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Aiuti internazionali e locali, governativi e non governativi: un primo confronto fra discors

Guardare attraverso il prisma della cooperazione

2.1 Breve storia della cooperazione nei campi profughi palestinesi in Libano

2.1.3 Aiuti internazionali e locali, governativi e non governativi: un primo confronto fra discors

Quanto segue vorrebbe proporre un confronto preliminare fra i discorsi con cui i vari attori della cooperazione attivi nei campi profughi del Libano hanno costruito i propri oggetti assistenziali. Si tratta di un attraversamento, a scopo esemplificativo, di alcune delle tematiche affiorate nei paragrafi precedenti, grazie agli spunti di volta in volta offerti dalle presentazioni telematiche di soggetti governativi o non-governativi, locali o internazionali. Passando in rassegna, infatti, alcuni fra appelli, dichiarazioni di intenti, progetti, valutazioni finali e documenti analitici di vario genere (tutti reperibili sul web) ci si appresta a mostrare come ogni soggetto considerato (UNRWA, ECHO, Ong straniere e locali, comitati di solidarietà e associazioni palestinesi non registrate) costruisca il ‘problema’ dei profughi palestinesi in Libano tramite elementi discorsivi, espedienti retorici e ricorrenze tematiche coerenti con i progetti che poi verranno legittimati, se non a ‘risolverlo’, almeno ad approcciarlo. Una rassegna di questo tipo, inoltre, potrebbe rivelarsi utile perché, da una parte, introduce il lettore all’interno della cooperazione in Libano nel suo complesso – fungendo da ponte intermedio fra le precedenti disquisizioni storiche e teoriche e quelle etnografiche che seguiranno – e, dall’altra, offre una panoramica di insieme dei modi con cui la cooperazione concepisce e affronta, almeno sulla carta, il caso dei profughi in Libano, nonché dei progetti che i diversi attori hanno reputato opportuno sostenere e implementare.

I campi profughi palestinesi del Libano sembrano presentarsi oggi come una meta alquanto ghiotta per la cooperazione internazionale. Lo dimostra la presenza pervasiva sul terreno di decine di organizzazioni non governative straniere (occidentali e arabe), con qualche migliaio di operatori, ma anche di Ong locali, palestinesi e libanesi, oltre che, naturalmente, della cooperazione istituzionale di governi, ONU e Unione Europea137. Considerata complessivamente la cooperazione internazionale in Libano, si nota che il numero dei progetti realizzati nei campi profughi è tanto cospicuo quanto quello dei progetti che interessano alcune aree rurali libanesi, soprattutto al sud, o alcuni settori di intervento sulla popolazione libanese, come quello dei disabili o della sicurezza domestica. In Libano quindi non sono soltanto i rifugiati palestinesi ad essere oggetto della premura umanitaria. Dunque, un paese così piccolo e potenzialmente abbastanza ricco attira un alto numero di Ong, e, con esse, un cospicuo flusso di finanziamenti che qui possono trovare agevolazioni, coperture, volatilizzarsi per ricomparire altrove, in un vero e proprio business umanitario (cfr. Marcon, 2002)138.

Il rifugismo palestinese rappresenta il contesto in cui si è sedimentata una delle più longeve esperienze di cooperazione internazionale al mondo: emergenze umanitarie, poi progetti di sviluppo, poi ancora emergenze, diplomazie, coordinamenti di vario genere fra Ong straniere, Ong locali e agenzie governative, ministeri degli esteri, partiti politici, gruppi di solidarietà e associazionismo di ogni tipo. Nel corso di sessanta anni di operato – e forse perché i riflettori mediatici non si sono mai spenti su questa zona del Medio Oriente –, le conoscenze si sono raffinate

137 Non è un caso, infatti, che fra le risorse economiche dei profughi palestinesi figuri per prima l’occupazione

all’UNRWA e per terza quella ad organizzazioni non governative palestinesi (cfr. Non-Governmental Organizations in

the Palestinian Refugee Camps in Lebanon, a c. della Ong Ajial-Social Communication Center, cit.).

138 Almeno fino al conflitto fra le milizie di Hezbollah e l’esercito israeliano dell’estate 2006, dietro stupefacenti

progetti di valorizzazione del settore olivicolo, sostegno ai disabili, sicurezza infantile, miglioramento dei sistemi d’irrigazione e riabilitazione del sistema idrico, sensibilizzazione alla salute sessuale e riproduttiva in ambito rurale – solo per citarne alcuni – forse, in qualche caso, si celano tutti i favori del segreto bancario libanese. Il racconto di un cooperante con pluriennale esperienza in Libano riferisce di finanziamenti europei facilmente raggirati dai responsabili della sua Ong e trasformati in gioielli e denaro contante da trasportare chiusi in una valigetta in Italia. Che episodi come questo appartengano o meno all’aneddotica non sta a me appurarlo; resta il fatto che durante il mio soggiorno in Libano mi sia più volte capitato di ascoltarne, di coglierne allusioni e persino millanterie. I progetti citati sono stati estrapolati dai siti telematici delle Ong italiane presenti in Libano (CTM, Movimondo, ICU, RC). Durante il mio soggiorno sul campo mi sono più volte imbattuta in essi o nei loro operatori.

e le competenze hanno fatto tesoro di una grande varietà di situazioni, o avrebbero dovuto farlo. In occasione di uno di quei ritrovi riservati agli ‘internazionali’, quando mi è capitato di alludere ai profughi palestinesi con un esponente dell’UNDP (United Nations Development Programme) di stanza in Libano e di notare come questo operatore dell’ONU fosse ignaro della presenza di oltre 400.000 rifugiati palestinesi, mi sono accorta che le cose, forse, sono andate diversamente. Ma non è il caso di generalizzare.

Ad oggi, nei campi profughi palestinesi del Libano, molteplici dunque sono gli attori della cooperazione: UNRWA, ECHO (European Commission Humanitarian Office), Ong straniere, Ong palestinesi, gruppi di solidarietà, comitati e associazioni di volontariato. Si prenderanno in esame, progetti inclusi, UNRWA, ECHO e le organizzazioni non governative che si reputano più significative139, privilegiando però, per ciò che riguarda quelle straniere, le Ong italiane, comprese quelle che chi scrive ha conosciuto durante il soggiorno sul campo. Il criterio di selezione delle Ong palestinesi locali invece consiste nella scelta di quelle presenti in tutti i campi profughi e di quelle più accreditate poiché il numero dei beneficiari raggiunti è cospicuo, nonché di quelle in partnership con le Ong italiane considerate. A queste aggiungerò esempi di Ong locali con progetti particolarmente interessanti ai fini di questo studio, come per esempio progetti di stampo culturale, educativo e memoriale. In questa fase descrittiva, come già accennato, mi baserò quasi esclusivamente sul materiale ufficiale cartaceo o reperibile su internet (siti web, comunicati, appelli). In conclusione sarà più facile formulare qualche riflessione generale, che verrà ripresa più dettagliatamente nei paragrafi successivi.

A dispetto di quanto ci si possa aspettare, la presentazione telematica dell’UNRWA140 è piuttosto povera di contenuti analitici e storici. Il materiale ufficiale messo a disposizione non è poco, ma piuttosto superficiale e spesso predisposto sotto forma di elenchi, tabelle, grafici. Dall’elenco dei brevi profili di ciascuno dei dodici campi profughi del Libano si ricaverebbe che i problemi o deficienze maggiori (rispetto ad uno standard ‘sviluppato’) riguardano igiene (fogne aperte, scarsità di acqua potabile, cavi elettrici scoperti, tetti in lamiera), sovraffollamento, disoccupazione (anche i lavori stagionali o giornalieri o la bassa manovalanza sono considerati dei ‘problemi’), insufficienza delle infrastrutture, abbandono scolastico. Insomma, il problema principale dei profughi palestinesi sono le ‘difficili condizioni di vita’ che danno adito ad una serie di ‘problemi sociali’, di cui peraltro non si fa altro cenno. Riguardo alle cause del sovraffollamento dei campi, va notato che nel sito web dell’UNRWA si accenna al fatto che il governo libanese dal 1998 vieta l’ingresso nei campi di materiale da costruzione per ampliare i locali e ottimizzare gli spazi (ma non viene aggiunto che ai profughi è negato il diritto di acquistare immobili fuori dai campi). Fra le cause del sovraffollamento dei campi si potrebbe annoverare anche la concentrazione delle risorse assistenziali al loro interno, fatto che in parte scoraggia i profughi ad avventurarsi all’esterno. È vero che l’UNRWA offre i suoi servizi anche in alcuni dei cosiddetti ‘campi non ufficiali’, ossia quei quartieri interamente abitati dai palestinesi, ma l’effetto sortito è identico a quello di un campo ufficiale: la concentrazione degli assistiti, paragonabile ad una forma di ghettizzazione umanitaria. Ad essa corrisponde una sorta auto-isolamento perpetrato dai profughi stessi, i quali in linea generale optano per la vita nei campi, piuttosto che arrischiarsi all’esterno e far fronte da soli, senza la protezione della comunità, alle discriminazioni quotidiane (giuridiche, sociali, lavorative) che la legislatura libanese in materia di palestinesi legittima.

Attingendo al medesimo elenco descrittivo dei campi palestinesi in Libano si deduce che questi problemi (igiene, sovraffollamento, disoccupazione, ecc.) abbiano delle cause, tutte peraltro appartenenti ad un passato prossimo, come la violenza fra fazioni politiche negli anni Ottanta (la cosiddetta Guerra dei Campi) e la guerra civile libanese. Il rifugismo in sé non è mai considerato la fonte dei disagi dei profughi palestinesi, come non lo è il trattamento discriminatorio riservato loro

139 Per i dati che seguono mi sono avvalsa esclusivamente di ciò che viene riportato nei siti internet delle singole

organizzazioni assistenziali; pertanto quella che segue sarà un’analisi del discorso, dei linguaggi, dei concetti che costruiscono il profugo palestinese come beneficiario dell’aiuto.

dal governo libanese, e nemmeno l’intera questione palestinese a cominciare dall’attuale situazione dei Territori Occupati. Una simile costruzione dell’oggetto umanitario sottrae ogni storicità al presente dei palestinesi e depoliticizza una crisi che affonda invece le sue radici in un terreno profondamente ideologico. Il fatto che venga accuratamente evitato ogni riferimento al remoto 1948 e alla nascita dello stato d’Israele, come anche all’accoglienza libanese del flusso dei profughi e al loro attuale posizionamento legale, indica la pretesa neutralità di questa agenzia dell’ONU. Che rispecchi l’imparzialità del suo mandato morale o piuttosto l’equilibrismo fra le posizioni, spesso conflittuali, dei vari paesi che siedono all’ONU, resta il fatto che la neutralità dell’UNRWA ha un caro prezzo per la comunità profuga palestinese: la sua depoliticizzazione. I rifugiati divengono un mero dato umanitario. L’UNRWA salva se stessa a patto di prendersi cura di corpi bisognosi recisi dalla loro storia.

Nell’ottica problema-causa-soluzione adottata dall’UNRWA si sono visti i ‘problemi’ dei rifugiati palestinesi, e subito dopo le ‘cause’ (solo alcune) di questi problemi. Ma quali sono le ‘soluzioni’ proposte e praticate? Anzitutto, in generale, l’opera dell’UNRWA è presentata come la testimonianza dell’esistenza dei profughi palestinesi, come se essa fosse un sine qua non della loro realtà storica. Quindi, se il problema è il rischio di non essere riconosciuti, la non esistenza, l’identità negata, l’UNRWA è la soluzione stessa, in quanto garante sulla scena internazionale della realtà diasporica palestinese. Ciò che il principio dello stato territoriale ha tolto ai palestinesi (un’identità storica di popolo-nazione), escludendoli dalle forme del riconoscimento politico contemporaneo, viene custodito dalla cooperazione internazionale, in specie l’UNRWA, sotto forma di mancanza, di assenza. L’UNRWA protegge, salva i profughi dall’oblio, ma si fa custode della loro identità, la tiene in pegno, in ostaggio. È questo il doppio volto degli aiuti umanitari. E non è un caso infatti che sia l’UNRWA ad aver stabilito nella lingua franca delle relazioni internazionali la definizione di profugo palestinese – persona il cui ‘luogo normale di residenza era la Palestina fra il giugno 1946 e il maggio 1948, che abbia perso casa e mezzi di sussistenza in seguito al conflitto arabo-palestinese del 1948. (…) La definizione di rifugiato copre anche i discendenti delle persone divenute rifugiate nel 1948’ – e di campo per rifugiati – ‘pezzo di terra messo a disposizione dell’UNRWA dai governi ospitanti per accomodare i profughi palestinesi e far fronte ai loro bisogni. Le aree non designate in questo modo non sono considerate campi’ –. Senza addentrarsi nella giustificata polemica circa chi possa o meno rientrare nella definizione di profugo palestinese141, vorrei almeno sottolineare la singolare specificazione che segue la definizione di campo:

I pezzi di terra su cui vennero stabiliti i campi sono di proprietà statale o, nella maggior parte dei casi, affittati da parte dei governi ospitanti da possidenti locali. Ciò significa che i profughi nei campi non ‘posseggono’ la terra su cui furono costruiti i loro rifugi, ma hanno il diritto ad ‘usare’ quella terra per risiedervi.

É assai significativa la distinzione introdotta fra proprietà ed uso, soprattutto nell’effetto esercitato sui profughi stessi. Si noti come ‘usare una terra per risiedervi’ significhi abitarla, mentre possedere una terra non significhi necessariamente abitarla. Ora, ribadire che i profughi ‘usano’ ma non ‘possiedono’ crea una relazione particolare fra i profughi e gli spazi che occupano. Questa relazione, che normalmente è data dall’abitare, è in questo caso sospesa, come paralizzata. ‘Usare’ spazi e risorse non è più il risultato di una corrispondenza, intimamente vissuta, fra il sé e un territorio, ma diventa un ‘diritto’ che qualcuno istituisce, poi riconosce, poi concede a qualcun altro, col vantaggio di controllarlo. Essendosi artificializzato nella realtà giuridico-politica del diritto, per il profugo palestinese ‘usare’ non è più abitare, ma diviene ‘non possedere’. Ciò crea quel disagio perenne, quella sospensione senza prospettive del forestiero che non trova riparo per quietare.

‘Usare’ non designa più la pienezza del rapporto con il luogo abitato, bensì il difetto, la deficienza, la mancanza rispetto alla proprietà, al luogo posseduto142.

Circa i problemi specifici riscontrati fra i profughi, quattro sono gli ambiti di intervento storici individuati dall’UNRWA: educazione, sanità, servizi sociali e emergenza. Per quanto riguarda il settore educativo, la totalità dell’istruzione primaria e secondaria è completamente appannaggio dell’UNRWA, che vanta inoltre la preparazione di insegnanti, l’elargizione di borse di studio universitarie e la promozione dei diritti umani. Gli interventi sanitari interessano invece le cure primarie, la prevenzione e il controllo, l’emergenza salvavita e le strutture fognarie e di potabilizzazione. Vi è poi l’area dei servizi sociali, con progetti che vanno dal supporto alle famiglie non in grado di provvedere ai propri bisogni primari all’empowerment personale attraverso lo sviluppo sociale della comunità, dal supporto tecnico e finanziario a programmi per donne e ai centri di riabilitazione ai programmi di microfinanza, microcredito e microcommercio per creare occupazione e reddito. Infine, vi è il settore degli aiuti di emergenza (ossia, nell’accezione qui usata, tutto ciò che non è pianificabile, l’imprevisto), in cui rientrano i bisogni in caso di conflitto (rifugi, cibo, cure), o tende, vestiti e coperte per gli inverni freddi. Questi programmi assistenziali dovrebbero far fronte ai disagi dei profughi palestinesi in Libano conseguenti alla negazione dei diritti civili e sociali, alla negazione dell’accesso alla sanità e alla scuola pubblica e ai servizi sociali e alle restrizioni imposte in ambito professionale. Queste tre fonti di disagio e discriminazione, che non vengono mai imputate ad un governo né collocate storicamente, secondo l’UNRWA fanno del Libano il paese con il maggior numero di ‘casi gravi’, gente ‘ammalata di rifugismo’ cui bisogna provvedere con tutto.

Mentre la presentazione dell’UNRWA non si dilunga sul valore del suo mandato, nel sito di ECHO invece si possono leggere riflessioni come: ‘spesso sono i paesi più vulnerabili che pagano il prezzo più alto in termini di perdite di vite umane e sofferenza’; costoro ‘hanno una cosa sola in comune: il bisogno di assistenza umanitaria’; per questo ECHO mira a ‘far cessare la sofferenza delle vittime e a prevenire crisi future’, e dichiarazioni simili143. Colpisce il linguaggio in buona parte roboante e poco burocratico, più vicino ai discorsi emotivi delle varie Ong che a quelli tecnici e asciutti delle agenzie ONU. Povertà, sottosviluppo, catastrofi naturali e conflitti sono raggruppati sotto un unico ombrello, il cui effetto è il bisogno e la soluzione è l’assistenza umanitaria. Il mandato attribuito ad ECHO dall’Unione Europea è ‘di provvedere all’assistenza d’emergenza e alla salvaguardia delle vittime di disastri naturali o conflitti armati al di fuori dell’Unione Europea. L’aiuto è orientato a raggiungere direttamente i bisognosi, al di là della razza e delle loro convinzioni politiche o religiose’. Va aggiunto che ECHO non opera mai in prima persona, ma tramite partners stranieri o locali. Per ciò che riguarda i palestinesi in Libano, ad un rapido sguardo salta subito all’occhio la preponderanza di Ong italiane (CISP, Movimondo, CRIC, CESVI, COOPI)144.

Nella ‘Nota metodologica’ di ECHO, datata al febbraio 2006 e riguardante il ‘quadro dei bisogni umanitari globali’, si presume che l’intervento umanitario sia necessario, oltre che nei casi di povertà umana, disastri naturali e conflitti, malnutrizione e mortalità infantile elevata, nel caso di rifugismi e fenomeni di rifugismo interno; allo stesso modo anche i movimenti di popolazione sono uno dei quattro indicatori che orientano l’azione di ECHO: ovunque vi siano profughi l’ufficio umanitario dell’Unione Europea sarà legittimato ad intervenire. Nello stesso documento viene poi specificato che profughi e sfollati interni sono ‘l’effetto umanitario dei movimenti di popolazione’. Le popolazioni si spostano sul territorio e ciò stesso provoca il fenomeno dei profughi: ma perché invece le popolazioni si spostano? La risposta è:

Profughi e sfollati interni costituiscono uno dei gruppi di popolazione più vulnerabili in termini di improvvisa sofferenza umanitaria durante

142 Nel capitolo 3 si tornerà su questi temi.

143 Tutte le citazioni riguardanti ECHO sono tratte dal sito www.europa.eu.int.

144 Nel sito di ECHO non vengono fornite informazioni dettagliate sui progetti in corso, che invece possono essere

emergenze umane o naturali e loro conseguenze. Poiché questo è il più proprio mandato di ECHO, si è approntata una apposita categoria per provvedere a questi bisogni.

Emergenze umane o naturali, conflitti o catastrofi: ciò spinge la gente a muoversi, a fuggire, a sradicarsi. Queste persone vanno aiutate, nessun dubbio. Per le agenzie umanitarie è questo il momento di intervenire, ‘per promuovere – come si legge più avanti – l’autosufficienza tra la fase di emergenza (esodo) e la sistemazione definitiva (integrazione in un nuovo paese o reintegrazione nel luogo d’origine)’. È il presente che conta, l’evidenza in sé che vi siano masse umane in fuga. Conflitti o disastri naturali acuiscono i bisogni, la vulnerabilità, fanno irrompere questa ‘improvvisa sofferenza’; la sofferenza va alleviata introducendo i principi dello sviluppo, ma la provvisorietà resta. Ed è un ‘bene’ che resti, giacché solo in questa configurazione temporale ha senso l’intervento continuativo dell’operatore umanitario. L’emergenza apre la falla temporale in cui dovrebbe insinuarsi, prima, l’intervento umanitario, poi il progetto di sviluppo.

Nella ‘Strategia d’aiuto 2006’ di ECHO, per la zona geografica del Medio Oriente, la questione dei profughi palestinesi occupa naturalmente il primo posto. In breve vengono fotografate le condizioni pessime dei profughi, soprattutto in Libano, dove l’intervento di ECHO continuerà a focalizzarsi sul settore abitativo, sanitario, di accesso all’acqua potabile e salute pubblica, occupazione e assistenza ad anziani e disabili. Secondo ECHO oltre la metà dei profughi palestinesi in Libano vive in campi sovraffollati e non igienici, esclusi dall’assistenza statale e costretti ad affrontare una moltitudine di problemi socio-economici, anche ‘connessi con la continua assistenza della comunità internazionale’. Quest’ultima affermazione è particolarmente significativa, poiché possiede il merito di mettere in luce come l’aiuto umanitario non risolva il problema, ma ne sia una parte costitutiva. In un altro documento reperibile sul sito, ECHO lamenta che la dipendenza della comunità profuga dagli aiuti umanitari deresponsabilizzi i profughi circa alcuni principi igienici di base (ad es. la pulizia delle strade). Ciò accade nei campi ufficiali, perché in quelli non ufficiali i servizi igienici collettivi sono a pagamento (ad es. la nettezza urbana). ECHO inoltre sostiene cure mediche speciali e programmi sociali per anziani e assistenza psico-sociale dei giovani, aumenta l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici, finanzia medicinali ed equipaggiamento medico per gli ospedali gestiti dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, adatta le abitazioni alle esigenze dei disabili. Sebbene datato al giugno 2004, è interessante il ‘Rapporto finale-Valutazione delle decisioni umanitarie di ECHO in Medio Oriente e revisione della futura strategia di ECHO nel contesto della crisi palestinese’, poiché, a pertinenti considerazioni sulla questione palestinese, si aggiungono riflessioni sull’efficacia dell’operato di ECHO in questo ambito. Anzitutto è sottolineato come ‘la questione dei profughi in Libano sia essenzialmente politica’, non perché – come forse ci si aspetterebbe – i profughi rappresentino tuttora il contenzioso aperto con lo stato d’Israele, o perché pesino sulla delicata composizione politico-confessionale del Libano, figurando come merce di scambio fra fazioni filo-israeliane e fazioni filo-siriane, ma perché ‘la negazione dei diritti civili di base colpisce direttamente la loro dignità’. Detto altrimenti, la natura politica del rifugismo palestinese in Libano non viene fatta risalire ad un’adeguata, attenta e trasparente analisi storica e politica, ma viene limitata alla constatazione che la negazione dei diritti civili leda la dignità