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Guardare attraverso il prisma della cooperazione

2.2 Un puzzle antropologico

2.2.4 Profughi e organizzazioni assistenziali palestines

Broumana – lo si è già ricordato – è una famosa località cristiana sulle montagne alle spalle di Beirut. Oltre ad essere stata il luogo in cui Edward Said trascorse gli ultimi anni di vita e dove oggi è custodita la sua tomba, la sua fama è dovuta ad un esclusivo college, che si estende su una vasta area a terrazzamenti e comprende strutture antiche e moderne, giardini, campi da calcio e piscine. Ma ciò che rende questo luogo ancora più spettacolare è una panoramica in cui una insolita illusione ottica lascia che Beirut emerga vivida e vicina, e si stagli contro un orizzonte nel quale la linea del Mar Mediterraneo è straordinariamente alta. Responsabile, con ogni probabilità, di questa trasfigurazione delle distanze è il giro che il sole compie andando a tramontare nel mare di fronte a Beirut. Non è un caso che i tramonti di questa città mediorientale siano tanto famosi. In questo college, quando ancora era gestito dai Quaccheri, ebbe la fortuna di studiare Moataz Dajani, palestinese e profugo bambino da Gerusalemme, ma con scarsi risultati, giacché ogni notte raggiungeva furtivamente Beirut per l’addestramento militare. Erano i tempi della guerra civile libanese. Dal 2003 Moataz Dajani, oggi presidente della Ong palestinese Al-Jana, sceglie ogni anno questo college magnifico per realizzare ciò che qui viene genericamente chiamato Al-Jana Summer

Camp, ossia un campo estivo di aggiornamento professionale per giovani cooperanti e operatori sociali palestinesi (e dal 2006 anche libanesi) appartenenti alle diverse organizzazioni e associazioni presenti sul territorio libanese. Fra i molti campi estivi di tal genere che si svolgono in Libano, questo è senza dubbio il più rinomato per i cooperanti palestinesi, sia per la qualità del programma e sia per l’ampiezza degli spazi, privilegio davvero raro per chi è abituato ai vicoli stretti e ai cortili bui dei campi profughi.

Partecipare all’edizione dell’agosto del 2007 ha costituito per chi scrive un’esperienza centrale ai fini di questa ricerca, perché i partecipanti, in tutto circa 140 (fra giovani cooperanti, insegnanti e membri dello staff di Al-Jana), erano ragazzi palestinesi provenienti da tutti i campi profughi, nonché libanesi provenienti prevalentemente dalle zone meridionali più colpite dai bombardamenti israeliani nel 2006. Se a ciò si aggiunge che parecchi palestinesi provenivano dai campi di Beddawi e Nahr El-Bared e che tutti quanti erano, a vario titolo, attivi nell’ambito della cooperazione, diviene più facile comprendere come l’atmosfera del campo fosse tremendamente intensa, a tratti greve e tesa, in altri momenti, quando l’energia e la creatività di questi ragazzi si scatenava, esplosiva e commovente. Fronteggiare tanta intensità emotiva non si è rivelato un compito facile, soprattutto per gli insegnanti (provenienti da un ampio raggio di nazioni: libanesi, palestinesi, giordani, australiani, inglesi, italiani, americani, egiziani, iraniani, croati, ecc.) che tenevano i seminari di approfondimento mattutini e pomeridiani, fra cui quelli di teatro di strada, storia orale, cinema, conflict resolution, psicologia infantile, improvvisazione musicale, dabke262, disegno e altre

attività manuali, l’apprendimento delle quali avrebbe dovuto fornire a questi giovani operatori sociali degli strumenti da trasferire ognuno nel proprio contesto di lavoro quotidiano. Questo campo estivo, dunque, si rivolgeva esclusivamente a quei cooperanti che costituivano gli ultimi anelli esecutivi delle rispettive organizzazioni assistenziali, fatta eccezione per alcune grassroots

organizations giovanili e poco formalizzate, i cui rappresentanti – come Mahmoud del Palestinian

Cultural Club – Shatila (PCCS) che in parte si è già ascoltato – sono comunque giovani attivisti. Al-Jana non predispose per l’occasione un vero e proprio criterio di selezione, ma spedì inviti per quattro persone a tutte le organizzazioni palestinesi presenti in Libano (eccetto quelle religiose) e a quelle libanesi più vicine ai profughi, con il vincolo di un’età compresa fra i 18 e i 24 anni e attraverso una formula per la quale le spese di due partecipanti sarebbero state coperte dalla Ong promotrice, mentre gli altri due eventuali partecipanti sarebbero stati a carico dell’organizzazione di appartenenza. Il campo si svolse nell’arco di dieci giorni, con un fitto programma di attività, come presentazioni di esperti o ricercatori giunti appositamente (ad esempio sui temi della violenza femminile e la cooperazione, la storia orale e la cooperazione, l’antropologia e la cooperazione,

262 La dabke è una danza tradizionale di questa zona del Medio Oriente. Ogni popolazione ne ha elaborato varianti

locali. Quella palestinese è una di queste. Una interessante analisi antropologica della dabke palestinese in Giordania in relazione ad alcuni elementi innovativi introdotti dallo sviluppo è offerta da Van Aken (2003a).

traumi infantili e metodi terapeutici, e così via), proiezioni di film e documentari, concerti, importanti momenti di confronto e discussione collettiva e le performances finali dei seminari. Condividere con queste persone, seppure per un breve lasso di tempo, esperienze, divertimento e commozioni ha avuto il merito di sintetizzare in un’unica panoramica anni di studio e mesi di ricerca sul campo, offrendo una visuale preziosa sul tema di questa indagine. Questi ragazzi, infatti, compongono una stratificazione particolare nella società profuga, poiché costituiscono un insieme difficilmente identificabile di individui che lavorano nei progetti di cooperazione ‘dal basso’, spesso attivisti volontari o quasi volontari, e che, grazie a questa posizione poco vincolata alla burocrazia organizzativa, hanno la possibilità di entrare e uscire abbastanza liberamente dai ‘quadri’ della cooperazione, acquisendo sia l’esperienza del cooperante e sia conservando la prospettiva del profugo beneficiario. Costoro, in altri termini, sono, fra i profughi che lavorano nella cooperazione, quelli più vicini, per status e criticità, alla comunità profuga che vive nei campi. La loro giovane età, inoltre, è una fonte critica imprescindibile, in un contesto dove le strutture del potere politico, i modelli organizzativi umanitari e la narrazione egemonica dell’identità collettiva sono appannaggio delle vecchie generazioni o, comunque, a modi tradizionali e statici di concepire le relazioni intercomunitarie. E sono proprio la lucidità, la criticità e la maturità di questi giovani operatori sociali a lasciare stupefatto l’ascoltatore a digiuno di un’esperienza di vita segnata da conflitti, discriminazioni, prevaricazioni, competizioni per il potere. In particolare, poi, i ragazzi provenienti dai campi di Beddawi e Nahr El-Bared fronteggiavano una pressione emotiva che, in quell’occasione, diede vita ad espressioni creative assai significative263.

Discutendo e riflettendo con alcuni di questi giovani circa la loro esperienza come cooperanti e operatori sociali, si ricava un quadro della cooperazione locale palestinese in linea con alcune delle caratteristiche messe in luce nei paragrafi precedenti. In particolare, alcune dinamiche nelle quali essi sono coinvolti scaturiscono direttamente dalla ‘politicità’ intrinseca delle organizzazioni assistenziali cui appartengono, ossia dai legami politici da esse intrattenuti con le fazioni palestinesi, dalle forme organizzative che ne derivano e da una certa miopia progettuale che in qualche modo le paralizza. Ad approfondire l’argomento, tutti gli interlocutori hanno avanzato forti critiche verso il sistema assistenziale nel quale tuttavia lavorano. In questo senso, conquistare la loro fiducia, farli sentire a loro agio in modo che potessero parlare liberamente non è stato semplice, visto il controllo cui generalmente sono sottoposti dalle organizzazioni di provenienza. Alcune delle informazioni che mi diedero in più occasioni avrebbero infatti potuto valere il loro allontanamento dall’organizzazione per le quali lavoravano e grazie a cui, in fondo, ora si trovavano ad incrementare le loro competenze in un luogo così esclusivo, in cui potevano fare delle conoscenze altrimenti impossibili e uscire dalla quotidianità del campo profughi per osservarla dall’esterno, aprendosi agli stimoli provenienti da differenti parti del mondo. Fu questo, fra i molti altri, il caso di Marwan264, un giovanissimo operatore sociale della Ong palestinese Najdeh nel campo di Hein El- Helwe. Mentre raccontava della frustrazione sua e dei suoi colleghi, causata dal fatto che ‘la comunità non dimostra di apprezzare né il nostro aiuto né il nostro lavoro’, ma soprattutto perché ‘Najdeh non gratifica minimamente i nostri sforzi, non considera le nostre esperienze e non ci incoraggia a migliorare, ma pretende che si eseguano degli ordini e null’altro’, Marwan si avvicinava analiticamente alle ragioni in grado di spiegare il modello organizzativo fonte del suo disagio, ma ogni volta evitò, almeno in quella occasione, di affrontarle. Il suo imbarazzo era palese, benché non fosse stato stimolato da alcuna domanda impertinente, giacché conoscevo la delicatezza della questione, e quella volta mi ero limitata ad ascoltare e a raccontare a mia volta di altre esperienze di ricerca – un dialogo infatti si stabilisce grazie alla generosità di entrambi gli interlocutori –. E a dimostrazione della fiducia che si era in qualche modo instaurata, Marwan più volte tentò di proseguire la conversazione, come con l’intento di ‘vuotare il sacco’, ma ogni volta depistava l’argomento e rimescolava le carte. Infine, al termine del summer camp, si decise a

263 Cfr. il paragrafo 3.2.3. Il colloquio è del 17-08-2003.

264 Il nome di questo cooperante palestinese è stato modificato, nonché alcuni dati del suo racconto, per motivi che si

raccontare qualcosa che nessuno gli aveva chiesto, ma che egli per qualche ragione si sentiva in dovere di condividere, come se si trattasse di un peso o una denuncia. Dopo avere espresso il desiderio appartarsi, con un fare guardingo che parve persino eccessivo, parlò:

Voglio dirti una cosa importante – cominciò – affinché tu capisca che razza di mondo sia la cooperazione palestinese qui in Libano. La mia Ong è legata al Fronte Democratico di Liberazione della Palestina, tutti nel campo lo sanno e sanno che fra essi ci sono dei canali finanziari. Ma non tutti sono a conoscenza del fatto che Najdeh pretende ogni mese da ogni suo dipendente una percentuale sul loro già misero stipendio da devolvere al partito. Un paio di anni fa, quando cominciai a lavorare con questa organizzazione come animatore per i bambini, non lo sapevo nemmeno io. Al momento di ricevere il primo stipendio, quando controllai i soldi, mi accorsi che mancavano 50.000 lire libanesi. Andai nell’ufficio dei responsabili a chiedere spiegazioni. Mi venne risposto: ‘Ciò che manca è per il partito’. Provai a protestare, ma compresi che se rifiuti prima o poi sei licenziato. Così funzionano le cose. Oggi sono diventato responsabile di un piccolo progetto di attività infantili, quello che faccio mi piace, ma soprattutto il mio problema è che siamo nove fratelli, io sono il maggiore, e mio padre è molto anziano, devo aiutarlo. Non ho scelta. Guardati intorno: nessuno di noi ha scelta. So per certo che altri ragazzi sono in una situazione simile alla mia, ma preferiscono non parlarne. Riguardo queste informazioni ti chiedo la massima riservatezza265.

Marwan mi aveva reso partecipe di qualcosa che riteneva della massima importanza, di un dilemma etico personale e di un problema politico collettivo, pensando forse che rendere con discrezione note queste ‘informazioni’ potesse col tempo contribuire a trasformare delle dinamiche relazionali consolidate da una consuetudine di natura politica (o assistenziale?). Riflettendo poi sulla sua esperienza complessiva come cooperante, aggiunse: ‘Se questa è la cooperazione che conosco io, come faccio a credere in questa cooperazione? Per farlo, dovrei credere nella politica palestinese, ma non ci riesco’. ‘Ma cosa vorresti, allora?’, domandai. ‘Andare il più lontano possibile dal Libano, scappare, emigrare, non so’. Anche Mohammad del campo profughi di Mar Elias, un amico che ho frequentato durante tutti i soggiorni in Libano, coltiva questa unica ossessione di fuga, e anch’egli è reduce di una deludente esperienza nella cooperazione locale. La differenza fra i due è che Mohammad può parlare liberamente perché ha interrotto ogni rapporto con BAS, la Ong per la quale lavorava. Durante il nostro ultimo incontro, Mohammad raccontò di un episodio in cui fu coinvolto in qualità di beneficiario, o, meglio, come operatore cui fu offerta la possibilità di qualificarsi professionalmente. Si trattava, infatti, di un importante progetto, denominato VET Project (Vocational and Educational Traininig), sponsorizzato da IFOA (Istituto Formazione Operatori Aziendali), che prevedeva tre anni di formazione professionale in ambiti differenti per giovani operatori dipendenti da cinque diverse organizzazioni non-governative palestinesi. Mohammad fu inviato a seguire il corso di computer e web design da BAS. Tuttavia, dopo poco più di un anno il coinvolgimento di questa Ong nel progetto si interruppe,

perché accadde che il donor, che finanziava noi ragazzi con un somma simbolica che ci compensasse il tempo speso senza lavorare, invece di distribuire i soldi direttamente fra i beneficiari, li diede alle rispettive Ong, affinché vi provvedessero loro. Queste, invece di pagarci, si sono tenute i soldi, giustificandosi con il fatto che noi, studenti beneficiari del progetto,

non dovevamo essere pagati per imparare, ma semmai il contrario, dovevamo essere noi a pagare chi ci insegnava! Molti, come me, non accettarono e se ne andarono. Come possiamo, infatti, a continuare ad essere volontari o pagati simbolicamente, senza che ci sia nemmeno data l’opportunità di crescere professionalmente e avere qualche certezza lavorativa in più per pianificare il nostro futuro?266

La vicenda di Mohammad rivela come qualche volta possa accadere che i beneficiari dei progetti siano funzionali alle politiche e alle economie delle Ong, ma anche come su di essi possano giocarsi i rapporti fra Ong locali e donatori internazionali: in questo caso Mohammad utilizzò l’unico potere di cui disponeva per manifestare il suo dissenso – ossia sottrarsi al progetto –, ottenendo che la sua organizzazione di provenienza venisse esclusa dalla continuazione dello stesso e, conseguentemente, dalla ricezione dei fondi.

Tornando alla ‘miniera antropologica’ che fu l’Al-Jana Summer Camp, una volta accadde che Fadi, un operatore sociale del campo di Burj El-Barajneh, avesse fatto delle battute ironiche riguardo al fatto di essere l’unico vero volontario di tutto il summer camp. Qualcuno dei presenti, con altrettanta ironia, controbattè dicendo che in questo modo, almeno, nessuno poteva comprare la sua posizione politica. Nonostante i toni scherzosi che suscitarono l’ilarità dei ragazzi, l’episodio fu alquanto eloquente. Quando ricapitò di conversare con Fadi, la sua ironia si trasformò in vero sarcasmo:

Ho lavorato per anni con una Ong palestinese del campo legata ad Al-Fatah. I giochi di potere, i vincoli politici, le manovre economiche e la totale inutilità dei progetti assistenziali mi disgustarono a tal punto che presi una decisione drastica e scelsi di fare il volontario, in modo da essere libero di lavorare nei progetti che mi sembrassero più appropriati e sensati, di solito lavoro con i bambini. E vuoi sapere dove sono capitato per ironia della sorte? Ora coordino come volontario un progetto di animazione della prima infanzia finanziato con pochissime risorse dalla sede politica di Al-Fatah nel campo di Burj El-Barajineh! Ma in mezzo a tutti quei politicanti almeno l’aspetto davvero assistenziale del progetto è tutto in mano mia267.

La strategia adottata da Fadi è alquanto diversa da quella di Marwan e di Mohammad. Mentre Mohammad ha esercitato la sola forma di potere di cui disponeva, optando per una scelta radicale la quale ha implicato al contempo la sua rinuncia ad una esperienza personale e l’esclusione della Ong dal progetto, Fadi ha deciso di giocare con i ruoli e le possibilità offerte dalla ‘reversibilità fra politico e umanitario’ e dai rapporti stretti fra Ong e fazioni politiche, ritagliandosi una vicenda personale del tutto particolare, ma in grado di preservare le sue priorità e i suoi interessi (che evidentemente non sono di natura economica). Marwan, invece, legato ad un modello organizzativo che gli assicura la sopravvivenza, ma che non lo gratifica né gli consente di formulare strategie alternative, confida nel fatto che una sua denuncia anonima possa contribuire a modificare la situazione. La frustrazione e l’impotenza che ne derivano sono condivisi dalla stragrande maggioranza di giovani cooperanti che ho avuto modo di conoscere. Quando discussi con Moataz Dajani di queste e di altre conversazioni che – ma in modo meno esplicito – avevano confermato come nei fatti si declinasse il rapporto che molte Ong palestinesi intrattengono con i partiti politici cui erano affiliate, egli rispose con un serafico ‘It could be’. ‘Ma come it could be – lo incalzai –, sarebbe importante invece provare a parlarne, in fondo al summer camp non ci sono i responsabili delle Ong, e i ragazzi possono sentirsi liberi di denunciare, analizzare, riflettere e pensare a come modificare un assetto del potere che danneggia loro e i progetti di assistenza!’. Col tempo, Moataz

266 Colloquio del 24-08-2007. 267 Colloquio del 19-08-2007.

Dajani era diventato un caro amico, nonché restava uno dei più importanti informatori per questa ricerca. Perciò con la schiettezza di cui è capace un amico mi fece comprendere quanto politica, umanitarismo e condizioni economiche dei profughi fossero ancora più profondamente imbricate fra loro di quanto non avessi supposto io: ‘In Europa qualcuno denuncia il caso, scoppia uno scandalo e poi la situazione forse si trasforma. Qui è diverso. Tutti sappiamo che cose di questo genere sono all’ordine del giorno, che questi giovani hanno le mani legate dalla politica dei loro padri. Ma prova a immaginare cosa succederebbe, ammesso che qualcuno sia disposto a ‘denunciare’, come dici tu, queste cose pubblicamente: costoro verrebbero senza dubbio licenziati e i donatori internazionali taglierebbero i fondi. La cooperazione e i partiti politici palestinesi danno lavoro a migliaia di persone nei campi, e i progetti assistenziali ne aiutano altrettante a sopravvivere. Sarebbe una catastrofe’. Poi, sorridendo, aggiunse: ‘In più, noi palestinesi non siamo gente da denuncia o scandalo’268.

Questi episodi sono valsi a mettere in mostra uno fra gli effetti prodotti dai legami politici che legano le Ong locali ai rispettivi partiti palestinesi sulle relazioni fra queste e i profughi. Essere impiegati anche in posizioni di poca responsabilità organizzativa presso una organizzazione assistenziale è già, nella maggioranza dei casi, indice di appartenenza politica. I volontari, i quasi- volontari e gli attivisti che lavorano sotto la sigla di una Ong sono automaticamente inclusi nella schiera dei sostenitori politici di una fazione. La categorizzazione politica cui sono sottoposti i giovani operatori va a collocarli direttamente all’interno di una arena politica alla quale non sentono di appartenere. Se in alcuni casi la spartizione politica delle risorse locali – in questo caso il personale operativo nei progetti di cooperazione - delle Ong palestinesi può dar luogo a forme di rivalità fra appartenenti ad organizzazioni assistenziali differenti (ma questo è il caso, come si è visto, dei più alti livelli di responsabilità), in altri casi, soprattutto quelli in cui ad essere coinvolti sono i giovani operatori che fanno la ‘manovalanza’ dei progetti, le linee che distinguono fra loro i gruppi politici tendono a perdere la loro ‘presa’ sociale, perché il ruolo marginale che questi giovani rivestono all’interno delle organizzazioni consente loro di raggirare le fedeltà di partito e intessere relazioni e amicizie trasversali. Questo, peraltro, è uno degli obiettivi più ambiziosi che il campo estivo organizzato da Al-Jana si pone, ossia quello di creare spazi diversi rispetto alle consuete griglie politiche che frazionano i gruppi sociali palestinesi, nei quali sperimentare e consolidare rapporti e conoscenze accomunate da altri punti di condivisione, altri interessi, altre visioni e progettazioni della realtà. Queste inoltre sono le argomentazioni che Moataz Dajani addusse quando mostrai una certa perplessità di fronte ad un passaggio del suo discorso di apertura dei lavori, quello in cui avvisava i ragazzi che ‘all’interno del summer camp di tutto è lecito parlare, fuorché di politica’269. Successivamente compresi che discutere di politica avrebbe indotto alla tentazione di riesumare modelli, appartenenze e identificazioni che segnano la quotidianità nei campi profughi, mentre il summer camp costituiva l’opportunità per sottrarsene e intessere relazioni in grado di attraversare trasversalmente la fazionalizzazione della società palestinese, operata in buona parte attraverso gli strumenti umanitari. E non solo: l’avvertimento di non discutere di politica avrebbe contribuito ad allentare la tensione fra i partecipanti palestinesi e libanesi, una tensione che era cresciuta sulla scorta di notizie, poi confermate, che descrivevano gli sfollati palestinesi dal campo di Nahr El-Bared vittime di pestaggi, perquisizioni e umiliazioni verbali e fisiche da parte