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Guardare attraverso il prisma della cooperazione

2.2 Un puzzle antropologico

2.2.2 Ong palestinesi, Ong straniere e donors internazional

Nel corso del terzo soggiorno sul campo, nell’agosto del 2007, partecipai ad un seminario in materia di Conflict Resolution, tenutosi a Broumana, una località di montagna alle spalle di Beirut, rinomata per il suo college esclusivo e per essere il paese di sepoltura di Edward Said. La classe si componeva di giovani operatori di Ong e associazioni libanesi e palestinesi. L’insegnante del corso era Valentina, di origine croata, una operatrice umanitaria con pluriennale esperienza con rifugiati croati prima, kosovari, poi, infine palestinesi. Al momento sta attendendo la risposta delle Nazioni Unite per recarsi a lavorare con i profughi colombiani. Nei tre anni precedenti Valentina aveva lavorato nei campi profughi palestinesi del Libano per la Ong italiana CISP, in qualità di coordinatrice di due progetti: uno ha pianificato la creazione di un centro giovanile nel campo di Rashiddye; l’altro ha previsto l’allestimento di una biblioteca per ragazzi in quello di Nahr El- Bared. Mentre questa ultima, realizzata in partnership con la Ong palestinese Al-Jana, è stata distrutta dai bombardamenti dell’esercito libanese durante l’assedio del campo fra l’aprile e il settembre 2007, il centro giovanile di Rashiddye, allestito in collaborazione con la Ong locale

General Union for Palestinian Women – Lebanon (GUPW, che peraltro è l’unica organizzazione, fondata negli anni Sessanta da Al-Fatah205, ancora pubblicamente affiliata a questo partito) continua a funzionare autonomamente.

Riflettendo sulla sua esperienza di cooperante, Valentina mostra una certa ampiezza di vedute e forte spirito critico. Poiché il seminario in cui ci incontrammo era stato organizzato dalla Ong Al- Jana, mi aspettavo che Valentina conservasse una certa stima di questa organizzazione, soprattutto perché essa si distingue nella panoramica di Ong palestinesi per la selezione di un campo di intervento tipicamente culturale, prestando particolare sensibilità ai processi memoriali della comunità profuga in generale e all’empowerment dell’infanzia tramite l’uso di strumenti artistici. Invece, Valentina, come professionista della cooperazione, non mostrò facili entusiasmi a riguardo. La distinzione che tracciò fra GUPW e Al-Jana si appuntò sulle rispettive capacità di managing: mentre la prima si avvaleva di una gestione povera e scarse abilità organizzative, Al-Jana, al contrario, dimostrò una professionalità impeccabile in tema di puntualità, di formalizzazione dei rapporti con il CISP, di implementazione del progetto. Ma, a dispetto di questi opposti livelli di professionalità nel management, i rapporti fra CISP e GUPW si costruirono all’insegna della fiducia e dell’apertura a collaborare attivamente in un’ottica di mutuo scambio di capacità e competenze, mentre quelli con Al-Jana si rivelarono faticosi: ‘ho avuto molte difficoltà – spiega Valentina – a far capire ad Al-Jana che il CISP non era un donor, ma un partner. Invece Al-Jana si comportava come se avesse a che fare con un donor, al quale nascondere le cose e confondere le carte. Anche se poi tutto funzionò perfettamente, non fui assolutamente soddisfatta dei nostri rapporti, perché il management di questa Ong agiva nei miei e nei confronti del CISP come se avesse a che fare con qualcuno da tenere a distanza’206. Grazie a queste considerazioni, completai e bilanciai un entusiasmo del tutto personale verso una Ong all’apparenza così aperta, raffinata e poco ‘umanitaria’ come Al-Jana. Senza nulla togliere al merito dei suoi progetti nei campi profughi palestinesi, cominciò a distinguersi però una dimensione trasversale, quasi a sé stante, che costituisce l’ambito in cui prendono forma, si stabiliscono e si negoziano le relazioni fra le organizzazioni palestinesi, le Ong straniere e i donatori internazionali. Il breve percorso etnografico che si è in procinto di proporre vorrebbe collocarsi in quella più ampia ‘sfida’ antropologica di cui parlano David Mosse e David Lewis, la quale si opponga ad ‘una comprensione razionale e strumentale dello sviluppo come l’esecuzione della politica internazionale. (…) Le pratiche degli attori dello sviluppo non sono governate da prescrizioni politiche, ma generate da assai differenti e molteplici logiche amministrative, politiche o socio-relazionali volte a razionalizzare la politica’ (2005: 22). Formulare qualche riflessione circa il contesto in cui si realizzano queste logiche è interessante per diversi motivi. Anzitutto perché contribuisce a scomporre ulteriormente il ‘mondo umanitario’ che ruota intorno ai campi profughi palestinesi in Libano, mostrandone un’altra

205 Cfr. il paragrafo 2.1.2. 206 Colloquio del 18-08-2007.

prospettiva rispetto a quella offerta dall’UNRWA. In secondo luogo perché, più verticalmente, getta luce su un anello intermedio di quella catena dell’aiuto, che connette il donatore al beneficiario, il quale costituisce l’interfaccia (o il punto di incontro e traduzione) fra strategie assistenziali locali e straniere. Infine, perché esplorare le modalità utilizzate dalle organizzazioni locali palestinesi per relazionarsi al cooperante straniero fornisce spunti efficaci per riflettere sul complesso di rappresentazioni che la comunità profuga ha rielaborato in merito agli aiuti internazionali, agli effetti da essi prodotti localmente e alle strategie di manipolazione attuate per riadattare le risorse ai propri bisogni e alle proprie priorità.

Tornando brevemente al primo progetto coordinato da Valentina nel campo di Rashiddye, l’incontro casuale con Dana, ricercatrice libanese in antropologia dello sviluppo nonché sua assistente e traduttrice nel processo di implementazione, ha gettato luce su un aspetto che invece Valentina ha taciuto. Dana racconta di quanto sia stato complesso lavorare al progetto di creazione di un centro giovanile a Rashiddye in collaborazione con la Ong GUPW. Il passaggio più faticoso è consistito nel creare le condizioni affinché il centro proseguisse da solo, una volta terminato il progetto. Nel corso dei due anni di durata del progetto, la Ong italiana CISP aveva formato le competenze di coloro che poi avrebbero gestito il centro e aveva fino a quel momento sostenuto i costi di funzionamento. A sei mesi dal termine del progetto, Valentina e Dana hanno chiesto ai responsabili del centro di cercare partners locali e finanziamenti per procedere autonomamente. Questa richiesta suscitò ‘il panico. I responsabili hanno reagito rifiutandosi, dicendo che ciò non era possibile, che non ne erano capaci e cose simili. È stato difficilissimo compiere questo passo di indipendenza dagli aiuti’207. Un tale episodio è significativo perché rivela il duplice volto dei rapporti fra Ong locali e straniere. Da un lato, infatti, le organizzazioni palestinesi agiscono come se avessero a che fare con un donatore, preservando il più possibile la propria autonomia; dall’altro, però, alla luce dei fatti, esse nutrono un rapporto di dipendenza che delega ad altri la responsabilità della sostenibilità di un progetto. Secondo Dana, la difficoltà di pensare autonomamente ad un modo per rendersi indipendenti dal progetto iniziale corrisponde alla resistenza ‘di dare qualcosa in cambio al partner straniero. Il risultato è la totale chiusura nel concepire il partnership in cooperazione’. Questa valutazione conclusiva appare forse un po’ severa, dal momento che – come sostiene Renuah, la responsabile libanese della Ong palestinese Norwegian People Aid (NPA) – la prassi abituale è che ‘le Ong straniere arrivano, finanziano i progetti e se ne vanno, senza curarsi della loro sostenibilità nel tempo’. La sostenibilità dei progetti, il fatto che essi siano in grado, terminati i fondi stranieri, di continuare a funzionare da soli, è un aspetto che sta molto a cuore a NPA.

Ciò richiede – prosegue Renuah – che vengano presi in considerazione fattori che prima erano trascurati: ad esempio se un progetto di vocational

training per i giovani viene finanziato, bisognerà considerare attentamente il mercato del lavoro e la situazione storico-politica in Libano, altrimenti a cosa serve? Faccio un esempio: ci sono due università, una costosa ma qualificata e famosa, l’altra economica ma poco qualificata. I datori di lavoro sceglieranno gli studenti dell’università famosa e qualificata; allora perché creare tante università poco qualificate, che laureeranno studenti che poi difficilmente troveranno lavoro?208

Se è vero che ricercare le condizioni della sostenibilità significa anche ricercare quelle dell’indipendenza dagli aiuti immediati, allora quella diffidenza, volta – come si vedrà a breve – a preservare un’autonomia tanto ostentata dalle Ong palestinesi, non si mette al sicuro dalla dipendenza economica, ma sembra essere del tutto incentrata su una negoziazione fra poteri simbolici. Mentre le organizzazioni locali sono economicamente dipendenti dai rispettivi ‘partners’

207 Colloquio del 23-08-2007. 208 Colloquio del 11-06-2007.

stranieri, questi, i quali a loro volta hanno degli interessi da salvaguardare, in primis le condizioni di finanziamento dei donatori, sono indotti a dipendere dalle Ong palestinesi in termini di strutture organizzative e conoscenza sul territorio di tutte le risorse necessarie alla realizzazione di un progetto, a tal punto che Sheila Carapico ha parlato di ‘ricerca di Ong locali da affittare’ (2000: 14; cfr. anche Olivier de Sardan, 2005: 173). La diffidenza e tutte le malizie utilizzate per lasciare in sospeso l’organizzazione straniera (come la flemma di contro all’urgenza, la vaghezza degli impegni e, più in generale, tutti i mezzi per ‘prender tempo’) appartengono dunque ad una precisa strategia per ottenere il riconoscimento di un potere in grado di bilanciare e di compensare la dipendenza economica, o, meglio, forse l’umiliazione e la subordinazione che essa comporta. Durante il corso a Broumana, le frequenti occasioni di riflessione con Valentina chiarirono in primo luogo la struttura generale in cui sono da collocare le relazioni formali fra Ong palestinesi e straniere. Vista da questa prospettiva, non stupisce affatto, dunque, che Al-Jana si sia rapportata al CISP come ad un donor, piuttosto che come ad un partner. Infatti, la stragrande maggioranza delle organizzazioni internazionali attive presso i campi profughi del Libano svolge piuttosto una funzione di mediazione fra donatori internazionali (principalmente ECHO e altri enti finanziatori governativi) e le organizzazioni palestinesi in questione. Ciò significa che, fatta eccezione per qualche raro caso di interventi specifici implementati direttamente da tecnici europei, le Ong straniere non operano sul terreno con il proprio personale, ma reindirizzano quei fondi che a loro volta hanno ricevuto dai donors per finanziare dei progetti di fatto realizzati sotto quasi tutti gli aspetti dalle organizzazioni locali. Visitando a più riprese il campo profughi di Beddawi, investito dall’emergenza degli sfollati in fuga da quello di Nahr El-Bared, ci si accorge di una ulteriore stratificazione dei soggetti attivi nei soccorsi. Mentre, infatti, i beni di prima necessità sono direttamente forniti dalle organizzazioni internazionali accorse per l’emergenza (UNRWA compresa), altre tipologie di aiuto, appartenenti alla fase di riabilitazione post-bellica (che pure si sovrappone nella tempistica a quella più propriamente bellica), sono completamente delegate a quelle palestinesi. In altri termini, nelle attività di primo soccorso sono direttamente le Ong internazionali a farsi carico degli aspetti organizzativi di distribuzione degli aiuti; invece tutto il processo di riabilitazione post-emergenziale (come gli interventi psico-sociali per i traumatizzati di guerra, le attività terapeutiche per i bambini, o i piccoli progetti di manutenzione degli spazi in grado di generare reddito) è ‘appaltato’ alle organizzazioni locali. Non basta: nell’emergenza di Beddawi le Ong palestinesi che non dispongono di una propria sede nel campo si sono a loro volta ‘appoggiate’ alle associazioni di base (grassroot organizations) qui presenti o a singoli facilitators ingaggiati per l’occasione. Ricapitolando, nel contesto dell’emergenza di Beddawi, il donatore internazionale finanzia gli interventi delle organizzazioni straniere; queste svolgono in prima persona le operazioni di primo soccorso e delegano invece la riabilitazione alle Ong palestinesi; queste ultime, a loro volta, qualora non fossero ubicate materialmente nel campo, finanziano alcune associazioni di base, le cui strutture fisiche e burocratiche, la conoscenza del territorio e, talvolta, gli stessi social workers volontari sono necessari per realizzarne i progetti. La trafila dei soggetti, che l’emergenza umanitaria di Beddawi ha posto in una condizione di dipendenza l’uno dall’altro, rivela una stratificazione di attori sociali un po’ più complessa di quella offerta dal binomio Ong straniere e locali.

Non deve comunque apparire strano o fuori luogo che le organizzazioni non-governative palestinesi tendano a confondere il ruolo del donatore internazionale con quello dell’organizzazione straniera intermediaria, sovrapponendone le competenze, le aspettative e gli interessi. Un membro di una Ong palestinese difficilmente si riferirà all’organizzazione straniera che ne finanzia i progetti come a un partner o a un collaboratore, ma sempre come a un donatore o a un ente finanziatore, cui ci si limita a fornire rapporti periodici in merito alle spese o all’andamento del progetto. Un tale quadro è in parte riconfermato dal fatto che poche sono le organizzazioni straniere che dispongono di una sede fissa in Libano o di personale espatriato – anche se bisogna specificare che, in seguito alla Guerra fra Israeliani e Hezbollah dell’estate del 2006, parte delle Ong impegnate nella ricostruzione e che hanno aperto uffici temporanei erano già attive in Libano presso i campi profughi. Questa

ultima considerazione conduce a ritenere che gran parte delle organizzazioni straniere presenti nel contesto palestinese in Libano, impossibilitate a sostenere i costi di una sede estera o di personale espatriato (fatta eccezione per i ben finanziati casi di emergenza umanitaria e ricostruzione post- bellica) siano perlopiù di medie e piccole dimensioni. Fra queste vanno annoverate anche tutte quelle forme associative, politicamente impegnate e di stampo militante, che hanno stabilito rapporti duraturi di solidarietà (anche economica) con alcuni gruppi o aggregazioni politiche palestinesi oggi attive, sebbene attraverso canali più informali, anche nell’ambito della cooperazione. Come si osserverà nel prosieguo di questo stesso paragrafo, accade più spesso che i contatti diretti fra il personale locale e quello straniero si limitino ai brevi, ma non così infrequenti sopralluoghi compiuti da questi ultimi per valutare l’implementazione del progetto.

Spiegabile dunque con l’ambiguo ruolo giocato dalle organizzazioni non-governative straniere in qualità di enti promotori e mediatori finanziari dei progetti di cooperazione, la resistenza delle Ong palestinesi a riconoscere in esse dei partner alla pari con cui collaborare attivamente e scambiare competenze è sintomo comunque di due concezioni differenti di cooperazione che qui si scontrano. Ketta, la coordinatrice dei progetti in Libano per la Ong italiana Cooperazione Italiana Sud-Sud (CISS), insiste molto su questo punto. Espatriata per la sua organizzazione per far fronte all’emergenza di Beddawi, vive a Beirut per seguire inoltre l’implementazioni di tre progetti in tre diversi campi profughi in collaborazione con la Ong locale BAS. Questi progetti riguardano l’ampliamento delle strutture già esistenti di BAS e il finanziamento di alcuni corsi professionali da tenersi al loro interno; la tipologia medesima di questi progetti lascia poco spazio al partnership fra i due soggetti: l’uno aiuta l’altro a crescere in mezzi, strutture e visibilità fra i profughi beneficiari. Tuttavia, le osservazioni di Ketta non mettono in discussione gli interventi da lei seguiti, bensì una sorta di conflitto per il potere:

Il mio partner locale ha 30 anni di esperienza, quindi probabilmente non c’è davvero bisogno che io vada a controllare l’andamento dei progetti, ma qui confliggono idee diverse di cooperazione. Gli attriti cominciano perché le Ong straniere, come il CISS, vorrebbero partecipare di più all’ambito decisionale, mentre le Ong palestinesi temono che dietro questa richiesta si celi la volontà di ottenere tutto il potere decisionale. D’altra parte sembra che queste Ong locali agognino solo ai soldi e non tollerino interferenze. Mi pare che le organizzazioni palestinesi cerchino dei donors, non dei partners, che il loro motto sia ‘dammi i fondi e io li spendo come meglio credo’. Penso che siano stati abituati così da decenni di cooperazione indiscriminata209.

Queste riflessioni rievocano in parte le aspettative che il developer proietta sui developed, nell’intento di ‘cambiarlo, formarlo, omogeneizzarlo e probabilmente migliorarlo’ (Kaufmann, 1997: 107), in questo caso anche per rimarcarne la distanza da una concezione di cooperazione intesa come un nobile scambio reciproco. C’è tuttavia chi sottolinea che, anche se ‘molte Ong sostengono di avere partner locali (…,) al massimo la partnership con attori locali si realizza sul campo in termini di manovalanza e di amministrazione di un pacchetto di aiuto già definito entro precise cornici’ (Deriu, 2001: 93). Dietro suggerimento di Voutira e Harrell-Bond – che hanno indagato la costruzione delle relazioni fra i diversi attori della cooperazione nel contesto dei campi per rifugiati africani –, si è visto come la diffidenza fra comunità palestinese in Libano e UNRWA si ricrei all’interno di una competizione fra agende politiche differenti; nel caso dei rapporti fra Ong palestinesi e Ong straniere/donors, come la conversazione con Ketta del CISS ha lasciato emergere, l’assenza di fiducia – che induce oggi le prime a resistere agli approcci di partnership delle seconde – è riconducibile ad una competizione per il potere (1995: 214).

209 Colloquio del 11-06-2007.

Ma quali peculiari dinamiche sostengono il perdurare della sfiducia a questo livello di formazione delle relazioni nella cooperazione? Per iniziare a comprenderle è utile visitare lo stabile a due piani del Children & Youth Club (CYC) nel campo di Shatila e l’ufficio del suo presidente Abu Mouhjaed. Nonostante questa organizzazione non sia registrata presso il governo libanese, essa sostiene tuttavia parecchi progetti per i giovani grazie ai fondi di alcune Ong internazionali. Riguardo al rapporto con queste ultime, Abu Mouhjaed appare perentorio quando subordina i finanziamenti che riceve alla assoluta autonomia della sua organizzazione: ‘ecco perché – aggiunge – seleziono severamente i miei donors, non prendo soldi da tutti indiscriminatamente. Prima devono venire le relazioni con le Ong straniere, ossia conoscersi e capire le rispettive strategie di cooperazione e le posizioni politiche, poi vengono i soldi’. Per compatibilità fra ‘strategie di cooperazione’ Abu Mouhjaed intende che non debba esserci da parte della Ong straniera la volontà ‘di interferire con le nostre scelte, mettendo a rischio la nostra autonomia’; in merito alle ‘posizioni politiche’, si riferisce al fatto che chi finanzia la CYC debba prendere esplicitamente ‘posizione a favore del diritto al ritorno dei profughi’. La preoccupazione di Abu Mouhjaed circa l’autonomia della CYC traccia nettamente la linea che separa le rispettive sfere di azione e influenza fra Ong locali e Ong straniere: ‘Noi viviamo a Shatila da sempre, chi meglio di noi conosce i bisogni e i problemi dei profughi e la maniera di affrontarli? Quindi, sull’autonomia io non transigo’210. Ciò che conferisce legittimità e autorevolezza alla Ong palestinese è il suo radicamento sul territorio, la reperibilità delle risorse e la conoscenza diretta dei beneficiari, insomma l’insieme di capacità e relazioni che Rahnema chiama ‘software umano’ (2004: 121): se la Ong finanziatrice non riconosce questi aspetti allora l’indipendenza dell’organizzazione locale è a rischio. Ma, ad osservare meglio, non sembra siano le organizzazioni straniere in sé a costituire una minaccia per l’autonomia, quanto piuttosto sono le condizioni poste per l’elargizione dei fondi ad esercitare una qualche forma di influenza. Anche Abu Fadi, il presidente di Al-Hola, una associazione ‘di villaggio’ del campo di Burj El-Shemali, pone l’autonomia come il valore primario che una organizzazione deve preservare:

finché un’associazione vive del volontariato dei suoi membri (sempre che i partiti politici ne restino fuori), la sopravvivenza corre sempre sul filo del rasoio, ma l’autonomia è assicurata. Quando invece iniziano ad arrivare proposte politiche e donazioni internazionali, allora la faccenda si complica su due livelli: 1- i donatori in modi diretti e indiretti influenzano l’operato delle Ong; 2- le Ong stesse perdono di vista le motivazioni per cui sono nate, e si mettono in competizione fra loro, aspirando solo ad appiccicare il loro nome sul maggior numero di progetti possibile. Per quanto riguarda Al- Hola, posso dire che non ci faremo comprare né dai partiti politici palestinesi, né dai donatori internazionali’211.

Di quale natura dunque possono essere le interferenze o le influenze esercitate dalle Ong straniere intermediarie su quelle palestinesi? Anzitutto i finanziamenti internazionali spingono le organizzazioni locali ‘ad adattarsi ai programmi di sviluppo stranieri, piuttosto che all’agenda dei profughi palestinesi’ (Salah Salah, Ajial)212. Le Ong internazionali ‘hanno proprie idee e propri programmi di assistenza a seconda del momento (ad esempio prima va di moda la democrazia, poi il gender, poi l’infanzia, eccetera) – spiega Renuah, la responsabile della Ong NPA – e le