di contratto adattabile, semmai, ad uno stadio di mediocrità… nello sviluppo dell’economia rurale”122

; e agli inizi del Novecento pure Arrigo Serpieri, poi passato al fascismo, rifiuta il «mito» della mezzadria, sottolineando i costi economici e sociali della permanenza dei rapporti mezzadrili in Italia. Questo «mito» viene ripreso dal regime fascista che cerca “di dargli nuova credibilità, all’interno del suo tentativo di valorizzazione di una Italia rurale, per un verso sana, custode di valori morali e patriottici, e per l’altro verso autarchica, economicamente sicura ed equilibrata”123

. Ancora nel secondo dopoguerra, il «mito della mezzadria» permane nella storiografia, dove presenta la condotta politica del gruppo dirigente toscano dell’Ottocento come moderata, equilibrata e liberale. Quello che però contrasta con tale mito, “non solo con ogni sua possibile riproposizione

120

M. MIRRI, op. cit., p. 32.

121 Cit. ivi, p. 37.

122 S. JACINI, I risultati della inchiesta agraria, relazione pubblicata negli Atti della Giunta per la Inchiesta

agraria, con introduzione di G. Nenci, Torino 1976, pp. 48-52, citato in M. MIRRI, op. cit., p. 38.

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al livello politico, ma anche con la sua utilizzazione in sede storiografica”124

, è l’avvertire le forti tensioni che attraversano la realtà contadina toscana negli anni Cinquanta del Novecento, il constatare la ripresa delle lotte delle classi nelle campagne con la centralità assunta, in tale ambito, dalla “questione del contratto mezzadrile e la discussione su possibili nuove quote di riparto o addirittura sul possibile superamento di questo tipo di contratto”125

. Inoltre, in questo periodo, il contadino, mitizzato come «socio» del grande proprietario toscano nell’ottica di realizzare un equilibrato sviluppo economico-sociale, ha una volontà di cambiamento radicale, sia dal punto di vista politico che da quello sociale: a conferma di ciò sta il netto orientamento a sinistra dell’elettorato contadino toscano, tanto alle elezioni politiche quanto a quelle amministrative. Dal canto loro, gli studiosi manifestano una decisa volontà di rinnovamento storiografico, prendendo nettamente le distanze non solo dalla retorica patriottica e dal vitalismo fascista, ma anche dai canoni interpretativi di una storiografia etico- politica affermatasi e divenuta spesso “solo storia di intellettuali o, al massimo, di gruppi dirigenti, non adeguatamente valutati in rapporto alle tendenze economiche oggettive e alla evoluzione dei rapporti di classe”126

. Proprio l’esigenza di rinnovamento spinge molti di questi intellettuali del secondo dopoguerra, che trovano nel marxismo uno strumento di interpretazione ed indagine della realtà, ad “impegnarsi in ricerche sul Settecento italiano, con un taglio di storia economica e sociale”127

: per capire i problemi del nostro Paese, il suo assetto economico e l’evoluzione dei rapporti fra le classi sociali al suo interno (ovvero gli elementi da cui matura la crisi della classe liberale), bisogna infatti “risalire ben indietro nel tempo e ricostruire tutti i processi a partire dalle condizioni di partenza”128

. E il punto di partenza viene individuato dagli intellettuali del secondo dopoguerra proprio nel Settecento, ritenuto come il

124

Cit. ivi, p. 40.

125 Ibidem.

126 M. MIRRI, op. cit., p. 16. 127 Ibidem.

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momento in cui il nostro Paese esce da una prolungata fase di decadenza e si riavvicina all’Europa, “manifestando una singolare vivacità in tutta la vita civile, una notevole mobilità ed acutezza intellettuale, e persino una generale ripresa di vita economica”129

.

All’inizio degli anni Cinquanta, Emilio Sereni offre degli spunti importanti per poter giudicare la mezzadria e il suo ruolo nello sviluppo economico-sociale della Toscana: punto di partenza delle considerazioni è il ritenere la diffusione della mezzadria in Toscana come il risultato dei nuovi rapporti tra città e campagna, stabilitisi in una fase di forte sviluppo della società cittadina, artigiana e mercantile dei Comuni medioevali. La diffusione della mezzadria, in tale contesto, andrebbe dunque considerata come una fase di transizione da un’economia naturale o seminaturale, ad un’economia in cui la produzione per il mercato acquista una importanza sempre maggiore; nel rapporto di produzione mezzadrile, pertanto, sarebbero evidenti gli elementi di «passaggio» da una rendita di tipo precapitalistico, ad una rendita fondiaria capitalistica. Per Sereni, gli elementi di passaggio sono ravvisabili nel fatto che nella mezzadria la “produzione per il mercato è assicurata da una rendita in natura non ancora trasformata in una rendita in denaro”130

. Tali considerazioni vengono esposte dal Sereni in un saggio su Giuseppe Giusti131 (tra l’altro, ampiamente datato); in questo saggio, tuttavia, la questione su cui il Sereni insiste di più è la possibilità di individuare un arresto dello sviluppo avviato, una vera e propria recessione che coinvolgerebbe l’economia mercantile cittadina. In tale ambito, il passaggio dalla rendita in natura alla rendita in denaro non si sarebbe realizzato e la mezzadria sarebbe rimasta cristallizzata sulle sue caratteristiche di «transizione»; dunque, volendo dare una valutazione alle condizioni dell’agricoltura nella Toscana moderna, caratterizzata dal prevalere dei rapporti mezzadrili, si può dire che se da un lato l’attività agricola continua con le

129 Ibidem.

130 M. MIRRI, op. cit., p. 41.

131 E. SERENI, Attualità del Giusti. La cultura toscana del ’48 e il significato della mezzadria, in AA. VV., Il

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proprie «tecniche intelligenti», dall’altro essa è costretta nei limiti di una economia «statica», in netto contrasto con l’economia degli altri Paesi europei che si evolvono in senso capitalistico. Sereni, comunque, non indica concretamente le contraddizioni e le mancanze del rapporto mezzadrile: egli non si propone di affrontare le vicende dell’economia toscana nel saggio sul Giusti, ma soltanto di accennare a tale argomento, come premessa per analizzare i rapporti sociali della Toscana nel XIX secolo e le condizioni che da essi derivano alla lotta politica. Sereni fa riferimento al modello marxiano di «rivoluzione borghese»132: egli, infatti, si propone il problema di individuare il gruppo di forze sociali capace di dar vita ad una «rivoluzione borghese» nella Toscana ottocentesca. Sereni ritiene che la piccola borghesia possidente (laica, progressista e «moderatamente» democratica) avverta le contraddizioni economiche e sociali del sistema mezzadrile, gli ostacoli posti allo sviluppo dell’agricoltura e l’eccessivo sfruttamento del mezzadro; essa potrebbe guidare una «rivoluzione borghese», una lotta politica in grado di condurre ad un nuovo ordinamento politico da cui deriverebbe una politica economica “atta a favorire ed accelerare lo sviluppo della borghesia e del capitalismo, a cominciare dalla eliminazione di ogni «residuo feudale»”133

. Per realizzare tutto ciò, contrapponendosi vittoriosamente al ceto dei grandi proprietari terrieri, la piccola borghesia dovrebbe, secondo Sereni, porsi alla testa di un blocco di forze sociali comprendente anche le classi popolari, artigiane e contadine. Invece la borghesia toscana non assume tali posizioni e rimane soverchiata dalla classe dei grandi proprietari fondiari; ciò avviene perché essa vede assicurato il proprio

status sociale anche dalla proprietà della terra e dei poderi condotti a mezzadria,

e non solo dalle professioni cittadine: la borghesia non può dirigere un insieme di forze in grado di stravolgere i rapporti sociali da cui trae il suo status e quindi attua un compromesso con le vecchie classi dominanti. In sostanza, Sereni

132 C. HILL, La guerra civile in Marx e in Engels, in Saggi sulla rivoluzione inglese del 1640, a cura di C. Hill,

Milano 1957, pp. 393-419 citato in M. MIRRI, op. cit., p. 42.

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adatta “alla storia sociale e politica della Toscana (e dell’Italia) dell’Ottocento uno schema di «rivoluzione borghese mancata», analogo ad altri, largamente utilizzati, del resto, nella pubblicistica e nella storiografia di ispirazione terzinternazionalistica”134

; tale problematica, nella maggioranza degli studi che la utilizzano, sollecita una ricostruzione piuttosto sommaria dei processi economici, “dato che essa induce a privilegiare l’analisi delle fasi successive della lotta politica, nelle sue connessioni con le contemporanee lotte delle classi”135

. Troppo spesso, in ricostruzioni schematiche di periodi della storia moderna e contemporanea, viene indicato soltanto quello che la borghesia non fa come conseguenza del non proporsi un programma veramente rivoluzionario,

non volendosi presentare come guida di una forza popolare unitaria; tali

considerazioni sembrano “più che la ricostruzione di processi complessi, la immediata proiezione, sotto specie storiografica , di polemiche politiche attuali, di critiche ai programmi e alle velleità politiche di forze piccolo-borghesi con le quali ci si scontra nel presente”136

. In tali ricostruzioni compare la tendenza ad evidenziare quello che non avviene, a dare giudizi solamente in negativo, “come conseguenza di un confronto fra aspetti o momenti del passato con uno schema ideale di sviluppo, con un modello teorico, assunto come un dover essere”137

: si rileva così che quello schema non viene rispettato e dunque si giudica tutto quello che avviene in modo negativo. Appare invece più opportuno capire in maniera positiva quali siano i processi attraverso cui si costituisce un fronte egemone in grado di guidare un determinato sviluppo politico, come si afferma una determinata realtà socio-politica in grado di condizionare le vicende successive “fino a spiegare le tensioni e le caratteristiche del presente, in cui viviamo”138 . 134 Cit. ivi, p. 44. 135 Ibidem.

136 M. MIRRI, op. cit., p. 45. 137 Cit. ivi, p. 46.

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Espressione di un sistema socio-economico egemonizzato della vecchia aristocrazia fondiaria, la mezzadria viene considerata da molti autori, sulla base di quanto detto dal Sereni nell’articolo sul Giusti, una forma di passaggio dalla rendita in natura a quella in denaro, un rapporto di produzione affermatosi in un’epoca precoce di sviluppo del capitalismo e caratterizzatosi “come una di quelle forme «statiche», proprie di un’economia agraria «cristallizzata e tipicizzata in una fase intermedia», nella quale è facile riconoscere «i motivi di una insufficienza e di un contrasto»”139

. Tuttavia, se si sposta l’attenzione sul lungo periodo, non possono essere trascurate le importanti differenze riscontrabili nelle condizioni delle campagne toscane a seconda delle epoche: nel corso del tempo, dunque, si verificano importanti mutamenti sociali ed economici, nonostante la presenza preponderante dell’assetto mezzadrile. Appare perciò opportuno chiedersi, da un lato, entro quali limiti cambi la funzione della mezzadria nell’ambito economico e sociale delle varie epoche e, dall’altro, entro quali limiti la campagna toscana contribuisca alla trasformazione di tale ambito, attraverso mutamenti riguardanti il sistema mezzadrile. Inoltre, bisogna rilevare che parte di quelli che vengono considerati ostacoli allo sviluppo economico, dipendenti dalle caratteristiche del rapporto mezzadrile, sono ricavati principalmente dal confronto con meccanismi diffusi in aree particolarmente progredite di altri Paesi europei o della stessa penisola italiana: è il caso, per esempio, della Val Padana, dove già all’inizio dell’età moderna sono presenti dei meccanismi che, diffusisi largamente a partire dalla fine del XVIII secolo, permettono di riconoscere ad Ottocento inoltrato gli elementi tipici del «capitalismo delle campagne», impostosi sul modello della

high farming140. Pertanto, un tale tipo di confronto porta a concludere che la

mezzadria assuma delle caratteristiche che rappresentano dei veri e propri ostacoli alla diffusione in Toscana di imprese agricole gestite da imprenditori

139 M. MIRRI, op. cit., p. 92.

140 Si definisce high farming la forma di coltivazione, diffusasi tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento,

che prevede l’introduzione di nuove tecniche agricole e di nuove colture, l’estensione delle colture in generale e delle terre coltivate e numerosi investimenti, al fine migliorare la produzione agricola.

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capitalisti sul modello della high farming: imprenditori “capaci di investire e di produrre, sulla base di una «rivoluzione agricola» orientata alla integrazione fra cerealicoltura e produzione lattiero-casearia e attraverso l’impiego di mano d’opera salariata e di macchine, per un largo mercato in espansione”141

. Tuttavia, appare inopportuno utilizzare questo confronto con il modello della high

farming e giungere alla conclusione che la mezzadria oppone degli ostacoli

insormontabili a qualsiasi evoluzione in ambito agricolo, causando stagnazione ed immobilismo, sempre e comunque. Tale tipo di assunto presuppone una concezione della storia come processo unidirezionale e necessario: “si presuppone, cioè, che ci sia una unica via, prevista e prevedibile, dello sviluppo agrario”142

. Pertanto, secondo tale punto di vista, in ogni parte del mondo dovrebbe verificarsi un’ unica via al capitalismo, scandita da una serie di tappe predeterminate, fino al realizzarsi del modello della high farming: “si ammette, dunque, una legge necessaria, che in ogni area economica dovrebbe condurre alla semplice, automatica ripetizione sempre dello stesso processo evolutivo, lungo le stesse tappe”143. Con tali presupposti, il modello della high farming non è concepito come un punto di arrivo di linee di evoluzione caratteristiche di aree economiche specifiche che, nel corso del tempo, passano attraverso situazioni ogni volta piuttosto diverse l’una dall’altra; viene presupposta, appunto, una sola ed unica via all’affermazione del capitalismo. Decisamente più corretto è, invece, “ammettere che la diffusione su tutta un’area di rapporti capitalistici, sia da considerare un punto d’arrivo chiaramente definibile dove e quando sia empiricamente constatabile”144; pertanto, in luoghi e tempi differenti, il capitalismo si afferma attraverso percorsi e processi ogni volta diversi. Da un punto di vista metodologico, il confronto con il modello della high farming rappresenta un caso di confronto fra una situazione reale con un modello esterno ad essa, con qualcosa che dovrebbe verificarsi ma che non si verifica; da ciò

141 Cit. ivi, p. 97. 142 Ivi, p. 98. 143 Ibidem. 144 Ibidem.

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deriva la tendenza ad esprimere giudizi completamente negativi, proprio come fanno gli studiosi di storia politica che assumono come modello di riferimento quello della «rivoluzione borghese» per poter constatare un processo di «rivoluzione borghese mancata». Tali giudizi «storici» in negativo “in generale non sono che la conseguenza dell’applicazione di filosofie della storia, le quali presuppongano modelli di evoluzione unidirezionali e necessari”145

. Negli studi che presentano la mezzadria come una forma «cristallizzata» e stagnante, si giunge sempre alle conclusione secondo cui il rapporto mezzadrile sia proprio di una economia statica, in cui prevalgono ostacoli insormontabili allo sviluppo; si insiste sulla impossibilità di espansione delle forze produttive; si reputa inevitabile l’immobilismo sociale, con le classi popolari in condizioni misere che contrastano con la ricchezza delle classi dominanti, rivolte ai consumi lussuosi ed estranee ad investimenti produttivi consistenti. Chiunque fosse interessato ad individuare i cambiamenti nel lungo periodo, si troverebbe in difficoltà, basandosi su lavori di tale tipo: volendo abbracciare il periodo che va da metà Settecento a metà Novecento, infatti, incontrerebbe la ripetizione dello stesso giudizio per quattro epoche diverse, quando “in un confronto a distanza, per quanto sommario, tra un punto di partenza collocato intorno al 1750 ed un punto d’arrivo collocato intorno al 1950, è ben chiaro che verrebbero invece in primo piano profonde, radicali differenze”146

.

Quando avvengono questi mutamenti? È proprio Emilio Sereni a porre le basi di una discussione sulla questione dell’evoluzione della mezzadria in un suo lavoro, Il Capitalismo nelle Campagne, pubblicato nell’immediato dopoguerra; testo destinato a riscuotere minore fortuna rispetto all’articolo sul Giusti di cui si è detto, perché meno facilmente conciliabile con le impostazioni ricavate dagli scritti di Gramsci (che prendono il campo in Italia dopo la guerra) “con la loro insistenza sui temi della «rivoluzione agraria mancata», della «rivoluzione

145 M. MIRRI, op. cit., p. 99. 146

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borghese mancata» e del Risorgimento come «rivoluzione passiva»”147. Sereni ritiene che negli ultimi decenni del XIX secolo si verifichi nelle campagne toscane un processo di penetrazione del capitalismo, non tanto attraverso l’eliminazione dei tradizionali rapporti mezzadrili e la loro sostituzione da parte di imprenditori che assumono manodopera salariata, quanto piuttosto tramite la trasformazione della fattoria, causata dall’acquisto “di un moderno e cospicuo inventario agricolo da parte del proprietario terriero”148

. Sereni osserva che il rapporto fra proprietario e colono muta radicalmente quando il proprietario, motivato dalla necessità di fare concorrenza sul mercato nazionale ed internazionale, è spinto ad acquistare macchine ed altri mezzi di produzione per migliorare la sua azienda. In tale contesto, le risorse di cui dispone il colono non sono sufficienti per acquistare i potenti e moderni mezzi di produzione a metà col proprietario; pertanto, “mentre diminuisce rapidamente, così, la quota parte dei mezzi di produzione che il colono conferisce a metà col padrone, crescono ancor più rapidamente i capitali di esclusiva proprietà del proprietario terriero, trasformato ormai in capitalista agrario, che questi conferisce alla fattoria”149

. Secondo il Sereni, nuovi mezzi di produzione e nuovi servizi si concentrano nelle fattorie e la mezzadria, da patto societario in cui il colono divide il ricavato della terra a metà col padrone, diventa sempre più un semplice contratto di lavoro. Il tema della trasformazione della mezzadria e della comparsa di elementi di tipo capitalistico nell’agricoltura in Toscana viene ripreso da Emilio Sereni in un lavoro successivo, intitolato Storia del paesaggio agrario italiano: in esso l’autore si sofferma su fenomeni che si verificano agli inizi dell’Ottocento, quando i grandi proprietari terrieri sono spinti a riorganizzare le loro aziende ai fini di un ulteriore sviluppo e di una produzione più razionale; vengono pertanto effettuati consistenti investimenti di capitale per sistemare il terreno, intensificare la coltivazione, introdurre nuove colture e sperimentare

147 Ivi, p. 105.

148 E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne, Torino 1948, p. 329 citato in M. MIRRI, op. cit., p. 105. 149

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nuove rotazioni. Investimenti di stampo capitalistico vengo compiuti sia in pianura, dove si concretizzano “in un ulteriore sviluppo delle piantagioni, nella regolarità e nel perfezionamento delle opere di sistemazione idraulica, nell’estensione del paesaggio dell’alberata su nuove terre, nella costituzione di