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Magistrature annonarie e mercato agricolo

Nel medioevo un’istituzione tipica delle città comunali è quella preposta alla gestione delle attività annonarie. Tale istituzione nasce in concomitanza con la vittoria dei ceti popolari e l’aumento della pressione demografica ed è correlata “a obiettive necessità di alimentare, in condizioni di transiti e commerci lenti e difficili, una consistente fascia di popolazione non direttamente coinvolta nelle attività agricole”77

. A volte queste istituzioni hanno carattere temporaneo, legato alle crisi di produzione o di distribuzione dei prodotti agricoli; in tale contesto esse hanno il compito di controllare il mercato e l’andamento dei prezzi e di far arrivare in città il quantitativo di cereali necessario per alimentare la popolazione. In altri casi, queste istituzioni hanno carattere stabile e sono incaricate di assolvere anche ad altri compiti come il controllo della disponibilità, della qualità dei prodotti e dei loro rivenditori.

Una magistratura ordinaria di tale tipo, denominata in modo diverso a seconda delle epoche, viene creata a Firenze già verso la fine del Duecento. Successivamente, con Cosimo I, il controllo da parte del principe si fa più forte e l’autorità del Magistrato dell’Abbondanza e di quello della Grascia (le due istituzioni con compiti annonari) si estende a tutto lo «Stato vecchio».

Mentre una magistratura ordinaria riguardante l’Abbondanza esiste solo a Firenze, i centri più importanti dello Stato mediceo, tra cui anche Pisa, hanno delle Grascie locali che nei riguardi della Grascia fiorentina hanno dei rapporti di tipo subordinato.

Intorno alla fine degli anni quaranta del Cinquecento, come si è visto, Cosimo emana una serie di misure volte a riqualificare Pisa e promuoverne il contado, in

77 A. M. PULT QUAGLIA, «Mercato dei prodotti agricoli e magistrature annonarie a Pisa nell’età moderna», in

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concomitanza con lo sviluppo di Livorno. Alla deliberazione del 20 dicembre 1547, che favorisce il ripopolamento e la ripresa economica del pisano, si affianca tutta una serie di provvedimenti in favore dell’industria (specialmente quella serica) e del commercio; a tal proposito, in quello stesso anno, viene riaperto il mercato del bestiame e, nel 1548, viene concessa la libertà di importare ed esportare cereali forestieri. Vengono infine riformati il Magistrato dei Fossi, delegato alla sistemazione delle acque del territorio pisano, e il Magistrato della Grascia: quest’ultimo è composto, nel 1549, dal Commissario di Pisa e dal Provveditore di Mare e Dogana (cittadini fiorentini) più tre ufficiali di Grascia (cittadini pisani) aventi compiti sui prezzi e sui commercianti di prodotti alimentari in città e nel contado. L’istituzione dei grascieri risale al 1469; successivamente, nel periodo della guerra con Firenze, costoro vengono sostituiti dagli ufficiali di Abbondanza, in contrapposizione con la magistratura fiorentina omonima. Con la caduta di Pisa i grascieri vengono ripristinati e affiancati ai Consoli del Mare (magistratura che viene abolita temporaneamente nel 1549). Proprio i Consoli, insieme al provveditore di Mare e Dogana che li sostituisce fino al 1551, rappresentano uno strumento di controllo da parte dell’autorità fiorentina, controllo che nel 1549 si fa più stringente: la Grascia fiorentina ha il potere di intervenire qualora i grascieri pisani non assolvano ai propri compiti e deve essere informata di tutte le decisioni che vengono prese. Nel 1555, secondo quanto stabilito dagli Ordini nuovi sopra la Grascia di Pisa emanati proprio quell’anno, i tre grascieri e i due Consoli del Mare hanno facoltà di prendere decisioni sui prezzi dei prodotti, controllare il mercato ed i fornai e punire gli eventuali trasgressori (anche il Commissario, però, ha giurisdizione nelle cause). Consoli e grascieri devono anche scegliere quattro garzoni preposti al controllo dell’osservanza delle leggi. È prevista inoltre la nomina da parte del duca di un provveditore (cittadino pisano) e di un cancelliere, entrambi cariche che non hanno limiti di tempo. La novità rispetto al passato è proprio la figura del provveditore che diventa “uno dei portavoce più

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importanti in materia annonaria a Pisa”78: la crescente importanza del suo ruolo emerge dall’attenzione che il principe dimostra nello scegliere persone competenti ed esperte.

Che la Grascia pisana sia strettamente controllata da Firenze lo si ricava non solo dalla presenza dei Consoli del Mare e del provveditore ma anche dal fatto che negli Ordini del 1555 si affermi la superiorità della Grascia di Firenze e che nel 1563 il provveditore della magistratura fiorentina indichi ai pisani i criteri da seguire nello stabilire i prezzi di vari prodotti agricoli. Per quanto riguarda i rapporti che legano la Grascia di Pisa al contado si nota che l’autorità della magistratura nel territorio pisano è un dato di fatto tranne che nel periodo successivo alla riconquista da parte dei Fiorentini: se nel 1510 i compiti dei grascieri sono limitati alla città, nel 1514 essi vengono estesi al contado (i due vicariati di Lari e Vicopisano con relative podesterie più il capitanato di Campiglia). A volte alcune comunità del contado si rifiutano di riconoscere l’autorità della Grascia pisana: nel 1569, per esempio, a Palaia si decide di concedere ad un solo fornaio l’appalto per la fabbricazione del pane, “affidando la giurisdizione sulle eventuali trasgressioni al proprio potestà e agli Ufficiali della Grascia di Firenze”79

. E anche se alla fine della vicenda la comunità riconosce l’autorità della magistratura pisana, ciò non esclude l’intervento da parte della Grascia o dell’Abbondanza fiorentine, un intervento mal tollerato da parte dei magistrati pisani.

Non è soltanto attraverso lo studio della Grascia pisana e del suo operato che è possibile comprendere il funzionamento del sistema annonario di Pisa e contado; anche il Magistrato dei Nove ovviamente, occupandosi delle questioni amministrative e dei rapporti con le comunità, interviene frequentemente su problemi di natura annonaria. Esso si adopera per risolvere situazioni critiche dal punto di vista degli approvvigionamenti dei prodotti agricoli o quando bisogna organizzare i cosiddetti «monti» del grano: quest’ultimo provvedimento

78 A. M. PULT QUAGLIA, op. cit., p. 67. 79

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consiste “nel far consegnare in ogni podesteria, da parte dei proprietari, uno staio per ogni moggio della loro quota di raccolto, detratti i semi e gli eventuali aggravi”80

. Il grano viene consegnato a persone scelte dai rettori locali che lo pagano ai proprietari, e può essere venduto a prezzi moderati o prestato alla semina e restituito, in uguale quantità, al momento del raccolto; se non vi è occasione di utilizzare questo grano, esso viene restituito al proprietario. Tale provvedimento risulta sgradito non solo alle comunità, a causa dei costi di conservazione, ma anche ai proprietari a cui vengono imposti prezzi più bassi di quelli del mercato e pagamenti dilazionati.

Un provvedimento sicuramente più radicale è quello dello «sgombero»: in tal caso, tutti i produttori sono costretti a portare i propri raccolti (tranne la quantità da impiegare per la semina e per il fabbisogno di alcuni mesi) a Pisa o a Livorno, consentendo così al governo un controllo diretto sulla produzione agricola. Ovviamente, nei momenti di crisi i provvedimenti adottati aumentano e, contemporaneamente, si moltiplicano gli organismi o gli individui aventi il compito di risolvere l’emergenza. Anche lo Scrittoio delle Possessioni (che si occupa dell’amministrazione delle proprietà granducali) può pertanto intervenire in campo annonario, riversando sul mercato cittadino o prestando alle comunità del contado la produzione delle aziende statali, nei momenti di scarsità o di prezzi troppo alti.

Più stabile l’intervento da parte dell’Abbondanza di Firenze: compito della magistratura è quello di garantire la disponibilità di cereali nello Stato e perciò essa costituisce delle scorte, comprando in diverse zone dello Stato medesimo subito dopo il raccolto (in anni particolarmente difficili, i grani vengono acquistati all’estero). Ad effettuare gli acquisti sono dei «ministri», in genere mercanti che uniscono tale funzione pubblica alla loro attività privata; questi agenti sono in genere remunerati con una provvigione sugli acquisti, che spesso rimangono in loro possesso: i ministri, a causa della loro collocazione

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decentrata, servono all’Abbondanza anche come punto di riferimento per lo smistamento del grano. La distribuzione delle scorte può essere effettuata anche tramite altre magistrature come a Pisa nel 1672, quando a consegnare il grano alla comunità affamata dalla carestia è il Magistrato dei Surrogati.

Figura di spicco tra i vari ministri dell’Abbondanza è quella di Jacopo Ricciardi, il quale opera a Pisa tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento. Mercante e prestanome per le imprese mercantili di Ferdinando, egli svolge anche l’incarico di ministro dell’Abbondanza; ed è proprio in tali vesti che egli lascia un importante carteggio con il Granduca ed i collaboratori di quest’ultimo, a cui fornisce dati e previsioni riguardanti la situazione annonaria pisana. Si tratta di lettere a volte anche brevi ma che rivelano una conoscenza approfondita della situazione economica di Pisa e contado: dalle informazioni sulla coltivazione del riso a Bientina e Vecchiano, alle notizie sulla resa a seme dei raccolti, alle attenzioni per i malumori della popolazione “che si leva con ogni poco di causa”81

. Il carteggio del Ricciardi, dunque, fornisce una serie di testimonianze molto interessanti e mostra come l’Abbondanza si serva dei ministri per avere informazioni ed intervenire: questi ultimi formano una rete “più agile e più duttile e perciò più idonea ad operare in campo commerciale, che non le magistrature locali”82.

L’ultimo organismo che opera in ambito annonario è la Biscotteria di Livorno, azienda governativa in cui si fabbrica biscotto e pane per l’equipaggio delle navi statali e per i forzati del bagno penale. Ad amministrare l’azienda e a dirigere l’acquisto dei grani è un ministro, mentre la lavorazione spetta a schiavi e forzati, sotto la direzione di alcuni fornai. Le quantità di cereali trattate dalla Biscotteria sono consistenti perché quest’ultima, oltre alla sua attività istituzionale, acquista e tiene in deposito grani per conto di altri enti come l’Abbondanza, lo Scrittoio delle Possessioni, l’amministrazione del pan fine di

81 Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 2586, c. 56r citato in A. M. PULT QUAGLIA, op. cit.,

p. 78.

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Pisa. Il grano acquistato proviene soprattutto dalla Maremma ma anche dalla Sicilia e dalla Provenza.

Per quanto riguarda il mercato del grano a Pisa bisogna dire che l’Opera del Duomo, istituzione costruttrice della primaziale e responsabile della manutenzione di quest’ultima, aveva ottenuto già prima della conquista fiorentina il diritto a riscuotere una tassa sui grani importati, tassa che successivamente si estende a tutte le quantità di grano e biade esitate a Pisa e nel contado. Per garantire una migliore riscossione di tale tassa, viene imposto che tutte le contrattazioni cittadine avvengano nella piazza del grano (luogo in cui oggi sorge la Sapienza). Proprio la costruzione della sede universitaria pisana alla fine del Quattrocento rende necessario trovare un’altra collocazione per il mercato del grano: vengono pertanto acquistati fondi nell’area dell’attuale piazza delle vettovaglie, dove però il mercato si insedia solo a partire dal 1548. Se nel XV secolo l’Opera non riesce a riscuotere con continuità l’imposta sulle misurazioni dei grani, la situazione non migliora con il ritorno dei Medici dopo la guerra contro Firenze; è solo nel 1548 che, nell’ambito di una serie di interventi legislativi specifici per Pisa, gli agenti dell’Opera riescono ad incamerare la tassa. Tale provento viene però appaltato e agli appaltatori viene anche affidato il compito di registrare i prezzi, incombenza in precedenza demandata agli agenti dell’Opera. Tramite bando del Commissario e del Provveditore del Mare di Pisa, viene stabilito che la vendita di grano, biade, farina e legumi avvenga soltanto nella nuova piazza del grano o “presso i biadaioli affittuari dei magazzini esistenti sulla piazza, di proprietà dell’Opera, dietro pagamento di 4 denari per sacco (2 per la tassa dell’Opera e 2 per il misuratore)83. Il mercato si tiene il mercoledì e il sabato, mentre negli altri giorni gli acquirenti possono comperare presso i biadaioli: le altre botteghe cittadine vengono autorizzate alla vendita di biade e legumi ma non di grano e farina. Gli

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acquisti più consistenti, limitati comunque dalla legge sulle incette84, possono avvenire tramite transazioni fra produttore e consumatore, o attraverso la mediazione di sensali. La figura del mediatore contribuisce all’aumento dei prezzi: pertanto i sensali, nei momenti di difficoltà, devono essere approvati dai Consoli del Mare i quali ne limitano il numero; in caso di grave carestia, viene revocata loro la licenza. Nell’ultimo ventennio del Cinquecento, nei registri dei prezzi del mercato, si annotano per alcuni anni anche le partite e i prezzi trattati dai sensali, in modo da assicurare la tassa dell’Opera; in seguito, però, tali registrazioni non vengono più effettuate e ciò favorisce l’evasione della tassa sui grani, evasione che risulta ancor più diffusa nel contado.

Oltre alle disposizioni che tutelano i diritti dell’Opera, nel regolamento del mercato cittadino pisano ve ne sono altre volte ad evitare rialzi improvvisi dei prezzi: è infatti vietato comprare al mercato per poi rivendere ed è spesso proibito accedervi a fornai e farinaioli (anche se, a volte, costoro possono accedere al mercato dopo alcune ore dal suo inizio) per evitare che l’acquisto di grossi quantitativi causi dei bruschi rialzi. Se si tiene conto che enti religiosi, comunità e proprietari terrieri consumano i prodotti delle proprie terre e che si ricorre al fornaio frequentemente, si arriva a concludere che il mercato di Pisa non è eccessivamente frequentato. Dai dati delle senserie, risulta che ad acquistare sono soprattutto fornai e farinaioli di Pisa, Livorno e del contado; inoltre, scorrendo i registri delle vendite dei grani dell’Opera del Duomo, emerge che l’istituzione pisana vende a privati in piccole quantità (ad eccezione del periodo 1582-1636), remunera in natura scultori, fabbri scalpellini e rifornisce fornai e biadaioli con quantitativi consistenti. Negli anni in cui la produzione è abbondante, come nel penultimo decennio del Seicento, l’Opera chiede ed ottiene abitualmente l’autorizzazione ad esportare i grani. Anche per quanto riguarda i proprietari pisani è possibile verificare che soltanto piccole

84 La legge sulle incette impedisce ai privati di acquistare grano e biade in quantità superiori al fabbisogno di un

anno (un mese nei momenti critici). Fornai e mercanti, invece, possono acquistare un quantitativo pari al fabbisogno di 15 giorni (portato poi ad un mese nel 1636).

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quantità di cereali vengono vendute alla popolazione mentre la quasi totalità della produzione viene venduta a fornai e mercanti. Questi ultimi, sottoposti a controllo come i sensali, possono acquistare quantità di grani che non devono essere superiori al loro smercio di 15 giorni e, inoltre, subiscono “restrizioni o concessioni nella loro libertà di azione, a seconda dell’andamento produttivo”85

. Sulla piazza del grano, probabilmente, affluiscono le eccedenze dei piccoli produttori locali, oppure una parte del prodotto del contadino che ha bisogno di denaro, o i quantitativi dei mercanti che non trovano acquirenti più importanti. Accade pertanto che il mercato risulti sprovvisto verso la fine dell’anno agrario, quando il piccolo produttore ha già da tempo venduto il suo surplus e il grande produttore ha liquidato le grosse partite in una volta sola. Per tale motivo, a partire dal 1581, il Magistrato dei Nove dà ordine ai rettori locali di far vendere i grani a partire da marzo-aprile e in piccole quantità. Dopo il 1636, tuttavia, tale disposizione non viene più rispettata: si dà facoltà di anticipare la data di inizio delle vendite e dal novembre 1638 si autorizza a vendere liberamente.

Un’offerta quella della piazza del grano, dunque, non molto elevata a cui corrisponde una domanda altrettanto contenuta: la popolazione pisana si attesta intorno alle 8.500 unità intorno alla metà del Cinquecento, mentre nella seconda metà del Seicento il numero di abitanti della città sale a circa 10.000 unità. Non vi sono dati certi per quanto riguarda la popolazione pisana a parte gli ecclesiastici, che nel 1613 rappresentano il 7 % del totale: tale settore della popolazione, data l’ampia estensione della proprietà ecclesiastica, risulta pressoché autosufficiente, come autosufficienti sono anche i cittadini proprietari di terre. Al mercato cittadino possono recarsi, ovviamente, anche gli abitanti del contado; nel territorio pisano, tuttavia, vi sono anche altri mercati, dove i controlli sulle quantità comperate sono minori e i prezzi più bassi: è il caso di Pontedera (dal 1546), Peccioli (dal 1584), Cascina (dal 1647), Palaia (dal 1710), Rosignano (dal 1726), Lorenzana (dal 1729). Occorre inoltre tener presente che

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nelle campagne è molto diffuso l’uso di fare il pane ed ogni casa colonica ha il suo forno, pertanto il mercato dei grani nel contado risulta piuttosto ristretto mentre a Pisa la presenza di forni nelle case è molto limitata, per prevenire gli incendi, e il pane confezionato in casa viene mandato a cuocere dai fornai: ciò contribuisce a rendere la domanda di cereali della piazza pisana più elevata rispetto a quella dei centri del contado.

Se nel pisano la produzione di cereali risulta insufficiente nei momenti di crisi, del tutto carente è quella del bestiame da macello: un insieme di motivazioni di tipo politico-economico, sociale ed ambientale determina un assetto produttivo decisamente deficitario. Le leggi di metà Cinquecento, orientate a favorire l’intensificazione dell’arativo, svantaggiano l’allevamento, vietando il pascolo comune sui terreni dei privati, limitando il numero delle bestie nel piano di Pisa e stabilendo pene per evitare i danni causati dal bestiame a fossi e coltivazioni. In una relazione, probabilmente del 162986, si afferma che i capi allevati nel capitanato di Pisa soddisfano il fabbisogno cittadino per un periodo di non più di due mesi e che a Ripafratta si macellano al massimo 50 bestie l’anno, in un contesto in cui si avverte la mancanza di pasture poiché quelle buone sono bandite; sempre nello stesso documento, inoltre, il podestà di Cascina e Pontedera fa presente che il bestiame ovino allevato in collina risulta del tutto insufficiente alla popolazione.

In tali condizioni produttive è quindi è necessario ricorrere alle importazioni per soddisfare la domanda pisana: la Grascia fiorentina, come l’Abbondanza per quanto riguarda i cereali, acquista animali da carne (soprattutto castrati) al di fuori del Granducato per rifornire i macellai del contado e le Grascie locali. A volte, come pure accade per il grano, gli animali acquistati risultano eccedenti e ciò rende necessarie delle distribuzioni forzose da parte della Grascia; anche Pisa, a volte, ricorre a tale fonte di rifornimento mentre in altri casi è costretta ad accettare una distribuzione di bestiame non richiesto. Normalmente però sono i

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macellai pisani a recarsi presso mercati anche lontani da Pisa per acquistare gli animali: agli inizi del Seicento essi frequentano il mercato fuori porta alla Croce a Firenze, quello di Borgo a Buggiano oppure le fiere a Pistoia e Pietrasanta. Precedentemente, nel 1547, era stato riaperto il mercato del bestiame fuori porta S. Marco a Pisa, il venerdì, “con facoltà di riesportare le bestie importate e rimaste invendute, senza pagamento di gabella”87

. Con Ferdinando I il mercato viene trasferito a Porta a Mare ma poi, nel corso del XVII secolo, esso viene soppresso: nel 1647 i macellai pisani lamentano questa assenza, ed un mercato del bestiame viene ripristinato soltanto nel 1728 su richiesta della Grascia. Per quanto riguarda la vendita della carne al minuto, essa è affidata in Toscana a due tipi di macellai: quelli della «buona carne» e quelli della «mala carne»; questi ultimi (che si occupano della macellazione e della vendita delle carni di vacche, bufali e montoni) non sono più di uno per ogni località di una certa densità abitativa. La macellazione dei bovini tende ad essere limitata da varie disposizioni ed è vietata negli anni di particolare carenza dovuta ad epizoozie o alla presenza di eserciti; inoltre, è proibito uccidere il bestiame (quello statale ma non quello importato) nel periodo di Quaresima e da Pasqua a Pentecoste (vitelli e buoi non possono essere macellati fino ad Ognissanti). I prezzi al consumo della carne sono stabiliti dalla Grascia fiorentina, per lo più nei mesi di aprile e novembre, in accordo con il Magistrato dei Nove ed in base ai prezzi dei vari mercati della Toscana. A Pisa viene assegnato, per ogni tipo di carne, un prezzo più basso di un quattrino per libbra rispetto a Firenze, anche se il provveditore della Grascia di Pisa può alzare o abbassare i prezzi a seconda dei costi dei macellai e dell’andamento del mercato.

Un altro prodotto a cui la Grascia guarda con particolare attenzione è l’olio,