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Guardare attraverso il prisma della cooperazione

2.2 Un puzzle antropologico

2.2.1 Profughi e UNRWA

Quando giunsi in Libano per il mio primo soggiorno sul campo, avevo portato con me l’opuscolo ‘La dichiarazione dei diritti umani’ edito in francese dall’Unione Europea. Ero stata incaricata di svolgere un progetto sulla memoria dei rifugiati palestinesi, di raccolta di testimonianze e storie di vita degli ormai anziani profughi del 1948, un progetto curato dalla ong italiana Un Ponte per… in connubio con la Ong palestinese Beit Atfal Assomoud (BAS), una delle organizzazioni locali più anziane e accreditate nei campi profughi in tema di educazione e salute dell’infanzia176. Dopo pochi giorni dal mio arrivo a Beirut, mi presentai negli uffici di BAS, per conoscerne gli operatori ed il presidente, nonché per discutere i dettagli del progetto. Pensai bene di portami ‘La dichiarazione dei diritti umani’ per regalarla alla Ong, un pensiero ed un ringraziamento insieme. Ma qualcosa andò storto. Quando la estrassi e la porsi agli operatori, un silenzio gelido calò fra di noi. Mi resi immediatamente conto dell’imbarazzo generale, e lo attribuii al fatto che il mio gesto avrebbe potuto essere recepito come presuntuoso. Ma il disagio che suscitai non era causato da una giovane ricercatrice inesperta che, fresca di studi, mostra la sua diligenza a dei veterani della cooperazione che lavorano fra mille difficoltà. Un giovane operatore infatti ruppe il silenzio e mi farfugliò che sarebbe stato meglio mettere via l’opuscoletto. Di fronte al mio sguardo interrogativo, anche la segretaria intervenne, spiegandomi che ‘certe cose non vanno rimarcate, che in questo contesto dichiarazioni di principio sui diritti umani e cose simili sono del tutto fuori luogo’. ‘La pratica è un’altra cosa – aggiunse – , qui fra i palestinesi nessuna dichiarazione dei diritti umani è mai stata fatta rispettare. Qui non esistono diritti, il resto sono chiacchiere’. Avevo cominciato col piede sbagliato. Capii, mi scusai, presi la Dichiarazione e me la rimisi in borsa.

Da questo episodio, per quanto insolito possa sembrare che simili cose accadano nei locali di una organizzazione non governativa ispirata ai principi della solidarietà e dell’uguaglianza, ho compreso uno fra gli aspetti più importanti del rapporto tra profughi palestinesi e cooperazione internazionale in Libano, un aspetto che in vari modi ho in seguito riscontrato nelle situazioni più diverse e con i più svariati interlocutori di origine palestinese, dal professore universitario all’operatore umanitario, dalla vedova del campo profughi con cinque figli a carico al venditore abusivo di arance. Comincerei definendo questo aspetto semplicemente ‘diffidenza’. I palestinesi che vivono in Libano, siano essi profughi o cittadini di qualche altro stato, diffidano degli aiuti internazionali. Non si fidano, soprattutto quando l’aiuto è promesso da una dichiarazione di principi o da una risoluzione dell’ONU. I giganti della cooperazione mondiale, ONU ed Unione Europea, non sono affatto benvisti, per via delle molte promesse non mantenute, delle dichiarazioni di principio non rispettate, delle risoluzioni rimaste lettera morta. E soprattutto per via dei singoli stati che li compongono e li finanziano e che, sotto la copertura di nobili intenti, svolgono le loro manovre politiche e perseguono i propri interessi economici:

Non ho fiducia nelle Nazioni Unite, affatto, perché dietro le Nazioni Unite si nascondono gli americani e gli israeliani (Bahya Dawood Al Saksak, campo di Shatila)177.

Testimonianze come quest’ultima sono frequentissime. Ancora qualche esempio, per mettere in luce un ventaglio di sentimenti oppositivi, dalle accuse di incoerenza a quelle di tradimento, da chi smaschera la natura istrionica dell’ONU a chi ne addita la non attendibilità:

Non mi fido affatto delle Nazioni Unite, e come potrei dal momento che continuano a trasgredire una risoluzione emanata da loro stesse, la risoluzione 194? (Mouhammad Omar Deeb, campo di Shatila)178

176 Cfr. la nota metodologica nell’Introduzione. 177 Intervista del 08-09-2003.

Non mi fido per niente delle Nazioni Unite, che hanno perso la faccia ben prima della guerra in Iraq, ben prima, quando non hanno difeso il popolo palestinese dall’invasione israeliana! (Kassem Mouhammad Abou Jamous, campo di Shatila)179

Per ciò che concerne il ruolo delle Nazioni Unite, io chiedo: come ci si può fidare di un uomo che una volta sta da una parte e la volta dopo sta dall’altra parte? Lo stesso vale per le Nazioni Unite (Mahmoud Mohamad Abedl Sallam Abul Hiejaa, campo di Burj El-Barajneh)180.

Se le Nazioni Unite avessero mantenuto una posizione chiara in tutto questo tempo, allora mi fiderei. Ma non è stato così, quindi non posso dire di fidarmi, proprio no (Khajrija Ali Dghein, campo di Burj El-Barajneh)181. Oggi mi sento rifugiata, certo, e come tale non mi fido di nessun partito politico, proprio nessuno. Lo stesso vale per le Nazioni Unite; e come potrei se Kofi Annan si è recato in Palestina, ha visto tutte le ingiustizie cui siamo quotidianamente sottoposti, ma non ha mosso un dito per noi? (Safia Ahmad Enibtawi, campo di Burj El-Barajneh)182

La reazione degli operatori di BAS di fronte al mio gesto ingenuo si spiega dunque con la diffidenza che essi condividono con migliaia di altri palestinesi. Per decenni le organizzazioni occidentali hanno stilato vari documenti di principio, dalla dichiarazione dei diritti umani alle carte che tutelano le condizioni di profugo, di senza-stato o di civili in guerra, ma nessuno di questi documenti ha mai superato in modo soddisfacente il rango di lettera morta. Compresi dunque come fosse del tutto fuori luogo raccontare ai rifugiati palestinesi cosa siano i diritti umani o istruirli sui loro diritti di profughi: farlo significherebbe farsi beffe di chi è già stato beffato. A riguardo, ma in altra occasione, Abu Mohammad del campo di Mar Elias fu alquanto esplicito: ‘Non capisco come l’UNRWA possa insegnare i diritti umani a dei bambini che vivono in case fatiscenti e mangiano male… A cosa serve? A prenderli in giro?’183. Per il ricercatore è una questione di ‘presa di misura’ del contesto che si accinge a esplorare.

Se è vero che una delle prime esperienze che un profugo affronta è la crisi della fiducia, a cominciare proprio dalla rottura sopravvenuta fra l’orizzonte abituale del riconoscimento e le nuove circostanze della fuga e del rifugio (Daniel, Knudsen, 1995), sarà intorno alla sfiducia (mistrust) che si andranno a ricomporre le relazioni con il nuovo contesto. Anche se la sfiducia in sé è in molti casi un valore culturale (Harrell-Bond,Voutira, 1995), tuttavia la sua centralità nell’esperienza del profugo la rende immediatamente visibile ‘sulla superficie di una coscienza velocizzata, ma il tormentato stato di consapevolezza che essa crea le impedisce di rientrare in un stato di agio e di comportamento largamente inconscio con le circostanze del suo mondo’ (Daniel, Knudsen, 1995: 2). Come pratica culturale e modalità di comunicazione, la fiducia costituisce un concetto situazionale così fragile che è tanto facile da rompere, quanto difficile da restaurare e ricomporre (Peteet, 1995: 169). In quest’ottica, l’intera esperienza di rifugismo è interpretabile come tentativo di ricostituzione della fiducia, di quella ricomposizione dei significati culturali e dei processi sociali che rendono nuovamente abitabile un mondo. Se una tale interpretazione appare forse troppo rappacificante (e soprattutto lascia in ombra la sapiente costruzione della sfiducia da parte dei vari attori, governativi e umanitari, che si rapportano ai profughi (de Voe, 1981: 90), tuttavia essa offre 179 Intervista del 11-09-2003. 180 Intervista del 25-09-2003. 181 Intervista del 02-10-2003. 182 Intervista del 08-11-2003. 183 Colloquio del 08-06-2007.

uno spunto interessante per comprendere il costante stato di allerta e vigilanza che mette in tensione i rapporti fra la comunità profuga e i maggiori interlocutori dai quali dipende la sua sopravvivenza materiale e, in alcuni casi, anche simbolica.

La diffidenza e la sfiducia che informano la relazione fra i profughi palestinesi in Libano e le organizzazioni internazionali sono sentimenti che attraversano le varie fasce sociali, ma non sono specificamente rivolti a qualunque forma di aiuto che provenga dall’estero. Esse si attivano in special modo intorno a quella dimensione ambigua che unisce insieme le politiche dell’aiuto, la sfera politica regionale e il processo di pace fra israeliani e palestinesi. Non a caso è questo il ruolo svolto dall’ONU e dall’Unione Europea, che, attraverso le rispettive agenzie umanitarie, influenzano l’equilibrio politico mediorientale, influiscono sui vari tentativi di avviare un processo di pace e finanziano progetti di cooperazione in funzione di strategie politiche formulate lontano dai campi profughi. Si ricordino i tentativi compiuti dall’UNRWA negli anni Cinquanta di reintegrare i profughi nei paesi ospitanti all’interno di ambiziosi piani di sviluppo regionali184: divenne chiaro in quella occasione come la scelta di una politica assistenziale fosse in grado di influire direttamente sugli esiti di un processo politico, o, viceversa, come una negoziazione fra attori statali e internazionali potesse condurre all’adozione di una condotta assistenziale in linea con le sue finalità strategiche, economiche e politiche. Ancora oggi, l’ostilità e la sfiducia dei palestinesi verso l’Agenzia è spiegabile con il fatto che il welfare che essa fornisce sia volto a reinsediarli permanentemente e svilisca l’aspirazione dei profughi al rimpatrio (de Voe, 1981: 92).

Per il rifugiato palestinese, l’Onu è quella organizzazione che dal 1949 lascia che la Risoluzione 194 – quella che sancisce il diritto al ritorno – resti inattuata e che, tramite l’UNRWA, provvede alla sopravvivenza della comunità profuga stessa. Come è possibile – si chiedono nei campi profughi del Libano – che l’UNRWA si prenda cura dei rifugiati palestinesi senza però interpretare il loro diritto più invocato, nonché il loro desiderio più forte, ossia la speranza mai sopita di ritornare alle proprie terre? Al contrario, provvedere alla sopravvivenza dei profughi significa anche, scindendo quest’ultima dalla cornice politica in cui si colloca, farli restare là dove sono, radicarli nei campi, luogo in cui si riceve l’aiuto, ri-localizzarli nel paese ospitante185. Come organismo specifico delle Nazioni Unite predisposto alla tutela dei profughi palestinesi, l’UNRWA diviene ‘simbolo di una forte ambiguità’:

non responsabile di trovare una soluzione duratura, resa incapace a causa della mancanza di volontà della comunità internazionale di implementare la Risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che si riferisce al diritto al ritorno e/o alla compensazione dei profughi palestinesi – una agenzia neutrale ma inevitabilmente imbricata in una questione altamente politicizzata e in se stessa strumento di politiche differenti e pressioni politiche (Van Aken, 2003: 257).

Fatta eccezione, come si è visto, per una forma di protezione fisica e di denuncia delle violazioni subite nel Libano della guerra civile e delle successive rappresaglie israeliane, nonché durante la prima e soprattutto la seconda Intifada, l’Agenzia non si è mai apertamente schierata a difesa dei rifugiati: ciò, pur in linea con il suo mandato, appare una contraddizione agli occhi dei profughi, se non addirittura una posizione in aperto conflitto con la lotta dei palestinesi. A tal punto che Lofte Mahmoud Setta, un anziano di 60 anni del campo profughi di Burj El-Barajneh, mi ha detto di credere che ‘l’UNRWA sia stata un’invenzione di Israele, perché il suo mandato concorre a far sì che i palestinesi dimentichino i loro diritti politici’186, in primis il diritto al rimpatrio. Sembra quindi che la tensione e la sfiducia nei confronti dell’UNRWA si declini anzitutto sotto forma di ‘competizione fra agende politiche’ (Harrell-Bond, Voutira, 1995: 215) alle quali ricondurre le

184 Cfr il paragrafo 2.1.1. 185 Cfr. il paragrafo 3.2.1. 186 Intervista del 27-09-2003.

forme dell’aiuto. Mentre , infatti, per l’Agenzia – per quanto essa si componga di una burocrazia tendente a perpetuarsi indipendentemente dalla soluzione della crisi per la quale fu istituita – l’assistenza ai palestinesi in Libano, conformandosi al suo mandato umanitario di neutralità e imparzialità, è frutto dei compromessi politici fra stati donatori, stati ospiti e le reali necessità della comunità profuga, per i rifugiati invece la priorità acclamata è un intervento politico che decongestioni la loro situazione, al quale ricondurre la tipologia di un aiuto di relief. Anche se si tornerà ampiamente sulla questione, per ora basti dire che l’odierna agenda politica dell’UNRWA condurrebbe a realizzare interventi di sviluppo e integrazione dei palestinesi nei paesi ospiti, mentre quella dei profughi acconsentirebbe al massimo a programmi di riabilitazione, educazione, sanità, a tipologie d’aiuto cioè che non portino con sé forme di reinsediamento né pregiudichino il diritto al ritorno. Se vista in questa prospettiva, paradossalmente la posizione del governo libanese, la quale pone il veto al radicamento della popolazione palestinese, contribuisce ad accordare le rispettive agende politiche intorno ad una modulazione degli interventi riconducibile al concetto di sviluppo ‘debole’ o ‘mobile’187.

Resta il fatto che nella percezione dei profughi, soprattutto i più anziani, l’UNRWA è uno strumento in mano alla comunità internazionale per influenzare gli esiti della loro lotta per il ritorno: pianificare l’assistenza ai palestinesi rientra a pieno titolo nei giochi e negli interessi della politica regionale e internazionale. L’incontro con Salah Salah, presidente della Ong palestinese Ajial, avvenuto nel suo ufficio nei pressi di Cola, a Beirut, suggerisce e conferma quanto detto sinora. Con l’orgoglio di un ex-leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (PFLP) in Libano, Salah colloca lucidamente la sfera degli aiuti all’interno di una strategia assistenziale volta a ristabilire definitivamente i palestinesi fuori dalla Palestina, e aggiunge perentorio: ‘il mandato umanitario conferito all’UNRWA è il primo strumento di cui gli israeliani si sono dotati per relegarci al di fuori del dibattito politico’188. Ma il risentimento di questo anziano ex-leader del PFLP nei confronti dell’UNRWA è riscontrabile anche sotto altre forme. Nel campo profughi di Beddawi, nel quale il riversamento di migliaia di sfollati dal vicino campo di Nahr El-Bared dal giugno del 2007 continua a produrre una crisi umanitaria di vaste dimensioni, una ragazza palestinese attiva nei soccorsi per conto dell’associazione di base locale Al-Amal, mentre impacchettava i kit di prima emergenza e senza nemmeno distogliere lo sguardo da quella frenetica attività, mi spiegava con angoscia come l’UNRWA non stesse facendo assolutamente nulla per loro: ‘nulla’ era la fornitura di ‘cibo, biancheria, coperte e questo genere di cose inutili’, mentre era un intervento politico per il cessate-il-fuoco e il ritorno alle case di Nahr El-Bared ciò di cui avrebbero avuto urgentemente bisogno189. Agende politiche differenti: l’una con l’effettivo potere di posporre la questione politica preponendo quella umanitaria, l’altra, senza nessun potere, diffidando l’azione umanitaria per sottolineare la priorità di un intervento politico che tarda a venire. Pure, questa giovane facilitator di Al-Amal proseguiva ad impacchettare, forse perchè i kit di soccorso non portavano il nome dell’Agenzia, non portavano proprio nessun nome, in quanto provenienti dalla pletora di organizzazioni palestinesi tempestivamente accorse a Beddawi. Ma quale donatore si nascondeva dietro questi pacchetti d’emergenza?

Motivata, dunque, dalla commistione fra umanitarismo e politica, questa diffidenza, che va dall’ostilità all’indifferenza, verso i ‘giganti dell’umanitario’ (Onu e Unione Europea) prende forma in particolare nei confronti dell’UNRWA. L’UNRWA diventa lo ‘spauracchio’ di ogni malfunzionamento nella comunità profuga. Con qualche ragione, certamente. I servizi dell’UNRWA – sanità, educazione, servizi sociali – non sono mai sufficienti a coprire tutte le necessità dei profughi, a maggior ragione da quando nel corso degli anni Novanta sono stati gradualmente ridotti i fondi cui faceva affidamento (Besson, 1997). È frequente raccogliere fra i profughi lamentele circa la scarsa disponibilità dei posti letto in ospedale o il sovraffollamento delle aule scolastiche, la mancanza di cure specifiche o l’impreparazione degli insegnanti, e così via. Le

187 Si tornerà sull’argomento in conclusione di questo lavoro. Cfr. inoltre i paragrafi 2.1.1 e 2.1.2. 188 Colloquio del 08-06-2007.

critiche dei profughi, sottolineando l’inutilità o l’insufficienza dell’assistenza dell’Agenzia, mostrano un risentimento generale ‘perché essa fornisce servizi scadenti, pensando che noi, soltanto perché siamo profughi, li accetteremmo’190. Ma cosa voleva dire Abu Mouhjaed, presidente dell’organizzazione non registrata, dunque illegale, Children & Youth Club (CYC) di Shatila, con quel ‘soltanto perché siamo profughi’? Forse che i rifugiati palestinesi, deprivati di tutto, devono accontentarsi delle donazioni che arrivano loro da lontano? Che l’UNRWA è meglio di niente? Probabilmente. Ed è ciò che ribadisce anche Abu Mohammad, ma senza il vigore di Abu Mouhjaed, quando alza le spalle nel suo negozio di alimentari nel campo di Mar Elias e si chiede retoricamente: ‘Come faremmo noi profughi senza neanche l’assistenza, seppur scadente, dell’UNRWA? É comunque meglio di niente’191.

Visto dall’esterno, dunque, con gli occhi di un profugo che beneficia dei suoi servizi, l’aiuto dell’Agenzia viene rimodellato sulla sfiducia, diffidenza e risentimento che ne informano le reciproche relazioni. Ma cosa avrebbe da aggiungere a ciò, invece, una visuale dall’interno dell’UNRWA e sull’UNRWA? Nonostante i ripetuti tentativi, incontrare un membro di quello staff internazionale che lavora negli uffici amministrativi, vicino alla cittadella sportiva nella parte appena ristrutturata di Beirut (seppure adiacente al quartiere sciita raso al suolo dall’aviazione israeliana nell’estate del 2006), è stato impossibile, forse per il sovraccarico di lavoro, forse per l’emergenza di Nahr El-Bared, forse perché non amano interviste inaspettate, poco importa. Ho invece incontrato per la prima volta Mahmoud Zaidan, palestinese, responsabile in Libano del programma UNRWA per i diritti umani, nel campo di Shatila, presso la spaziosa struttura – cosa assai rara nell’intrico di vicoli stretti e bui – del CYC di Abu Mouhjaed192. Mahmoud Zaidan conosceva bene il CYC, il suo direttore e parecchi dei suoi giovani facilitators. Fece naturalmente il giro dei saluti, e insieme visitammo il sotterraneo dove parecchi ragazzi erano indaffarati nella ripartizione in parti uguali dei beni di prima necessità (acqua e biancheria) destinati agli sfollati nel campo di Beddawi. Mahmoud Zaidan terminava una giornata di lavoro e ancora indossava l’abito impeccabile e guidava l’auto lussuosa fornitagli dall’Agenzia: la familiarità con cui approcciò i ragazzi del CYC mi stupì un poco, anche perché da parte loro registrai invece una certa complicità, una sorta di ironia rispetto al ‘fratello maggiore che ha fatto carriera’ – non riscontrabile invece verso i semplici dipendenti, come gli insegnanti. Lasciato il campo a bordo dell’auto con i vetri oscurati, Mahmoud sospirò: ‘Che stanchezza fare i profughi! È ora di riposarci, siamo stanchi! Ma come mi sento a casa qui!’. Egli era cresciuto fra i vicoli di Shatila, poi aveva proseguito gli studi in scienze politiche grazie alle borse dell’UNRWA, infine, laureatosi a Malta, aveva concorso per un posto vacante all’interno dell’Agenzia, ed ora eccolo, così giovane, a ricoprire una posizione di una certa responsabilità, una posizione però alquanto difficile e scomoda, quella di responsabile per il programma dei diritti umani in Libano. In cosa consisteva il suo lavoro, dunque? Come esperiva il ruolo di dipendente dell’UNRWA, oltretutto in un ambito così delicato – come si è visto – come quello dei diritti umani? ‘Al complesso di inferiorità dovuto alla negazione di un’identificazione pubblicamente riconosciuta’ – spiegò – si aggiunge

per noi che viviamo in Libano la sensazione di essere estranei sempre, a disagio, con la paura di essere ogni volta discriminati. Personalmente, ho scelto di combattere la mia battaglia di palestinese sul fronte dei diritti umani. Perché, visto che è così difficile parlare di diritti umani ad un popolo che li ha sempre sentiti nominare, ma non ha mai avuto il piacere di vederli applicati? Sembra assurdo, no? Io credo nei diritti umani e nella legalità internazionale, ho fiducia, ma non perché io creda nel diritto in sé o nella bontà dei governi, no. I diritti umani costituiscono una potenzialità, se li consideriamo come un mezzo, uno strumento per non abituarci mai a certe

190 Colloquio del 05-06-2007. 191 Colloquio del 08-06-2007. 192 Episodio del 05-06-2007.

nefandezze. Quando faccio il giro delle scuole UNRWA e istruisco gli insegnanti sui modi di educare i bambini ai diritti umani, mi rendo perfettamente conto che tutti hanno perso ogni speranza nei diritti umani. Ma il mio punto è: noi profughi corriamo il rischio di abituarci alla violenza e di non vederla più come tale, di non riconoscerla più come una violazione dei nostri diritti inalienabili. Ecco che l’educazione ai diritti umani