Profughi palestinesi: una ricognizione geopolitica
1.2 Palestinesi in Libano
Grida per sentire la tua voce, grida per sapere che vivi, che sei ancora vivo, che la vita su questa terra è ancora possibile. Inventa una speranza per le parole. Crea un punto cardinale o un miraggio che alimenti la speranza e canta (Darwish, 2005).
In questa panoramica di proliferazione delle diaspore, il caso dei profughi palestinesi in Libano è del tutto particolare, poiché per costoro, ‘che sono quelli che più hanno sofferto e più sono stati sacrificati, (…) la questione si presenta nel modo più crudo e più pertinente’(Khalidi, 2003: 314). Se, oggi, infatti per circa 1.700.000 palestinesi di Giordania e i quasi 500.000 di Siria l’esodo ha trovato in qualche misura condizioni politiche e giuridiche che, sul lungo periodo, hanno contribuito ad ammortizzare il suo l’impatto socio-economico sulla società ospite, consentendo peraltro forme trasversali (ossia non di massa) di integrazione e un maggiore spazio per ‘reinventarsi’ un’esistenza non ostacolata quotidianamente da politiche discriminatorie (Said, 2001: 126), per oltre 400.000 palestinesi, invece, la diaspora sembra essersi letteralmente sospesa in Libano:
I palestinesi del Libano, in molti modi, hanno ottenuto il maggior successo e, al contempo, sono stati i più discriminati. Se comparati ad altri palestinesi che vivono nei paesi arabi ospiti, i palestinesi in Libano sono i più marginalizzati e i meno assimilati entro la società libanese (Hawary, 2001: 42).
In questo paese, fino al gennaio del 2008 più di 409.000 sono i rifugiati ufficialmente registrati dall’UNRWA55, ma si stima che altri 40.000 circa vivano in Libano o registrati soltanto con il
Central Committee for Refugee Affairs (un dipartimento ad hoc preposto dal Ministero degli Interni libanese, presso il quale in genere vengono registrati quei profughi che non soddisfano i criteri di registrazione dell’UNRWA) o senza alcun tipo di registrazione ufficiale (Al-Natour, 1997: 361-2; Said, 2001: 127; Ohrstrom, 2007b)56. La differenza fra lo stato libanese e gli altri host countries
55 Cfr. www.unrwa.org.
56 Una ricerca ancora attuale (2002), condotta dalla Palestinian Human Rights Organization (PHRO), mostra che il
numero dei cosiddetti Non-ID Refugees (‘profughi non identificati’) in Libano conti circa 5.000 unità e sia in continua crescita, giacché i figli ereditano lo status giuridico dei genitori. Se già per i profughi registrati la registrazione è un mero riconoscimento di esistenza – oltre che una necessità politica di controllo sulla comunità profuga – che non implica automaticamente diritti civili o sociali, i Non-ID Refugees, agli occhi del governo libanese e di quelli del mondo, letteralmente non esistono. Come la ricerca evidenzia, costoro non possono beneficiare dello status di profugo e non possiedono alcun documento di identificazione. Va da sé che i Non-ID Refugees costituiscono la fascia in assoluto più vulnerabile della popolazione profuga, costretti a vivere confinati nel territorio dei campi, con il terrore che l’autorità libanese li espella dal territorio nazionale. Generalmente, queste famiglie profughe sono giunte illegalmente in Libano nel corso della rivoluzione dell’OLP (1967-1982), provenendo per lo più dalla Siria o dalla Giordania – soprattutto dopo il fatidico Settembre Nero giordano del 1971 –, e qui sono rimaste anche dopo l’espulsione dell’OLP nel 1982. Fino a quando fu presente e operativo nei campi profughi libanesi, l’OLP riforniva di carte di identificazione i profughi che ne erano sprovvisti; ma dopo il 1982, con l’espulsione dei sui quadri politici e militari, tali documenti persero la loro validità, e i profughi tornarono a vivere una condizione di semi-esistenza. (cfr. Ohrstrom, 2007a). D’altra parte, l’UNRWA, fin dal 1952, non concede più registrazioni (se non dei nuovi nati dalle famiglie già registrate), mentre il libanese Directorate General for Refugee Affairs ha tutto l’interesse a non registrare nuovi profughi, al fine di scoraggiarne la permanenza e non ingrossare le fila della comunità profuga palestinese, della quale si cerca di scongiurare la prospettiva della naturalizzazione. Come si analizzerà nel corso di questo paragrafo, la naturalizzazione dei profughi palestinesi è quanto il governo libanese – per le complesse ragioni di politica estera e interna che si vedranno – rifiuta più nettamente. La vita dei Non-ID Refugees è molto difficile, in quanto esclusi da ogni pratica sociale e civile che richieda l’attestazione di identità (scuola, matrimonio, lavoro, espatrio, ecc.). I giovani e
(ossia quelli in cui vige il mandato dell’UNRWA: oltre al Libano, Siria, Giordania, West Bank e Gaza Strip) è che, in questo paese, ai profughi palestinesi, non sia stato fino ad ora accordato alcun tipo di diritto sociale, civile o politico che sia. Tanto che Wadie Said ha potuto affermare che ‘i rifugiati palestinesi in Libano rappresentano le vittime dimenticate del conflitto arabo-israeliano’ (2001: 124), mentre Sari Hanafi, distinguendoli dai ‘palestinesi diasporizzati’ e ben integrati nelle società ospiti e dai palestinesi emigranti economici, li ha definiti ‘palestinesi in transito’ (1997: 117).
Immediatamente dopo la nakba, l’autorità libanese e l’UNDRP (UN Disaster Relief Project) prima, e, poco dopo, l’UNRPR (UN Relief for Palestine Refugees), ovvero gli organi delle Nazioni Unite creati per far fronte al fenomeno dei rifugiati palestinesi nel periodo precedente all’istituzione dell’UNRWA (giugno 1949, ma operativa dal 1950), registrarono oltre 104.000 palestinesi (Sayigh, 1979: 99), in fuga prevalentemente dall’alta Galilea, che attraversarono il confine libanese fra la fine del 1947 e l’inizio del 1949, per sfuggire all’avanzata dell’Haganah. Inizialmente i rifugiati si addensarono vicino al confine meridionale e intorno a Beirut, ma sin da subito il governo – temendo, da un lato, l’accendersi del conflitto nelle zone a sud e, dall’altro, la presa della capitale ove risiede la potente minoranza cristiano maronita57 del paese (Sayigh, 1988: 281) – predispose una politica di redistribuzione territoriale dei profughi soprattutto nelle aree rurali e musulmane (nord e valle della Beqaa)58. Attraverso alcuni accordi bilaterali fra il governo libanese e l’UNRWA59, venne concesso ai rifugiati l’insediamento in quindici aree appositamente designate, i quindici campi profughi sparsi sul terreno nazionale libanese e ufficialmente riconosciuti dal governo (che oggi sono tredici). Altrettanti sono i cosiddetti gatherings, ossia quei vasti assembramenti aggregatisi spontaneamente e non riconosciuti come campi.
giovanissimi che appartengono a questa categoria, in Libano, non possono maturare nessuna aspettativa o progettualità per il futuro. Così si legge nel fascicolo d’indagine stilato dalla PHRO: ‘in Libano i profughi non identificati non sono compresi nella giurisdizione dell’UNRWA e quindi non possono beneficiare dei servizi umanitari dell’Agenzia, né ricevono aiuto dal governo libanese (in effetti, nessun profugo palestinese riceve aiuti dal governo libanese). Inoltre, in Libano i rifugiati non identificati non sono eleggibili per alcuna forma di occupazione legale, servizi sanitari, educativi, ecc. Costoro sopportano le peggiori condizioni socio-economiche di qualunque gruppo di profughi palestinesi, dal momento che non dispongono di nessun forma stabile di reddito, di facilitazioni sanitarie, di scuole per i propri figli, e di nessun’altra forma di assistenza umanitaria che li aiuti, per esempio, a costruire le proprie case. Peggio ancora, senza documenti d’identità, i profughi non identificati non possono spostarsi al di fuori dei loro campi per rifugiati. Essi sono diventati prigionieri dei loro campi’.
57 Molti leader cristiani libanesi simpatizzarono apertamente con la causa sionista. Questi, da un punto di vista politico,
si opposero strenuamente ai nuovi indesiderati ospiti palestinesi, in quanto in essi vedevano la minaccia della diffusione, fra le classi meno abbienti musulmane, dell’ideologia panaraba. La nascita dello Stato di Israele comportò inoltre una serie di vantaggi economici per l’élite finanziaria maronita, poiché il porto di Beirut vedeva eliminato il suo maggiore rivale (il porto di Haifa) e i profughi si offrivano comunque come una risorsa di manodopera a basso costo (cfr. Hudson, 1997: 250).
58 Traboulsi informa che ‘il governo libanese fece molti tentativi per trasferirli (i profughi palestinesi, nda) al di là del
confine siriano (…). Respinti dalle autorità siriane, i rifugiati palestinesi furono infine insediati, vista l’urgente richiesta di interessi affaristici, in campi vicino alle coltivazioni di cedri della piana costiera e alle zone industriali di Beirut (2007: 113-4).
Mappa dei campi profughi UNRWA in Libano. Fonte: UNRWA, 2008. CAMP NUMBER OF REGISTERED REFUGEES Mar Elias 616 Burj el-Barajneh 15,718 Dbayeh 4,025 Shatila 8,370 Ein el-Hilweh 45,967 Mieh Mieh 4,569 El-Buss 9,508 Rashidieh 29,361 Burj el-Shemali 19,074 Nahr el-Bared 31,303 Beddawi 15,947 Wavel 7,668
Dikwaneh & Nabatieh
(destroyed camps) 16,518
Total 215,890
+ 10,246 refugees distributed throughout the camps.
Distribuzione della popolazione palestinese in relazione all’area e al tipo di residenza. Fonte: Ajial-Social Communication Center, 2001.
Da allora, poco più della metà della popolazione profuga continuò a risiedere nei campi, andando a costituirne la porzione più svantaggiata, soprattutto a causa delle severe misure attuate dall’autorità libanese, che ne controllava ogni attività e spostamento dentro e fuori dai campi (Sayigh, 1979: 111 e sgg.; Hudson, 1997: 249). Dunque, nel periodo che va dal 1948 al 1967, le condizioni di vita dei palestinesi, in Libano come altrove, furono durissime. Come quasi tutte le interviste agli anziani palestinesi sottolineano, l’allontanamento forzato dalle case e dalle terre, che pure, in non pochi casi, non fu del tutto tempestivo, ma deciso e in parte organizzato, avrebbe dovuto concludersi nel giro di qualche settimana, o addirittura di qualche giorno. Questo spiega perché la maggioranza delle famiglie profughe fuggì con qualche risparmio e i soli vestiti indosso, senza praticamente null’altro60. Sprovvisti dunque di ogni mezzo e con il supporto dell’UNRWA, nel corso degli anni Cinquanta agli accampamenti di tende vennero a sostituirsi costruzioni in cemento e mattoni, cui l’autorità libanese vietò, già da allora, l’edificazione di tetti stabili (ossia in muratura), proprio per evitare qualsiasi segno di residenza permanente. D’altra parte, i profughi stessi guardavano alla loro condizione come ad una residenza temporanea, in attesa del ritorno in patria. Sarà questo il leit-
motiv che, da allora sino ad oggi, informerà la posizione ufficiale assunta dal governo libanese nei confronti della comunità profuga palestinese: con la giustificazione di sostenere i diritti del popolo palestinese e il diritto al ritorno dei profughi, nessun passo politico e giuridico, che potesse anche
60 Ad esempio, Kassem Mouhammad Abou Jamous, nato nel 1924 ad Amke (Acca, Palestina), intervistato il 11-10-
2003 presso il campo di Shatila, riferisce: ‘Eravamo tutti convinti che nel giro di una settimana saremmo tornati, e per questa ragione non portammo nulla con noi, se non i vestiti che indossavamo, i certificati di proprietà della terra e le chiavi di casa. Ricordo che eravamo così certi di tornare entro qualche giorno che, oltre a chiudere porte e finestre, io diedi personalmente il mangime sufficiente per una settimana ai nostri animali, polli e capre’.
solo indirettamente incoraggiare il loro reinsediamento, verrà infatti mai compiuto (cfr. Hudson, 1997: 259).
Durante questo primo periodo, scrive Hudson, ‘i palestinesi si assestarono e si riaggregarono. Mentre i relativamente benestanti e istruiti trovarono in Libano una terra di opportunità, tuttavia la stragrande maggioranza – poveri, analfabeti e non specializzati – era in una situazione priva di speranze, repressa politicamente ed economicamente’ (1997: 249)61. Tale iniziale conformazione della diaspora palestinese in Libano si configurò, già a partire dai primi anni Sessanta, come un terreno altamente favorevole per la progressiva emersione di un movimento di resistenza: i profughi, infatti,
possedevano malcontento, giovani ‘masse’ pronte ad essere mobilitate e una sofisticata élite politica di classe media pronta a guidarle. E il Libano stesso, alquanto schizofrenico circa la questione palestinese, non ebbe coerenza né per sopprimere né per guidare l’organizzazione della resistenza (Ibidem).
Gli anni dal 1967 al 1975 sono segnati dalla crescita della resistenza armata palestinese62. A seguito della Guerra dei Sei Giorni nel giugno del 1967 – vincendo la quale Israele occupava le alture siriane del Golan, la penisola del Sinai, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – il movimento di resistenza palestinese accrebbe enormemente la sua popolarità in tutto il mondo arabo e nel 1969 si diede la sua prima vera forma organizzativa sotto il controllo dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP), già riconosciuta dalla Lega Araba nel 1964. Fra il 1970 e il 1971 l’intero quartier-generale dell’OLP si trasferì in Libano, a seguito dei sanguinosi scontri avvenuti in Giordania fra l’esercito e i guerriglieri e l’espulsione di questi ultimi (Shiblak, 1997: 264). In Libano, le pressioni dei profughi e dei loro alleati interni63 riuscirono ad assicurare una certa libertà di manovra a favore delle crescenti operazioni di guerriglia contro il territorio israeliano (Traboulsi, 2007: 152). Ma la presenza attiva dei guerriglieri palestinesi rischiava di gettare il paese dei Cedri in una crisi politica senza precedenti. Il Libano diventava, sì, la base dalla quale partivano le incursioni dei guerriglieri, ma a costo di assistere alla deflagrazione di tutte le sue contraddizioni interne, a cominciare dall’assetto istituzionale, frutto di una spartizione del potere unica nel suo genere, successivamente denominata, appunto, libanizzazione. Sotto una tale pressione, l’opinione pubblica libanese – citando le parole dell’allora primo ministro Rascid Karame – si trovò spaccata fra coloro che ‘chiedono che i fedayn siano presenti in Libano e operino partendo dal nostro territorio quali che siano i pericoli e le conseguenze’ e coloro che ‘vedono nell’attività dei fedayn una minaccia per il Libano’64. E infatti le rappresaglie indiscriminate dell’esercito israeliano65 e gli incidenti fra guerriglieri ed esercito libanese non si fecero attendere. Nonostante questa minaccia, tale situazione venne di fatto legittimata dagli Accordi segreti del Cairo del 1969 – firmati dal capo dell’OLP, Yasser Arafat, e dal comandante dell’esercito libanese, Emile Bustani –, i quali regolamentavano i tesi rapporti fra autorità libanese e comunità palestinese, cedendo formalmente la completa giurisdizione dei campi profughi all’OLP, consacrando il diritto della resistenza palestinese ad esistere in Libano e concedendole l’uso di alcuni territori come base per le operazioni dirette contro Israele (Picard, 1996; Hudson, 1997; Shiblak, 1997; Traboulsi, 2007: 154). L’esercito
61 Si noti che i palestinesi rifugiatisi in Libano erano alquanto diversificati socialmente. È possibile distinguervi una
porzione relativamente colta e benestante, proveniente dalle ricche aree urbane di Haifa e Acra, e una maggioranza di piccoli proprietari, contadini e braccianti provenienti invece dalla vaste aree rurali del nord della Galilea. Tale distinzione andò a riflettersi nella configurazione della diaspora in Libano: mentre i primi tenderanno a risiedere al di fuori dei campi, nelle grandi città libanesi, i secondi preferiranno stabilirsi nei campi profughi allestiti dall’UNRWA. Simili differenziazioni sociali si sono protratte sino ad oggi (Hanafi, in corso di stampa).
62 Già nel gennaio del 1965 si segnala la prima incursione di un commando palestinese in territorio israeliano. 63 Sin da subito gli alleati ‘naturali’ dei palestinesi furono la comunità sunnita e i nazionalisti arabi di sinistra. 64 Discorso al Parlamento citato in Baron (2002: 160).
65 Una delle più drammatiche di queste rappresaglie avvenne nel novembre del 1968, quando l’aviazione israeliana
libanese si ritirava di fatto da gran parte della regione meridionale e dai campi profughi, che potevano ora autogestirsi attraverso le strutture, i finanziamenti e la rete assistenziale dell’OLP66: come venne da più parti affermato, i campi profughi palestinesi si configurarono come ‘uno Stato dentro lo Stato’67, e il controllo palestinese su parte del territorio nazionale, mentre ‘geopardizzava’ pericolosamente la sovranità libanese, venne denominato ‘Fatahland’ (Traboulsi, 2007: 152) o ‘Fakhani Republic’68, ad indicare la trasformazione di un movimento rivoluzionario in una gigantesca macchina para-statale (Khalidi, 1986: 29).
Il movimento di resistenza palestinese poté così organizzarsi grazie all’entusiastico appoggio popolare dei campi profughi e si assicurò il sostegno della maggioranza dei musulmani libanesi69 ‘– assai più ricettivi della maggior parte dei cristiani ai problemi arabi – e di tutti coloro, in particolar modo le forze di sinistra, che chiedono una riorganizzazione del sistema politico e amministrativo libanese e non accettano più che la vita politica sia dominata dalla borghesia’ (Baron: 2002: 158)70. La questione palestinese comincia ad emergere come il punto dirimente della polarizzazione fra fazioni libanesi contrapposte, e si configura in Libano come il giro di boa di una situazione politica, economica e confessionale altamente complessa e pronta ad esplodere. È questo
uno snodo fondamentale nella storia del Libano, l’avvio di una profonda mutazione che condurrà alla crisi del 1975. Le forze progressiste e nazionaliste arabe vedono presto nella rivoluzione palestinese un denominatore comune che potrebbe avere – ed effettivamente avrà – un ruolo catalizzatore che permetta loro di ottenere la riforma sociale, economica e politica cui aspirano. […] La rivoluzione palestinese così si inserisce profondamente nella complessità della vita politica e sociale libanese. […] Ma tale processo mette a dura prova il delicato edificio comunitario creato per il Libano dopo l’indipendenza e che può sussistere solo se tutti rispettano le regole. Questo è altrettanto vero per il sistema economico liberale del Paese, che può funzionare solo se regna la tranquillità (Ibidem).
Nonostante gli Accordi del Cairo che regolamentano la presenza palestinese in Libano, la crisi libanese non accenna a risolversi, ma al contrario gli incedenti, interni ed esterni, si moltiplicano: ad ogni momento la tensione rischia di degenerare in una guerra senza quartiere, cui ogni volta si trova un ‘arrangiamento’ in grado di mantenere sotto controllo la situazione sino alla crisi successiva71.
66 Per la storia degli attori assistenziali palestinesi in Libano, cfr. il paragrafo 2.1.2.
67 Un’analisi interessante riguardo alla configurazione politica dei campi profughi come ‘Stato dentro lo Stato’ libanese,
riferita al caso del campo profughi di Ain el-Helweh, è offerta da Jaber Suleiman (1999).
68 Dal nome di un quartiere della parte occidentale di Beirut, dove era allocata gran parte degli uffici dell’OLP.
69 In questa fase, l’alleato principale dell’OLP era la sinistra nazionalista libanese, inclusi il Movimento nazionalista
arabo, il Partito nazionale siriano, Ba’ath e il Partito comunista libanese (cfr. Sayigh, 1994: 25; Hudson, 1997: 252; Traboulsi, 2007: 201-4).
70 Si tenga presente, inoltre, come la miseria della fascia meridionale del Libano, cui vanno aggiunti i ripetuti attacchi
israeliani ai villaggi di frontiera, abbia incentivato l’esodo dalle zone rurali di una massa cospicua di diseredati, a maggioranza sciita, verso le aree urbane delle principali città. Vennero così a crearsi ampli sobborghi popolosi, dove la povertà, la disoccupazione e la difficoltà di adattamento favorirono la prolificazione di una rete di partiti di sinistra e organizzazioni assistenziali autogestite. Le condizioni di vita di questa porzione sciita della popolazione e la contiguità territoriale con i campi profughi palestinesi hanno fatto sì che fra questa massa che popola le cinture industriali delle zone urbane e la resistenza palestinese si stabilisse una sorta di alleanza di classe. Inoltre, la resistenza palestinese trova un suo naturale alleato nelle forze progressiste libanesi, con le quali, nel corso della guerra civile, condivide i canali dell’armamento e il sostegno logistico.
71 Un’idea della frenesia politica e del malcontento sociale che investirono in quegli anni il Libano è offerta da questa
descrizione di Bruno Marolo: ‘La rabbia dei poveri periodicamente esplode, malgrado il tentativo di frenarla dei sindacati padronali e dei notabili vecchia maniera. Nel novembre 1972 gli operai delle industrie conserviere Ghandur, le più grandi del Libano, si sollevano contro l’articolo 50 del codice del lavoro, che consente ai padroni di procedere a licenziamenti in caso di sciopero. La polizia spara sui dimostranti e ne uccide due. Il mese dopo i coltivatori di tabacco
Trovare una formula che mettesse definitivamente d’accordo le varie fazioni libanesi sembrava appariva pressoché inconcepibile, se non all’interno di un accordo regionale in Medio Oriente che potesse rappacificare l’intera area.
Le rappresaglie israeliane in territorio libanese contribuirono ad accrescere la tensione fra gli schieramenti politico-confessionali libanesi, ad esacerbare il malcontento sociale, il quale catalizzava la rivendicazione di una serie di necessarie riforme socio-economiche72, e a minare, infine, la già difficile convivenza fra palestinesi e alcune porzioni della società libanese, soprattutto quelle di confessione cristiana, e in special modo i maroniti73, una minoranza potente che aveva ereditato dal Mandato francese la gestione politico-economica del paese dei Cedri. La cosiddetta
libanizzazione del potere, che consiste nella distribuzione costituzionale degli organi di potere sulla base delle maggioranze confessionali, riflette la complessità della realtà sociale libanese, dall’indipendenza in poi, la quale ricomprende al suo interno ben diciassette ordini confessionali, riconducibili alle principali correnti religiose del cristianesimo ortodosso, dell’islam sunnita e sciita, dei drusi74. Nel corso del processo di indipendenza (1943), l’autorità francese incoraggiò questa operazione di spartizione del potere su base confessionale – in verità già presente nella carta costituzionale stilata nel 192675 – e vi favorì, in virtù di una mitica alleanza che affonda le sue radici nei tempi delle Crociate, la componente conservatrice cristiano-maronita, una minoranza che ottenne in questo modo l’amministrazione quasi totale della neo-nazione libanese.
L’operazione ideologica che sottostà alla libanizzazione del potere esprime la cooptazione religiosa