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Profughi palestinesi: una ricognizione geopolitica

1.1 La diaspora, le diaspore

Sono diventato l’unico forestiero. (...) Perché mai la patria libanese, il pane egiziano e il tetto siriano sono diventati la negazione della Palestina? E perché mai la Palestina è la negazione della Palestina? (Mahmoud Darwish, 1997: 71)

They killed me once

Then wore my face many times

(Samih Al-Qasim, How I Became an Article)38 La diaspora palestinese si compone di una architettura geopolitica complessa. Il suo ordito è insieme storico e geografico, sociale e politico, antropologico e giuridico. Gli effetti della sua deriva nella storia del secondo Novecento sono riscontrabili in un numero sconcertante di paesi, a cominciare da quelli coperti dal mandato dell’UNRWA – ossia Libano, Siria, Giordania, West Bank e Gaza Strip –, ai paesi del Golfo – dall’Arabia Saudita all’Iraq, dall’Egitto alla Libia –, dai paesi mediterranei (Maghreb compreso) a quelli nord europei, fino alle due Americhe (cfr. Lindholm Schulz, 2003). Procedendo a ritroso lungo la genealogia del rifugismo palestinese, si arriva ad una data incontestabile, inequivocabile: 15 maggio 1948, scadenza del mandato britannico in Palestina, data di nascita dello Stato di Israele, ufficiale inizio dell’odissea dei profughi palestinesi. Per tutti i palestinesi questo giorno di sessant’anni fa coincide con la nakba (‘catastrofe’)39. Su questo punto, ossia sul significato simbolico che questa data rappresenta, anche le versioni storiografiche più contrastanti sono costrette a convenire.

Considerando che la presenza ebraica in Palestina era stata costante e minoritaria nei secoli, fu con l’arrivo, fra gli ultimi due decenni dell’Ottocento ed i primi due del Novecento, dei primi pionieri ebrei occidentali – nel corso della prima, della seconda e della terza aliyah (‘ascesa ad Israele’) – che prendeva forma il progetto sionista di insediare un focolare nazionale ebraico in Palestina40. È nel corso della Prima Guerra Mondiale – con l’entrata in guerra dell’Impero ottomano, che ricomprendeva anche la Palestina, a fianco degli Imperi centrali, con la rivolta araba contro la stessa dominazione turca nel 1916, con la stipulazione, nel medesimo anno, dell’accordo segreto di Sykes- Picot, con il quale Francia e Gran Bretagna si spartivano il Medio Oriente, senza tenere in considerazione le aspirazioni nazionaliste dei popoli arabi – che il movimento sionista divenne funzionale alle mire espansionistiche europee. Infatti, non soddisfatta dell’accordo di Sykes-Picot, la Gran Bretagna decise allora ‘di giocare la carta del sionismo’ (Massouliè, 1993: 25). Ed è in questa prospettiva strategica che va letta quella che è passata alla storia come la Dichiarazione di Balfour: il 2 novembre 1917, l’allora Ministro degli Esteri inglese James Balfour scriveva a Rothschild, rappresentante del comitato politico dell’Organizzazione sionista, che la Gran Bretagna vedeva con favore l’insediamento ebraico in Palestina e si rendeva disponibile a conseguire questo obiettivo. In questo modo, la Gran Bretagna riconosceva e si faceva garante del progetto sionista, sollevando l’aspra opposizione del mondo arabo. Mentre nel 1920 l’amministrazione militare della

38 In Al-Qasim, Adonis, Darwish (1984: 71).

39 ‘Per i palestinesi – scrive Bernard Lewis – e più in generale per gli arabi questo evento (la nascita dello Stato di

Israele, nda) non fu la realizzazione di una profezia ma un’usurpazione. La nascita di Israele (…) fu un momento determinante nella storia moderna del mondo arabo nonché il punto di partenza di tutta una serie di mutamenti sociali, culturali e in definitiva politici. Questo evento è ormai conosciuto tra gli arabi col nome di nakba, o calamità, un termine che riecheggia il più antico nahda (rinascita o rinascimento) usato per indicare il risveglio della coscienza e della creatività arabe dopo lunghi secoli di torpore e di inazione sotto il dominio straniero’ (2000: 28).

40 Circa la genesi e la storia del conflitto israelo-palestinese il materiale a disposizione è pressoché sterminato. Cfr.

Emiliani (2007a), Pappé (2005), Said (2002 e 1995), Morris B., (2001, 2004 e 2005), Codovini (1999), Friedman (1999), Kimmerling, Migdal (1993), Gresh (1988).

Palestina cedeva il posto a quella civile, l’Alta Commissione per la Palestina e l’Agenzia ebraica si coordinarono per facilitare l’acquisto di terra da parte degli immigrati ebrei, scatenando la prima rivolta palestinese di Giaffa nel 1921 e una serie di scioperi generali. A consolidare questa situazione contestata su più fronti, la neonata Società delle Nazioni ratificò, nel 1922, il mandato britannico sulla Palestina. Il risultato di questo complesso gioco di pressioni e alleanze, spartizioni e appoggi fu che ‘99.806 ebrei emigrarono in Palestina fra il primo settembre 1920 e il 1929. Il numero degli immigrati crebbe da 9.500 nel 1932 a 33.000 nel 1933, e a 43.000 nel 1934, crescendo ancora a 62.000 nel 1935 – escludendo le migliaia che erano entrate clandestinamente in Palestina’ (Sharif, 1970: 56). In altre parole, se nel 1882 erano circa 20.000, alla fine del 1935 gli immigrati ebrei contavano un numero di circa 200.000 unità, andando a costituire il 30% della popolazione della Palestina.

Di fronte ai ripetuti rifiuti britannici di istituire un governo rappresentativo palestinese e di limitare l’immigrazione ebraica, i tumulti arabi si estesero nel 1929 all’intero paese, e nel triennio 1936-39 presero la forma di una vera e propria rivolta contro i coloni ebrei e l’esercito inglese41. Nel 1937, durante una tregua, la commissione Peel, istituita per condurre un’inchiesta sulla rivolta, prospettò per la prima volta la spartizione della Palestina in due stati: per i sionisti era la prima conquista significativa, per i palestinesi era la prima avvisaglia di riconoscimento di uno stato ebraico in Palestina, proprio mentre gli altri paesi arabi conquistavano la loro formale indipendenza. Constatata ben presto l’impossibilità di una tale spartizione, nel 1939, con l’emissione della nota

White Paper, la Gran Bretagna stabilì di limitare l’immigrazione ebraica, in modo che non superasse un terzo della popolazione totale, e propose la creazione di un governo a partecipazione palestinese ed ebraica. Quest’ultimo provvedimento, il quale segna una netta virata politica del governo inglese nei confronti delle aspirazioni sioniste, ben si spiega col fatto che, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe stato sconveniente per la Gran Bretagna suscitare l’ostilità dei paesi arabi, sensibili alla propaganda anti-britannica del nazismo. Entrambe le parti rifiutarono con forza la White Paper. Da questo momento in poi, sull’onda dello scandalo prodotto dal voltafaccia britannico, l’immigrazione ebraica in Palestina proseguì clandestinamente e il movimento sionista si propose la fondazione di uno stato ebraico come una vera e propria conquista militare; l’Haganah, l’Irgun ed il gruppo Stern (le tre formazioni militari ebraiche) aprirono la lotta armata sia contro i guerriglieri arabo-palestinesi e sia contro l’amministrazione inglese. Era l’ottobre del 1945. Poco dopo, la scoperta del genocidio nazista rese necessaria la discussione della questione della palestinese sul piano internazionale: il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite42 votò la prima spartizione della Palestina fra uno stato ebraico e uno stato palestinese, con Gerusalemme posta sotto sovranità internazionale. Nuovi, violenti scontri non tardarono a scoppiare, e tristemente noti sono i massacri compiuti da entrambe le parti, fra cui particolarmente cruento fu quello, alle porte di Gerusalemme, del villaggio di Deir Yassin (9 aprile 1948) ad opera dell’Irgun, ed altri, meno noti e ancora tutti da indagare, come quelli nei villaggi di Safsaf, Eliaboun, Tantura, Majdal Kroom e altri (cfr. Palumbo, 1987; Morris, 2001; Masalha, 2001); dal primo gennaio 1948, a sostegno dei palestinesi, cominciarono ad affluire in Palestina volontari da tutti i paesi arabi. L’amministrazione inglese stava ormai smantellando le sue postazioni, pronta alla totale evacuazione stabilita per il 15 maggio 1948. In questo stesso giorno fu dichiarata la nascita dello Stato d’Israele e le truppe degli eserciti regolari arabi entrarono in Palestina. Nonostante i ripetuti tentativi di mediazione delle Nazioni Unite ad opera del conte Folke Bernadotte (assassinato da un estremista sionista nel luglio 1948), gli insediamenti ebraici furono riforniti di uomini e di armi e gli scontri proseguirono: nell’ottobre dello stesso anno ebbe inizio l’occupazione, da parte delle forze armate ebraiche, della regione del Nageb e dei villaggi della Galilea. Infine, dopo la

41 Per una descrizione delle condizioni della società palestinese prima del 1948 e delle sue vicende storiche fino a questa

stessa data, cfr. Khalidi (2001). Per una descrizione delle forme associative palestinesi prima dell’esodo, cfr. Karamé (1997: 75).

42 Per una panoramica generale a proposito del ruolo e dell’influenza esercitate dalle Nazioni Unite sulla questione dei

decisiva sconfitta degli eserciti arabi, con l’armistizio del 1949 si stabilirono le frontiere dello stato ebraico sui tre quarti del territorio del mandato inglese.

La tragedia dei profughi ebbe inizio ufficialmente nella primavera del 1948. Ma, già dall’epoca della Dichiarazione di Balfour, una serie di provvedimenti dell’Agenzia ebraica e del Governatorato inglese (acquisto o sottrazione della terra ai proprietari arabi assenteisti, concessioni ad una compagnia sionista dell’estrazione mineraria dal Mar Morto, imposizione di tasse sulla produzione agricola ai contadini palestinesi, creazione di nuovi insediamenti ebraici) aveva cominciato a scoraggiare apertamente la permanenza degli abitanti palestinesi. Ben prima che la presenza britannica evacuasse, i gruppi armati sionisti avevano iniziato ad occupare alcune città della Galilea e le zone circostanti gli insediamenti ebraici, espellendone la popolazione palestinese; una serie di massacri compiuti dall’Haganah e dall’Irgun erano stati perpetrati (e probabilmente ingigantiti di proposito) al fine di terrorizzare e ottenere l’abbandono delle terre da parte dei palestinesi, tanto che, quando la guerra scoppiò ufficialmente il 15 maggio 1948, una buona parte della popolazione palestinese si era già rifugiata oltre le linee arabe: fra i 726.000 e i 900.000 palestinesi (Said, 2001: 125)43, dell’oltre il milione e mezzo che la Palestina contava, abbandonarono le loro abitazioni e le loro terre, andando a rifugiarsi per lo più in Libano, Siria, Giordania (che allora comprendeva anche la West Bank, o Cisgiordania) ed Egitto (che allora comprendeva anche la Striscia di Gaza).

È noto come la Risoluzione 194 (III) adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (11 dicembre 1948), nella quale si prospettava il ritorno dei rifugiati palestinesi (o, in alternativa, una loro compensazione), continuò ad essere ignorata dal governo del nuovo stato ebraico. Questo esodo di massa rappresentò un guadagno insperato per il neo-governo israeliano, il quale vedeva così assicurata l’ebraicità del nuovo stato. Nel 1950, su oltre un milione di ebrei, erano rimasti circa 160.000 Palestinesi. Con lo scoppio, poi, della Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, durante la quale Israele si annetteva la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture siriane del Golan, una seconda ondata di 350.000 Palestinesi di Cisgiordania e della Striscia di Gaza fu costretta a sfollare e rifugiarsi, per la maggior parte (ma non solo), in Siria, Giordania e in Egitto, senza considerare l’elevato numero di sfollati interni (displaced persons) al territorio israeliano o i rifugiati del ’48 costretti ad evacuare una seconda volta. La Risoluzione 242, approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 22 novembre 1967, prevedeva l’integrità territoriale e l’indipendenza di ogni stato nell’area ai fini di una pace permanente, e fu definita anche ‘un capolavoro diplomatico di ambiguità’ (Dan Segre, 1979), dal momento che

gli arabi la interpretarono come l’impegno delle Nazioni unite a obbligare Israele a evacuare tutti i territori, e a far rientrare i profughi palestinesi alle loro case. Israele, invece, la intese come un’autorizzazione a prolungare l’occupazione dei territori conquistati, a condizione che rimanessero sotto amministrazione militare, sino alla pace (Idem: 154).

Si tengano inoltre presenti le minoritarie, ma non meno significative, espulsioni di migliaia di palestinesi dalla Giordania a seguito del cosiddetto Settembre Nero del 1970, dal Libano fra

43 Per le differenti stime del numero dei rifugiati del 1948 e i motivi di questa vera e propria battaglia di cifre, cfr.

Takkenberg (1998a: 18-21). Tale battaglia di cifre risiede al cuore di una vera e propria battaglia storiografica. L’intimo intreccio e la contrapposizione fra la narrazione storiografica palestinese e quella sionista ‘ha influito principalmente su quella dei palestinesi. Negli ultimi decenni, il clamoroso successo del progetto politico sionista, e il conseguente ben riuscito innesto del moderno sionismo politico sul tronco della storiografia ebraica, per cui il primo ha finito con l'essere considerato come il logico e inevitabile prodotto della seconda, ha legittimato quella sintesi finale dei due termini in virtù della quale viene percepita una continuità, una transizione ininterrotta fra la storia ebraica antica, medievale e moderna, da un lato, e la storia del sionismo moderno e di Israele, dall'altro. Per contro, l'identità palestinese, non avendo mai ottenuto un analogo successo, ha dovuto fin dall'inizio lottare per essere accettata e legittimata nel mondo esterno, e per essere addirittura riconosciuta come categoria autonoma’ (Khalidi, 2003: 230). Inoltre, uno dei pochi intellettuali palestinesi che ha analizzato la collisione e le implicazioni fra le due storiografie è Edward Said (1995 e 2001).

l’agosto e il settembre del 1982 (ma si stima che durante tutto il corso della guerra civile libanese siano circa 100.000 i palestinesi che sfollarono altrove), dal Kuwait durante la Guerra del Golfo (con il drammatico esodo di circa 400.000 palestinesi) e dalla Libia nel 1995 (quando Gheddafi decretò l’espulsione di 30.000 palestinesi).

Viste la valenza politica e la notevole portata delle masse di profughi palestinesi che quasi un secolo di guerre, espulsioni e instabilità regionale ha procurato nell’intera area mediorientale – come la precedente carrellata storica ha succintamente ricordato –, non dovrebbe sorprendere che

probabilmente nessuna altra questione ha ricevuto tanta attenzione dalle Nazioni Unite quanto la Palestina e il conflitto arabo-israeliano. Dal 1947, ogni fase della crisi che andava aprendosi è stata oggetto di report e risoluzioni, non solo rimarcando gli eventi, ma in alcuni casi informandoli. Fino alla metà del 1987 circa 600 risoluzioni furono adottate dal Consiglio di Sicurezza (Takkenberg, 1998a: 21-2).

Dopo aver assegnato al Conte Folke Bernadotte la posizione di United Nations Mediator for

Palestine, nel luglio del 1948, in seno alle Nazioni Unite, venne stabilito un primo organismo che facesse fronte al disastro umanitario procurato dalla guerra, l’UN Disaster Relief Project (UNDRP) con mandato di soltanto due mesi, sostituito ben presto con il più efficiente UN Relief for Palestine

Refugees (UNRPR), il quale si occupò dell’emergenza umanitaria dei profughi fino all’agosto del 1949. Parallelamente all’UNRPR, venne istituita la Commissione di Conciliazione per la Palestina (UNCCP), con il generico incarico di facilitare la promozione della pace e trovare una soluzione finale per i profughi. Quando divenne chiara l’impossibilità di rimpatriare i rifugiati palestinesi entro tempi brevi, si cominciò a valutare la sostenibilità economica del loro reinsediamento nei paesi che li avevano accolti: a questo preciso scopo l’UNCCP stabilì un corpo sussidiario sotto la sua stessa autorità, l’Economic Survey Mission (ESM), il quale nel suo rapporto finale

raccomandò che, in aggiunta al proseguimento del soccorso di emergenza, un’agenzia avrebbe dovuto essere stabilita per dirigere un ‘programma di lavori pubblici, volto a migliorare la produttività dell’area’. L’agenzia, dopo la sua istituzione, avrebbe anche dovuto assumere il controllo degli sforzi assistenziali (Takkenberg, 1998a: 26-7).

Fu così che, attraverso la Risoluzione 302 IV dell’8 dicembre 1949, l’Assemblea Generale accolse la raccomandazione dell’ESM e stabilì la nascita di quell’Agenzia ONU che avrebbe legato il suo nome specificamente al fenomeno del rifugismo palestinese, rendendolo unico nel suo genere, l’UN

Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA)44. In qualità di organo addetto all’implementazione della Risoluzione ONU 194, specie nel suo paragrafo 11 (dove appunto si prevedeva di ‘facilitare il rimpatrio, il reinsediamento, la riabilitazione sociale ed economica dei rifugiati e il pagamento di una compensazione’), l’UNCCP, inoltre, nel momento in cui gli sforzi di mediazione per il rimpatrio si rivelavano sempre più vani, offrì la sua assistenza per la remissione dei depositi bancari dei rifugiati bloccati da Israele e per l’identificazione, la raccolta e la stima economica delle proprietà perse dai profughi durante la nakba. Nonostante dal 1964 la Commissione di Conciliazione per la Palestina non abbia più contribuito in modo sostanziale all’implementazione del paragrafo 11 della Risoluzione 194, essa non è mai stata formalmente abolita. Come già accennato, l’8 dicembre 1949 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituì l’UN Relief and Works Agency, con il proposito di

(a) di eseguire in collaborazione con i governi locali l’assistenza diretta e i programmi lavorativi, come raccomandato dall’Economic Survey Mission; (b) di consultarsi con i governi interessati del Vicino Oriente in merito alle misure da adottare, le quali preparino al momento in cui l’assistenza internazionale per la riabilitazione e i progetti lavorativi non sarà più disponibile45.

Assai significativo è che, soltanto cinque giorni prima della nascita dell’UNRWA, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite stabilì che l’organo atto ad occuparsi in generale della questione dei rifugiati nel mondo fosse l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR); ne consegue che l’UNRWA fu, ed è tutt’oggi, l’unica Agenzia predisposta per un caso specifico di rifugismo, quello palestinese per l’appunto; i mandati dell’UNHCR e dell’UNRWA si escludono a vicenda, ossia non possono applicarsi alle medesime aree operative, il che comporta una ambiguità di trattamento dei profughi di non poco conto (Takkenberg, 1998a). Anzi, come è stato da più parti sottolineato, ‘lo svantaggio della specifica designazione dei rifugiati palestinesi come unica responsabilità dell’UNRWA è che essi sono esclusi dalla protezione dei diritti umani accordata ai rifugiati che rientrano sotto l’ombrello dell’UNHCR e di altri organismi internazionali’ (Zureik, 1996: 9). In altri termini, mentre, da un lato, l’UNHCR predispone dei meccanismi di protezione e di tutela dei rifugiati e dei loro diritti, dall’altro, l’UNRWA non prevede nessuna forma di tutela giuridica per i profughi palestinesi, col risultato che questi ultimi non possono fare appello ad alcun organismo internazionale qualora i loro diritti umani vengano violati dai governi dei paesi ospiti. Una siffatta disposizione del diritto internazionale non può certo passare inosservata.

L’UNRWA, con il duplice intento di promuovere l’integrazione dei profughi palestinesi nella vita economica del Medio Oriente e di renderli nel tempo indipendenti dalla macchina del soccorso umanitario, solamente nel maggio del 1950 iniziò ad operare effettivamente nei paesi sui quali aveva ricevuto mandato. Entro questi confini territoriali, l’UNRWA, cominciando il proprio intervento con l’opera di registrazione dei profughi, l’allestimento di sessantuno campi profughi (intesi come aree di residenza dei palestinesi, frutto di accordi bilaterali con i paesi d’accoglienza, all’interno delle quali si svolgono le stesse attività dell’UNRWA), l’assistenza umanitaria d’emergenza e la predisposizione di servizi di base in materia di educazione, salute e di alcuni altri servizi sociali. In assenza di una soluzione del problema dei profughi palestinesi, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ripetutamente rinnovato il mandato dell’UNRWA, con l’ultima estensione prevista fino al 30 giugno 2011. Se nel 1950 ne registrava 914.000, oggi l’UNRWA registra 4.4 milioni di profughi palestinesi46, e solo, ovviamente, nei paesi sui quali ha ricevuto il mandato.

45 UNGA res. 302, IV, 8 dicembre 1949. 46 Cfr. www.unrwa.org.

Mappa delle aree di intervento UNRWA. Fonte: UNRWA, 2005.

Numero di profughi palestinesi registrati dall’UNRWA dal 1950 al 2005. Fonte: UNRWA, 2005.

Ma il numero dei rifugiati registrati presso l’UNRWA non corrisponde al numero totale dei profughi palestinesi. Con quest’ultima osservazione ci si addentra in una disputa di diritto internazionale alquanto articolata e complessa, giacché ogni filo argomentativo conduce inevitabilmente alla definizione di cosa debba intendersi per ‘profugo palestinese’. Benché non si abbia qui l’intenzione di ripercorrere l’intera vicenda dottrinaria, basti notare che, se sotto la definizione operativa dell’UNRWA, ‘i rifugiati palestinesi sono persone il cui normale luogo di residenza era la Palestina fra il 1 giugno 1946 e il 15 maggio 1948, e che abbiano perso sia le proprie case e sia i mezzi di sussistenza in conseguenza del conflitto del 1948’, e i loro discendenti (UNRWA, 1993: 368-9)47, cadono ingiustificatamente al di fuori di questa definizione almeno due cospicue categorie di profughi palestinesi: i rifugiati per la prima volta durante la Guerra dei Sei

47 La definizione riportata è sostanzialmente identica a quella fornita dall’Agenzia nel 1952. Per l’analisi della

Giorni del 1967 (ovunque abbiano trovato rifugio) e quelli che, rifugiatisi una prima volta nel 1948 in qualche paese non soggetto al mandato UNRWA, sono poi stati costretti a sfollare una seconda volta ed hanno trovato rifugio in uno dei paesi sotto il mandato UNRWA (è il caso, ad esempio, di quelli provenienti dal Kuwait o dalla Libia). Senza poter qui analizzare le circostanze particolari, il risultato è che l’assenza, di fatto, di una inequivocabile definizione giuridica di chi sia un profugo palestinese, complicata dalle definizioni di rifugiato formulate nello statuto dell’UNHCR, nella Convenzione sullo status di rifugiato del 1951, nel relativo Protocollo del 1967 e nella Convenzione