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I vari cambiamenti alla base dello sviluppo economico sono sempre

accompagnati da profondi cambiamenti sociali del mondo rurale e da una mercantilizzazione dell’agricoltura: è necessario che aumenti la produzione di beni alimentari e materie prime, che cresca il consumo di beni industriali da parte dei contadini, che aumenti il numero di quanti, tra costoro, abbandonano le campagne per cercare occupazione nel settore secondario; occorre altresì “che la forza lavoro sia sufficientemente mobile e che trovi occupazione in quei settori nei quali la domanda è più forte”95

. Quando il mondo contadino non si adegua facilmente al cambiamento in atto, lo sviluppo viene rallentato ed ostacolato. Questo è quanto accade in Europa tra il tardo medioevo e la rivoluzione industriale: al dinamismo dei commerci e dell’industria delle città, si contrappone infatti la lentezza di cambiamento caratteristica del mondo contadino.

Tutto questo appare più evidente se si considera il caso della Toscana: tra tardo medioevo e Rinascimento la densità urbana è una delle più alte in Europa, le attività industriali sono particolarmente diffuse e, per quanto riguarda le innovazioni nel commercio, il mercante toscano è all’avanguardia. Tuttavia,

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mentre nelle città si sviluppano elementi anticipatori dell’economia moderna, al di fuori delle mura urbane continuano a prevalere l’autoconsumo e lo scambio in natura tipici dell’economia mezzadrile. L’evoluzione del mondo rurale in Toscana, come anche nel resto dell’Europa preindustriale, avviene tramite processi di cambiamento molto lenti, che si svolgono nel corso di generazioni. Nonostante ciò, una accelerazione si verifica nel Settecento: aumentano i consumi da parte dei contadini, tra cui anche quelli tessili, e proprio attorno ad essi si intreccia un insieme di scambi monetari. Ciò implica la vendita di una parte del prodotto agricolo “al fine di procurare la moneta necessaria per questi scambi”96

. Se in un’economia di sussistenza il bisogno di beni di consumo durevoli, soprattutto quelli relativi all’abbigliamento, avviene in forma limitata attraverso la produzione per autoconsumo, ora si hanno relazioni monetarie; tali relazioni, col tempo, possono modificare i comportamenti economici della famiglia contadina tradizionale.

La spesa riservata ai tessuti da parte di ogni membro della famiglia contadina è decisamente limitata: ogni tessuto comprato è infatti “sottoposto a un uso intensivo e continuo”97

ed è consuetudine diffusa, nelle campagne come nelle città, cambiare l’abito soltanto la domenica, dopo aver usato camicia e calzoni tutta la settimana in casa, nei campi e magari anche a letto (nel caso della camicia). L’uso delle poche vesti possedute, dunque, viene prolungato fino alla completa usura; quando il tessuto è meno usato lo si rattoppa per indossarlo nuovamente, oppure lo si trasforma per farlo indossare ai figli. A questi ultimi, in particolare, passa l’abito di maggior riguardo: quello da indossare la domenica. Se la spesa tessile pro capite risulta molto bassa nel contado, difficile è precisare a quale quota del reddito familiare essa corrisponda: i dati sulla composizione della spesa delle famiglie contadine sono piuttosto scarsi (mentre invece è possibile ritrovare dei documenti contabili privati per le famiglie aristocratiche) e quindi bisogna basarsi sui pochi calcoli di autori e politici

96 P. MALANIMA, op. cit., p. 8. 97

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contemporanei che si interessano delle condizioni delle campagne; un altro problema è poi quello delle tante differenze che esistono nei contadi tra le varie famiglie.

La popolazione delle campagne del Granducato è pari a 581.335 persone nel 1640 (805.365 nel 1784) con una densità tra i 30 e i 40 abitanti per chilometro quadro. Tale società rurale appare del tutto eterogenea dal punto di vista economico e sociale: ne fanno parte artigiani, commercianti, piccoli proprietari, professionisti (medici, maestri, religiosi), braccianti, livellari e mezzadri. Proprio questi ultimi formano la quota più numerosa della popolazione: secondo Angelo Tavanti, a lungo ministro del granduca Pietro Leopoldo, intorno al 1760 sono 550.000 i mezzadri in tutto il Granducato. Dopo costoro, il gruppo sociale più rappresentato nelle campagne è quello dei braccianti o «pigionali»: nel contado pratese, per il quale sono disponibili dati demografici accurati, il numero di mezzadri e pigionali comprende nella seconda metà del Seicento e nel Settecento l’85-90 % della popolazione contadina. Se le famiglie mezzadrili formano il gruppo sociale più numeroso nelle campagne toscane, esse non costituiscono una categoria omogenea dal punto di vista economico: vi sono mezzadri “benestanti”, insediati su poderi ampi e ricchi, e vi sono mezzadri poveri che lavorano poderi modesti e vivono con la costante preoccupazione di essere allontanati a causa dei debiti accumulati nei confronti del proprietario. Caratteristica comune a tutte le famiglie, comunque, è l’autoconsumo perché quella mezzadrile è un’economia di sussistenza: i poderi coltivati a coltura promiscua consentono al mezzadro, nelle annate buone, di ricavare il pane, il vino, l’olio, i legumi, le verdure ed anche quel poco di carne che viene consumata nelle occasioni speciali. Le tasse rappresentano un’uscita piuttosto contenuta e l’acquisto di attrezzi per l’agricoltura ed arredi per la casa rappresentano “una spesa minima a causa della loro lunga durata”98

. La quota più importante delle uscite monetarie della famiglia mezzadrile è rappresentata

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dunque dalla spesa per i tessuti (vesti e biancheria) e, in minor misura, da quella destinata all’acquisto di calzature; il contatto della famiglia mezzadrile con il mercato è decisamente stimolato dalla necessità di acquistare prodotti tessili. Per fare ciò, il mezzadro deve vendere una parte del prodotto agricolo per poter disporre di denaro sufficiente anche se, in una certa misura, anche il bisogno di tessuti viene soddisfatto attraverso la forma dell’autoconsumo. Si tratta però di una quota piuttosto limitata e perciò il consumo tessile rappresenta un elemento monetario che fa breccia in un’economia familiare di sussistenza.

In termini assoluti le spese sono diverse da famiglia a famiglia ed anche da individuo a individuo a seconda del reddito disponibile. Quale sia il reddito a disposizione di un mezzadro non è facile a dirsi: le famiglie mezzadrili, si è detto, non formano un gruppo sociale omogeneo dal punto di vista economico e qualsiasi tentativo di calcolare il reddito medio risulta sostanzialmente arbitrario. Tuttavia, nella seconda metà del Settecento, alcuni politici e uomini di cultura suggeriscono delle cifre orientative in tal senso: si va da un minimo di 10 scudi ad un massimo di 20. Se si accetta la stima di 12 scudi proposta da Ferdinando Paoletti99, “allora la spesa annua procapite per tessili, pari al 12 %, sarebbe di 10 lire”100

. Con tale somma un contadino può permettersi ogni anno un paio di calzoni, un lenzuolo ed una camicia o un lenzuolo ed una coperta; oppure una camicia ed un pastrano o un guarnello o una camicia ed un paio di scarpe (tutto di qualità decisamente modesta). Naturalmente, un bracciante spende molto meno di 10 lire all’anno in acquisti tessili e probabilmente, nel migliore dei casi, riesce a comprare soltanto una camicia o un paio di calzoni. Per quanto riguarda le famiglie artigiane poi, si può ritenere che il rilievo della spesa per tessuti e calzature non sia molto diverso da quello di una comune famiglia mezzadrile. In generale, tale spesa è solo parzialmente condizionata da ragioni di necessità:

99 F. PAOLETTI, De’ Veri Mezzi di Render Felici le Società, Firenze, 1772, p. 12, citato in P. MALANIMA, op.

cit., p. 44.

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essa “costituisce soprattutto un consumo di tipo voluttuario”101

ed è noto che se “consumi primari come quelli alimentari decrescono percentualmente al crescere del reddito, quelli per abbigliamento mostrano, invece, la tendenza ad ampliarsi all’aumentare del reddito”102

.

Gli acquisti effettuati sul mercato dalla famiglia contadina hanno, comunque, un andamento molto discontinuo: essi sono infatti condizionati dall’andamento dei raccolti e cioè dall’alternarsi delle annate buone con quelle cattive. Quando il raccolto è buono la famiglia contadina riesce a venderne una parte, ricavando così una certa quantità di moneta con cui acquistare beni sul mercato (principalmente articoli tessili); al contrario, nelle annate cattive, la famiglia contadina non riesce a vendere niente sul mercato a causa degli alti prezzi agricoli ed è spesso costretta ad indebitarsi per acquistare il necessario a nutrire tutti i suoi membri. In tale situazione non è possibile per il mezzadro effettuare acquisti tessili e a risentirne è anche il lavoro degli artigiani di villaggi e città che producono per la clientela del contado: infatti, “vi è sempre una buona concordanza fra cattivi raccolti, prezzi agricoli alti, calo delle vendite di tessili, crisi della produzione artigiana”103

.

Quali sono gli articoli tessili che entrano, seppur limitatamente ed in modo discontinuo, nelle case delle famiglie contadine toscane? Gli inventari dei beni familiari danno delle informazioni utili, anche se sporadiche, per poter rispondere a tale quesito. Le due fibre prevalenti risultano essere la lana e il lino: i tessuti di lana, in particolare, sono più costosi e quindi hanno maggior rilievo. Sono prodotti con la lana molti capi di abbigliamento come calze, calzoni, cappelli, sopravvesti; di lana, inoltre, sono anche le coperte e l’imbottitura delle materasse. Col lino si fabbricano camicie, lenzuoli, biancheria da cucina, calzoni, coperte e talvolta anche delle sopravvesti. Altra fibra utilizzata, seppur in misura decisamente minore, è la canapa, con cui vengono fabbricati

101 Cit. ivi, p. 43. 102 Ibidem. 103

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canovacci da cucina e a volte anche camicie e lenzuola (in associazione col lino); di canapa, inoltre, sono articoli di grande importanza per il mondo contadino come corde, sacchi e balle. Non molto ampio è anche l’utilizzo del cotone: usato soprattutto per produrre coltroni, coperte ed alcune vesti femminili, comincia a diffondersi maggiormente nel Settecento con la comparsa delle cosiddette «indiane», i tessuti di cotone che gli Inglesi importano dall’India e che riesportano in Europa e in America. Nelle case contadine vengono posseduti anche alcuni articoli di seta, come fazzoletti e vestiti da indossare la domenica, presenti frequentemente nei corredi delle spose toscane: si tratta soprattutto di «filaticcio», un tessuto ottenuto con la seta di peggiore qualità, inadatto per la lavorazione nelle botteghe fiorentine e destinato alle fasce inferiori del mercato interno. È possibile, almeno per quanto riguarda lana e lino, azzardare una stima riguardante il consumo pro capite: un documento anonimo del 1774104 afferma che a quel tempo il consumo annuo di lana è di due libbre e un quarto, mentre quello di lino è di due libbre e un sesto (circa un chilo e mezzo in totale).

I consumi tessili, si è detto, sono solo in parte dettati da necessità oggettive ed assumono una connotazione prevalentemente accessoria: a ciò si ricollegano le tante leggi sul lusso fiorite nelle città italiane a partire dal medioevo. In tali leggi una certa attenzione viene sempre dedicata anche ai lussi in ambito contadino, dalle vesti che gli abitanti delle campagne devono indossare e dai gioielli consentiti, fino alle cerimonie ed in particolare ai matrimoni celebrati. Oggetto principale di queste leggi sono però i lussi cittadini: vengono pertanto emanate leggi suntuarie a Firenze nel 1281 (legge sulle esequie) e nel 1290 e 1318 (leggi sugli ornamenti e le vesti femminili). Tali provvedimenti hanno come scopo la limitazione dei consumi smodati della popolazione cittadina e vengono di lì a poco imitati dalle altre città toscane e da molti centri italiani. Nel medioevo, infatti, le città sono i luoghi in cui si concentrano principalmente consumi e

104 Appendice n. IV in I. IMBERCIADORI, Campagna toscana, Firenze, 1953, p. 328, citato in P.

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commerci: sono le popolazioni urbane “ad alimentare gli scambi in un panorama economico caratterizzato da gruppi sociali, quelli dei nobili delle campagne e dei lavoratori rurali, con domanda fondamentalmente anelastica”105. I proprietari delle campagne dispongono sì di redditi ingenti ma raramente acquistano beni in grande quantità; i piccoli proprietari e lavoratori rurali, al contrario, hanno maggiore bisogno di rifornirsi sui mercati ma solo di rado possono permettersi di comprare. I gruppi sociali che hanno rapporti intensi e frequenti con il mercato sono quelli delle città: lavoratori immigrati, artigiani, mercanti, aristocratici. Oltre ai beni di prima necessità, si sviluppa ben presto un consumo di beni di lusso da parte dei ricchi che cercano di dimostrare così il loro prestigio sociale. Il lusso nelle città europee cresce nel corso del Quattrocento col cambiare dei modelli di consumo della nobiltà, prima di quella cittadina e poi anche di quella immigrata dalle campagne. Per la nobiltà rurale spostatasi in città, immigrare vuol dire anche adottare comportamenti sociali nuovi ed adeguarsi ad un modello di consumi diverso: aumentano le spese per l’abitazione, per l’abbigliamento, per la servitù, per la vita di corte. Mentre le città si configurano come centri di mercato, le campagne sono ancora caratterizzate in gran parte da pratiche tipiche delle economie di sussistenza, cioè l’autoconsumo e il baratto; lo sviluppo dei mercati cittadini nel tardo medioevo intacca solamente un’economia rurale tradizionale e poco aperta agli scambi monetari. Gli artigiani e gli operai delle città fabbricano articoli destinati prevalentemente agli abitanti di altri centri urbani, molto poco infatti è consumato dagli abitanti del contado.

Fino ai primi decenni del Settecento è del tutto fuori luogo parlare di lussi dei contadini. A partire dalla metà del secolo, tuttavia, è possibile percepire un cambiamento nei costumi e nei modi di vita delle genti rurali: non solo gli uomini di cultura ma anche la gente comune si rende conto “della lenta diffusione nelle campagne di generi di consumo e di abitudini estranee ai valori

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tradizionali della società contadina toscana”106

. Questi cambiamenti appaiono ai più come una degenerazione dei costumi del contado e sono in molti a credere che ciò avrebbe modificato le forme di soggezione e rispetto nei confronti dei proprietari terrieri. Si apre pertanto un lungo dibattito sui «lussi» dei contadini, dibattito nuovo in Toscana per intensità, durata e per l’ampia partecipazione dei vari ambienti della società. Quali sono i cambiamenti che vengono criticati in tale dibattito? Innanzitutto quelli riguardanti il cibo: se in passato il contadino toscano si era nutrito di pane a colazione, a pranzo e a merenda (consumando a cena minestra e legumi e carne soltanto in occasione del pranzo domenicale) ora si ciba sempre più di carni ed insaccati; e la bevanda tipica, l’acquerello107

, viene sostituita dal vino. Viene poi criticata la nuova abitudine di frequentare l’osteria: verso il 1770 le osterie toscane sono circa 500 e, specialmente nei giorni di festa, sono sempre di più i contadini che le frequentano, dandosi spesso al vizio del gioco. Se prima la popolazione rurale si incontrava principalmente in chiesa, adesso “si vanno diffondendo nuovi punti di ritrovo e di socializzazione”108

. Oltre alle osterie, i contadini che abitano vicino alle città cominciano anche a frequentare i teatri e i loro figli sono mandati a scuola, anziché a lavorare nei campi. Fra tutti i «lussi» contadini, tuttavia, il più criticato è quello dell’abbigliamento: gli abitanti del contado non si accontentano più dei vestiti prodotti in casa dalle donne e in molte località “la produzione di tessuti di qualità modesta, adatti alla clientela rurale, va declinando in conseguenza degli accresciuti acquisti di prodotti di migliore qualità, spesso d’importazione”109. In questo come negli altri casi è l’emulazione a favorire la diffusione del lusso: se nel privato si può anche fare economia, in pubblico (soprattutto la domenica in chiesa, dove ognuno può confrontare gli abiti indossati con quelli altrui) ciò non è possibile.

106 Cit. ivi, p. 137.

107 L’acquerello è una bevanda ottenuta mescolando l’acqua con le vinacce. È anche noto come vinello. 108 Ivi, p. 140.

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È vero che la polemica sul lusso dei contadini è spesso portata avanti dai proprietari terrieri toscani, il cui obiettivo è quello “di ridurre al minimo le esigenze delle masse rurali e mantenere il livello di sfruttamento dei lavoratori agricoli”110

ma è altrettanto vero che ad essa partecipano uomini di cultura e politici consapevoli della povertà delle campagne e desiderosi di porvi rimedio. Dai dibattiti sul lusso contadino emerge chiaramente il disagio di amministratori, letterati e comuni cittadini di fronte all’incrinarsi della realtà patriarcale propria del mondo rurale toscano con la diffusione di nuovi usi e costumi. È in atto, infatti, un lento ma costante processo di modernizzazione che comincia a scomporre le basi dell’economia agricola e le relazioni sociali tradizionali del mondo contadino. La critica delle nuove mode e dei nuovi modi di vestire colpisce gli aspetti simbolici di questo cambiamento nel mondo rurale: con l’aumento degli acquisti sul mercato delle famiglie contadine entra sempre più in crisi l’economia di sussistenza “alla base dei rapporti sociali e delle forme stesse di autorità all’interno del mondo contadino”111

. Per i molti che condannano aspramente tutto ciò, la corruzione ha indebolito la morale e gli ideali di frugalità e parsimonia propri dell’universo rurale a tal punto che i proprietari non si possono più fidare nemmeno dei fattori: questi non si accontentano più di pasti modesti e vestiti da caccia ma, concentrati più sui propri interessi che su quelli dei padroni, vestono con abiti di qualità e adoperano il calesse guidato da un mezzadro (il quale, in questo modo, viene sottratto dal lavoro dei campi).

Tutti sono d’accordo nel ritenere che il contagio del lusso parta dalle città per diffondersi nelle campagne: sono i mercati e le lusinghe dei centri urbani, infatti, ad attrarre le popolazioni rurali. In particolare, quelle che vivono vicino alle città: “i contadini suburbani partecipano dei vizi della villa, e della città”112

, scrive il Vescovo di Cortona Giuseppe Ippoliti. Nelle campagne più distanti,

110 Ivi, p. 143. 111 Ivi, p. 144. 112

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lontane dall’influenza cittadina, i nuovi consumi e le nuove abitudini non raggiungono la popolazione (è il caso del Mugello e dell’entroterra appenninico). In queste aree, tuttavia, non dominano certo i valori patriarcali della tradizione contadina che molti elogiano ma i vizi caratteristici ed antichi di ogni società rurale: l’indolenza, l’ubriachezza, l’amore libertino e lo stesso vizio del gioco. Evidentemente la modernizzazione che avviene lentamente nelle campagne circostanti le città (e soprattutto intorno alla capitale) non è poi così peggiore rispetto al vecchio mondo rurale: ai vizi del passato si vanno solo sostituendo altri vizi. La domanda che si pone a questo punto è: quale è in realtà la diffusione del lusso presso le popolazioni contadine toscane nella seconda metà del Settecento e quali sono i gruppi sociali più inclini a recepire i nuovi modelli di consumo?

A partire dagli anni ’60 del Seicento la popolazione in Toscana, come anche nel resto d’Europa, è in aumento e dai 721.000 abitanti del 1640-42 si passa agli 894.000 del 1738, per poi raggiungere le 981.000 unità nel 1784. In tale contesto, si inverte la tendenza in base alla quale nei periodi di espansione demografica le città crescono di più delle campagne: se le sette maggiori città toscane (Firenze, Livorno, Pisa, Siena, Pistoia, Prato, Arezzo) contano ben il 19% della popolazione totale nel 1622, il tasso di urbanizzazione cala al 17% nel 1784 quando la densità della popolazione rurale è di 40 abitanti per km². All’aumento della popolazione corrisponde un aumento della superficie coltivata attraverso la bonifica e l’appoderamento di territori incolti; in alcuni casi si assiste anche ad episodi di intensificazione colturale. In generale però, gli investimenti agricoli non crescono allo stesso ritmo della popolazione: la conseguenza è che la rete poderale non può accogliere le famiglie che si vanno formando e quindi aumenta molto di più il numero dei braccianti rispetto a quello dei mezzadri. Braccianti che vengono chiamati in Toscana «pigionali» perché, al contrario dei mezzadri, non hanno la proprietà o l’uso della casa di abitazione e perciò ne devono prendere una a pigione. Essi, agli inizi

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dell’Ottocento, vengono definiti come membri di una classe “la quale non ha impiego fisso, ma offre il suo lavoro ora a questo, ora a quello, e che perde molte giornate di lavoro non solo per le intemperie, ma ancora per non trovar chi l’impieghi, riempie queste campagne di miserabili, che vanno accattando di porta in porta, e rubando dai campi i prodotti di pronta consumazione”113

. Infatti, all’aumento demografico corrisponde un ampio processo di pauperizzazione e dei 40.000 mendicanti censiti in Toscana nel 1770, un numero certamente non trascurabile è costituito da pigionali.