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Profughi e cooperazione a confronto: oltre mezzo secolo di aiut

3.1 Memoria, identità e località: un’ipotesi di partenza

Così, inquieti, prendiamo stanza, se possibile presso ai confini Aspettando il giorno del ritorno, qualsiasi minimo cambiamento Oltre il confine spiando, ogni nuovo venuto

febbrilmente interrogando.

(Brecht, 1964: 128)

Per condurre una riflessione appropriata circa i rapporti fra la comunità palestinese in Libano e gli interventi assistenziali in merito a località, politicità e soggettività, nonché per rintracciare le modalità con cui gli attori della cooperazione che si sono visti intervengano in tali ambiti, sembra opportuno prendere le mosse da un’analisi dell’identità e della memoria dei profughi288. Coniugando insieme, infatti, alcuni spunti tratti dai Diaspora Studies con alcune ricorrenze presenti nelle riflessioni degli interlocutori palestinesi con i quali ci si è intrattenuti, è stato possibile formulare un’ipotesi in merito alle dinamiche di reciproca interazione fra memoria e identità messe in atto dalla comunità rifugiata, le quali configurerebbero la sua peculiare cultura della diaspora. Questa si rivela pertinente per la comprensione delle modalità attraverso le quali i profughi informano l’‘abitabilità’ del loro presente, sotto i profili delle tre tematiche appena menzionate. Caratterizzata non solo dall’esperienza dello sradicamento, ma soprattutto da quella di un non avvenuto reinsediamento, la comunità palestinese in Libano ha sviluppato a riguardo una particolare interazione fra identità e memoria, la quale ponga significativamente in relazione l’immaginario del là (Palestina) e del qui (Libano), ossia chiama direttamente in causa la percezione della località. Ciò lascia emergere come la sospensione e il limbo abitativo così creatisi siano funzionali ad una mobilitazione politica dei rifugiati palestinesi in merito alla lotta per il diritto al ritorno, o si rivelino al contrario in opposizione ad una strategia politica che persegua il riconoscimento dei diritti civili e politici in Libano. Come si noterà, dunque, intorno alla produzione della località si attivano differenti strategie politiche, le quali, a loro volta, sono foriere di diverse prospettive e progettualità future, ovvero di una diversa desiderabilità della vita. In questo senso, tali differenze sono andate costruendosi intorno ad uno scarto generazionale che sembra tracciare una forma di conflittualità fra quelle più anziane, legate al ritorno e resistenti ai tentativi di assimilazione tramite programmi di sviluppo, e questa ultima generazione, maggiormente incline a battersi per quei diritti, il riconoscimento dei quali aprirebbe la prospettiva dell’integrazione in Libano.

Per quanto una simile indagine circa memoria e identità fra i profughi palestinesi in Libano meriti senza dubbio maggiori approfondimenti, in questo caso ci si limiterà tuttavia a proporne una sintesi, con la finalità di mostrare come le pratiche degli attori assistenziali ne siano imbricate e siano in oltre in grado di orientare la mobilitazione politica che può derivare da una certa combinazione di queste. È importante sin da ora chiarire che l’attivazione delle nozioni di memoria e identità non vuole con esse intendere campi statici e reali del sapere antropologico, né tantomeno fenomeni tangibili nella quotidianità delle persone, quanto piuttosto si propone di utilizzarle ai fini della comprensione in qualità di ‘focolari virtuali’ – parafrasando Claude Lévi-Strauss (1996: 310) – ai quali ‘riferirsi per spiegare certe cose’, ma senza che esse abbiano un’‘esistenza reale’.

Come si è già spiegato in precedenza, la prima ricerca sul campo di chi scrive si svolse anche all’interno di un progetto di raccolta delle memorie degli anziani rifugiati del 1948: ciò ha consentito un avvicinamento e una frequentazione maggiori dell’interazione fra memoria e identità dei profughi di quanto non avrebbe permesso una indagine limitata all’ambito della cooperazione e dell’assistenza umanitaria. Annotando infatti le storie di vita dei rifugiati, a cominciare da quelli che hanno personalmente vissuto la nakba, ascoltando cioè come la comunità palestinese ricordi se

288 Per la tematizzazione delle relazioni fra identità e memoria collettiva, circa cioè le modalità con cui una comunità

ricostruisce il proprio passato in funzione dell’identità con cui si restituisce al presente, cfr. almeno i classici Halbwachs (1987), Hobsbawm, Ranger (1987) e Anderson (1991). Sui processi di costruzione della memoria collettiva cfr. inoltre Assmann (2002), Connerton (1999), Jedlowski (1989), Montesperelli (2003). Riguardo invece i rapporti fra memoria collettiva e memoria individuale cfr. Leone (2001), Bodei (1995), Oliverio (1994).

stessa e, attraverso un’operazione selettiva del ricordo (Fabietti, Matera, 1999), si immagini e si restituisca al presente, si possono rinvenire alcuni spunti che concorrono alla formazione e al mantenimento di un’identità collettiva, ovvero di un’‘immaginativa politica’ (Assmann, 1997: 99 e sgg.): per immaginativa politica si intenda precisamente la connessione fra due dimensioni, quella temporale e quella sociale, da cui risulta appunto ciò che si può chiamare ‘identità collettiva’. Attraverso l’immaginativa politica l’uomo si lega, al contempo, al passato e al suo prossimo, creando uno spazio comune di attese e azioni. Se ‘per ogni gruppo umano gli eventi del passato raccolti dalla memoria collettiva sono fondamentali per la costruzione della propria unità e specificità’ (Callari Galli, 1998: 186), lasciando intravedere come il carattere relazionale della memoria sia indice della reciproca strutturazione fra una comunità e la memoria che essa detiene (Ganguly, 1992); se poi si nota come, per quei soggetti diasporici quali sono i profughi, ciò che la memoria non può prescindere dal ricordare è un eventum, un’irruzione della storia, uno spartiacque a partire dal quale diventa necessaria un’operazione di reidentificazione collettiva289; se, infine, per i profughi palestinesi, questa memoria costituisce la fonte principale di designazioni sulla quale misurare il chi-siamo-noi-oggi (cfr. Giaccardi, 1999; Cremona, 2005), si può inoltre affermare che questa intera dinamica scandisca, propriamente, la formazione di un particolare ‘tempo culturale’ (Assmann, 1997: 99 e sgg.).

Il ‘tempo culturale’ comprende i modi e le forme, diluite in tempi relativamente brevi, con cui una comunità si restituisce culturalmente, ossia restituisce, ripetendole, rappresentazioni e pratiche culturali finalizzate alla sua sopravvivenza simbolica. Specificamente, quando è l’esercizio stesso della memoria ad informare di sé il ‘tempo culturale’ di un gruppo, come nel caso qui analizzato, allora ciò che ne risulta è la continua reiterazione di una specifica relazione con il tempo, una replicazione sulla quale si gioca la sopravvivenza culturale del gruppo, ossia ne risulta una ‘cultura del ricordo’ (Ibidem). Sarebbe quindi, secondo questa ipotesi, la reiterazione di una specifica relazione con il tempo a fare di una comunità dislocata una comunità diasporica. Per i profughi palestinesi in Libano, la memoria, ‘proprio in quanto garanzia della continuità (e della legittimità) di un tale radicamento spazio-temporale’ in Palestina, ‘svolge un ruolo cruciale nel saldare il legame fra un popolo e la sua identità’ (Fabietti, Matera, 1999: 28), divenendo lo strumento centrale ‘per la preservazione dell’identità palestinese nella diaspora’ (Siddiq, 1995: 88), una ‘forza sociale viva’ di coesione del gruppo (Pratesi Innocenti, 2005: 128): se si legge l’esodo forzato come un disturbo indotto nel social world del profugo (Marx, 1990) o una ‘frattura’ sopravvenuta nel suo ‘sistema sociale e cognitivo’ (Knudsen, 1991: 23), o, ancora, come un’interruzione dei processi culturali di gruppo (Daniel, Knudsen, 1995), la memoria tende a costituire un ‘terreno ideologico dove le persone presentano se stesse a se stesse’ (Ganguly, 1992: 29), offrendosi in qualità di ‘quadro normativo in cui il chi-si-era sia stabilito con certezza’ (Idem: 5), in grado cioè di riattivare quella stessa processualità culturale e ricreare la ‘geografia sociale della fiducia’ (Peteet, 1995: 174). In questo senso, l’identità del profugo risulterà più ancorata al passato che al presente, più ‘a ciò che si era, che a ciò che si è divenuti’ (Daniel, Knudsen, 1995: 5), o, meglio, sarà il frutto di una sottomissione al passato del presente, poiché la loro continuità viene stabilita ‘estendendo le conseguenze del fatto traumatico [la nakba, nda] a tutti i momenti dell’esistenza’ (Fabietti, Matera, 1999: 181). Sotto la minaccia che l’etichetta di profugo esercita sulla possibilità stessa di accertarsi della propria identità individuale, ossia in una situazione dove la capacità dei singoli di definire se stessi e il proprio legame con la comunità tenda ad essere espropriata e delegata ad una fonte designativa astratta (giuridica o politica), la memoria può trasformarsi in resistenza collettiva, diventa cioè il sapere garante dell’identità condivisa. Ricordati di ricordare: in breve, l’aspetto che qui più interessa considerare, e che verrà a suo tempo valutato, è come

289 Riprendendo Assmann (1997), Fabietti e Matera affermano che ‘in ogni comunità esiste una sorta di comune sentire

(…), un collante (…) che lega gli individui, che così possono pensarsi come un ‘noi’. (…) Laddove, per effetto di eventi improvvisi, dovessero modificarsi le dimensioni dello spazio e del tempo di un gruppo, è presumibile qualche ripercussione sulla composizione e sulla presa di questo collante’ (1999: 18).

la cultura del ricordo [faccia] parte della progettazione e della speranza, ossia della formazione di orizzonti concettuali e di tempo sociale. La cultura del ricordo si basa in gran parte, anche se niente affatto esclusivamente, su forme di riferimento al passato. Ora, [...] il passato nasce solo nel momento in cui ci si riferisce ad esso (Assmann, 1997: 7).

In relazione all’identità dei profughi palestinesi che si è avuto modo di conoscere e frequentare, queste considerazioni si rivelano particolarmente pertinenti, dal momento che la maggioranza degli aspetti della loro quotidianità si richiama continuamente al passato, sia che si sopravviva istituendo con il passato una forte continuità, e sia, invece, che lo si rimuova per sopravvivere. I campi profughi sono osservabili come ‘luoghi di costruzione di memoria’ (Fabietti, Matera, 1999: 37), costituendo una ‘spazializzazione del ricordo’, come Rosemary Sayigh aveva già rilevato nel 1977: ‘i campi, nonostante le loro terribili condizioni materiali, diedero vita a solidarietà e ad un senso di continuità con il passato’ (1977: 38). Questo aspetto è stato più volte rimarcato dagli anziani interlocutori, come, fra gli altri innumerevoli, nel caso di Khajrija Ali Dghein290:

nonostante la vita del campo sia molto dura, io preferisco vivere dentro al campo, perché qui siamo quasi tutti Palestinesi, stiamo vicini e continuiamo a ricordare quello che abbiamo patito. Se affittassi una casa fuori dal campo, ho paura che mi dimenticherei tutto. Quindi vivere dentro al campo tiene viva la mia memoria

Nel corso di una pausa del racconto di Khajrija, un’anziana vedova del campo di Burj El-Barajneh, dal profilo esile ed il portamento incerto, presi ad osservare la serie di cimeli e oggetti della memoria che la sala della sua abitazione ospitava, e che avrei rinvenuto, senza considerevoli variazioni, in tutte le case dei campi che ebbi occasione di visitare: la cartina geografica con i confini della Palestina storica, una sua incisione su rame con i colori della bandiera nazionale palestinese, il poster con la moschea di Al-Qudd, il ritratto di un giovane Arafat, alcuni consunti ritagli di giornale raffiguranti i bambini dell’Intifada in procinto di scagliare pietre, e infine i ritratti fotografici dei cari assassinati durante la guerra civile libanese o le operazioni israeliane. Erano tutti ‘oggetti di memoria (…) che acquistano un alto valore simbolico per il fatto di condensare alcune rappresentazioni cruciali del passato della comunità (Fabietti, Matera, 1999: 63). Ad interrompere questa contemplazione sopraggiunse un ragazzo poco più che adolescente, nipote di Khajrija, il quale, vestito di blue-jeans, cappello con visiera calzato alla rovescia e una maglietta di qualche calciatore, salutò la nonna e prese posto fra noi. Khaled – questo il suo nome – approfittò di una distrazione del colloquio per mostrarmi il suo talento di ballerino break-dance e le sue doti di cantante rapper. La nonna, assai poco divertita – a differenza di altri familiari richiamati dal rumore di quella esibizione improvvisata –, sospirando spiegò che Khaled era il maggiore dei suoi nipoti e che, invece di adoperarsi per aiutare economicamente la famiglia, era ossessionato di partire, emigrare verso qualche destinazione europea. La fotografia del suo defunto padre sovrastava la gestualità ritmata che il ragazzo aveva appreso imitando i protagonisti musicali della TV satellitare. Terminata l’intervista con la nonna, Khaled volle mostrarmi la terrazza della casa, dalla quale il profilo del campo di Burj El-Barajneh si confondeva con l’agglomerato urbano di Beirut, avvolto nel tramonto. Non domandò nulla circa le opportunità di sopravvivenza in Europa; diede invece sfogo ai suoi sogni fuori dal Libano, lontano dai campi profughi palestinesi. Raccontò di un suo coetaneo che l’anno precedente era riuscito ad approdare in Germania: costui aveva creato un sito web nel quale quotidianamente aggiornava i suoi compagni rimasti in Libano circa le avventure e le traversie che aveva dovuto affrontare, diventando una sorte di eroe fra i profughi adolescenti desiderosi di seguirne le tracce. Il suo sguardo brillava mentre lasciava intendere di essere riuscito a

racimolare una discreta somma di denaro, con cui pagare il viaggio che l’attendeva e che, di lì a poco, l’avrebbe traghettato verso l’altra sponda del Mediterraneo. Mentre ascoltavo, pensavo invece a sua nonna Khajrija, la quale tutti i giorni avrebbe continuato ad osservare gli oggetti che riempivano il suo salotto e che, forse, più che ad una memoria biografica, appartenevano ad una iconografia politica collettiva; la immaginavo prendersene cura ed in essi trovare riparo e riposo. Per questa anziana donna quei cimeli di memoria rappresentavano un passato al quale continuamente fare ritorno, ne delimitavano i confini, ne racchiudevano un ‘al di qua’; al contrario, per suo nipote Khaled, essi probabilmente costituivano un limite, un ostacolo che gli impediva di immaginarsi un ‘al di là’, una prospettiva di vita differente, una desiderabilità che travalicasse la storia di sua nonna e di sua padre, e che fosse libera di figurarsi un futuro senza debiti con il passato (Serhan, Tabari, 2005: 41). Era così che, reinscrivendo la propria biografia individuale in una ‘allegoria collettiva’ (Siddiq, 1995: 88; cfr. anche Jedlowski, 1999), gli sforzi che l’anziana Khajrija compiva per tenere viva la memoria del suo popolo tracciavano le sponde di un’identità che aveva la pretesa di dire anche chi fosse suo nipote, e dinnanzi alla quale diveniva sempre più faticoso obiettare che lasciare il campo e andarsene altrove non avrebbe implicato un tradimento della lotta per il ritorno o un ‘inquinamento’ dell’identità palestinese (cfr. Peteet, 1995: 179; Farah, 1998: 182), ma semmai un loro mutamento, un riadattamento in relazione a precise trasformazioni storiche e sociali:

si può affermare il proprio presente (di individuo oppure di collettività) attraverso la continuità con il passato, quindi nel rispetto della tradizione, spingendosi fino all’esaltazione, alla celebrazione e alla commemorazione del passato, oppure attraverso una rottura radicale con esso, quindi accogliendo l’innovazione, spingendosi fino alla cancellazione, all’oblio, al divieto del ricordo; e tuttavia tra questi due estremi si colloca una serie continua di possibilità intermedie, ciascuna individuabile solo in relazione alla situazione storica, sociale e culturale specifica che l’ha posta in atto (Fabietti, Matera, 1999: 17).

Ma tornando a Khajrija e agli anziani e meno anziani che, come lei, profilano un futuro proiettato all’indietro, dando luogo ad una forma di ‘presente non presente’, incominciano a tracciarsi i contorni di un profugo come ‘figura dell’Assente’, la quale ‘si percepisce come un essere-territorio, un esiliato che porta con sé il proprio luogo natale e la propria patria. Ed è su questo territorio

scomparso’ e, tramite la trasmissione della memoria, ‘salvato da quando si è insediato nel corpo dei suoi figli, che nasce e prende forma il sentimento del ritorno’ (Sanbar, 2005: 195. Corsivo dell’autore)291.

Se si intende per diaspora non soltanto l’esperienza dello sradicamento, ma anche e soprattutto quella di un non avvenuto reinsediamento, si rileva come l’identità si cali in una dimensione di sospensione all’insegna, nel caso dei profughi palestinesi in Libano, di una resistenza (armata, disarmata, politica, morale) incondizionata: l’intero procedimento di produzione dell’identità avviene alla luce della perseveranza e dell’attesa, o, meglio, del rimando ad un sempre posposto assetto spazio-temporale, come lascia intuire Elias Sanbar (2005: 232):

Appostati alle frontiere della loro patria, e anche alle frontiere della durata, in un territorio in cui il tempo non trascorre che in termini di attesa, sempre minacciati dal rischio di radicarsi, di stabilirsi (…), i rifugiati diffidano molto di tutto ciò che potrebbe somigliare da vicino o da lontano a un insediamento.

291 La terra perduta ‘si insedia’ nel ‘corpo dei suoi figli’ attraverso la memoria, la quale viene paragonata dall’anziano

Hafiz Ali Othman (campo di Shatila) ad un cibo di cui nutrirsi: ‘tutti noi anziani raccontiamo, e così facendo nutriamo i giovani: la memoria della Palestina è il nostro pasto comune’ (intervista del 10-09-2003).

Resistenza significa anche far fronte all’‘ossessione della morte culturale’ (Saint-Blancat, 1995: 22) tramite la coltivazione della memoria come ciò che garantisca ‘la sopravvivenza di quel processo culturale’ (Daniel, Knudsen, 1995: 4) sovvertito con l’esodo, ma che diviene necessario riattivare per durare nel tempo. La resistenza forma l’orizzonte stesso dell’attesa, poiché non è più immaginabile (o non lo è ancora) che cosa accadrebbe dopo e senza di essa. Tale è il grado di sfibramento e disillusione diffuso soprattutto fra le generazioni più anziane di profughi: fare della resistenza ciò che tiene aggregato il proprio universo simbolico, non più lo strumento dell’attesa, ma l’attesa medesima, informare il proprio presente come un rimando sempre a venire che attinge ad una perdita (la Palestina, la terra, la casa, l’infanzia, la giovinezza), e restituirsi in una narrazione compressa nella memoria, sospesa nel presente ed impraticabile, forse, nel futuro. Anche in questo senso si propone di usare il termine diaspora, ad indicare proprio la formula di compressione nel passato, sospensione nel presente ed impraticabilità nel futuro di un’identità nella quale ci si riconosce e che ci rende riconoscibili agli altri.

Guardando ai rifugiati palestinesi che risiedono in Libano, per espletare l’intera parabola di profugo non è stato sufficiente venire sradicati dalla propria unità abitativa, ma è anche stato ‘necessario’ trovarsi poi in condizioni tali per cui i tentativi di reinsediamento sono falliti, o sono stati del tutto temporanei o volutamente impediti dall’esterno (le politiche governative libanesi) o dall’interno (il rifiuto della comunità profuga stessa). L’idea del campo profughi rimarca questo duplice aspetto: lo sradicamento da una dimensione abitativa precedente, dove ambiente e abitare292 collaboravano alla loro sostanziale corrispondenza concettuale ed esperienziale, da un lato, e, dall’altro, il non avvenuto insediamento, che sancisce la spaccatura di questa corrispondenza e la rende permanente e irrimediabile, tanto da occupare l’intero orizzonte dell’attesa politica collettiva. Riflettendo sulla perdita della Palestina, una volta Kadra Mouhammad Ibriq293, del campo di Shatila, affermò: ‘quando mi è stata sottratta, non solo mi sono sentita divisa in due, da una parte la terra e dall’altra il mio corpo, ma molto, molto di più ho percepito che tutto ciò che il mio corpo conteneva mi era stato portato via’. Questa considerazione suggerisce proprio l’avvenuta discrasia fra la capacità di provare agio in un luogo, fra il sapere non tematizzabile che è inscritto in un corpo che semplicemente abita il suo ambiente, e il luogo, l’ambiente in cui quel sapere si è formato e sviluppato. Si delinea così un parallelismo, o forse una suggestione: la memoria crea temporalità e getta ponti, così come la diaspora è un senso temporale, un ponte esso stesso, gettato fra qualcosa che si è perso e qualcosa che non si è ancora trovato, fra qualcosa che è presente nell’assenza e qualcosa che è assente nella presenza.

Approfondendo questa ipotesi, si delineerebbero così due polarità, la cui reciproca attrazione configura proprio l’identità in traslazione, in transizione, propria delle comunità diasporiche, ossia delle culture della diaspora: da un lato, la terra abitata prima dello sradicamento (Palestina) è una ‘presenza assente’, dall’altro, la terra in cui non ci si è insediati (Libano) è un’‘assenza presente’. Da una parte, la memoria condivisa fa della Palestina una presenza pervasiva e costantemente immaginata, ‘lo spazio lontano’ che ‘pesa su quello vicino, investendolo da tutte le parti con una presenza massiva, con una stretta indisserabile’ (Giordano, 1997: 54); nei racconti degli anziani la Palestina torna attraverso un’irripetibile articolazione di dettagli (l’infanzia, le persone, i frutti, le case, gli odori, ecc.)294, mentre nell’immaginario della generazione più giovane assume la valenza

292 Anche se nel prosieguo del paragrafo verranno fornite alcune delucidazioni a proposito della nozione di abitare,

tuttavia un adeguato approfondimento di tale nozione ci porterebbe troppo lontano dal percorso che ci si è proposti di seguire. In merito si segnalano i testi di Carsten e Hugh-Jones (1995), Rapport e Dawson (1998), Adamson (2002) – che analizzano i mutamenti subiti dalla pratica dell’abitare in una prospettiva transnazionale –, La Cecla (1993), Castelli Gattinara et al. (1981), Perrucci (1997), Giordano (1997) – che invece considerano l’abitare come pratica in sé e in