Guardare attraverso il prisma della cooperazione
2.2 Un puzzle antropologico
2.2.3 Rapporti fra Ong palestines
Ma lavorare con le Ong palestinesi – prosegue infatti Giulia – è anche più difficile, perché a livello politico è faticoso capire il ruolo giocato dalla politica all’interno delle Ong. Spesso le Ong palestinesi, infatti, intrattengono rapporti di fedeltà politica ad uno o ad un altro partito politico, e fanno di tutto per dissimularli, per occultarli, come se la controparte italiana debba restare a tutti i costi all’oscuro di questi legami politici. Ma collaborare con le Ong palestinesi è difficile anche sotto un altro aspetto politico, nel senso che è praticamente impossibile venire a capo delle intricatissime relazioni competitive fra una o l’altra Ong. Se l’Ong italiana x intrattiene rapporti con la Ong palestinese y e con la Ong palestinese z, la posizione della Ong italiana sarà delicatissima. Insomma, è necessario possedere una certa conoscenza degli attori della cooperazione palestinese e sviluppare una certa sensibilità politica per non infrangere un equilibrio senza il quale non potrebbe aver luogo nessuna proficua collaborazione.
Queste considerazioni sono utili ad introdurre le dinamiche che saranno l’oggetto del presente paragrafo. Da una parte, Giulia comincia a mettere in luce un aspetto veramente cruciale che caratterizza la natura delle organizzazioni assistenziali palestinesi in Libano e ne informa le reciproche relazioni, ossia i legami più o meno diretti con i vari partiti politici palestinesi; dall’altra, mostra come sia difficile per una Ong straniera – che comunque abbia un qualche interesse conoscitivo, oltre che professionale, rispetto alla realtà di intervento – inserirsi nei delicatissimi equilibri di potere che intercorrono fra le Ong locali, ossia all’interno di un terreno altamente competitivo.
Si potrebbe cominciare ad esplorare il primo aspetto cui si è fatto riferimento – i legami politici fra Ong e partiti palestinesi in Libano – a partire da alcuni episodi che hanno consentito a chi scrive di accorgersi progressivamente dell’esistenza e della natura di tali relazioni. Il primo soggiorno sul campo, infatti, si è configurato anche come un’esperienza all’interno della cooperazione241. Il mio lavoro di raccolta di storie di vita degli anziani palestinesi si appoggiava anche ai circuiti, operativi in ogni campo profughi, della già citata Ong palestinese BAS, nel senso che tramite questa organizzazione potei reperire buona parte degli intervistati. Era BAS a suggerire le persone di cui io avrei potuto registrare la memoria. Ovviamente ciò mi fu di grande aiuto, perché sarebbe stato assai complicato introdurmi nelle case delle famiglie e chiedere agli anziani di raccontarmi la loro vita. Avrei potuto farlo, certo, ed in alcuni casi è anche accaduto; ma il fatto d’essere introdotta precedentemente agli intervistati dagli operatori di BAS, che li conoscevano bene (spesso ne erano parenti) e ne avevano già ascoltato la storia, costituiva senza dubbio una carta a mio favore, rendendo più indulgenti gli anziani alle mie impertinenze e disponendoli con maggiore fiducia circa la mia curiosità. Trascorso non molto tempo dall’inizio dell’attività, tuttavia, mi accorsi di calpestare una pista in qualche modo già battuta: tutti gli anziani intervistati sino a quel momento, infatti, giunti al punto di raccontare le loro vicissitudini in Libano, si dilungavano parecchio circa l’esperienza della resistenza palestinese fra il 1969 e il 1982 (gli anni dell’OLP), affrettandosi a tessere le lodi di Jasser Arafat e del suo partito Al Fatah. Inizialmente ciò non suscitò in me alcuno stupore, soprattutto perché questi uomini e queste donne avevano vissuto in prima persona gli anni di gloria della rivalsa palestinese, gli anni in cui l’OLP aveva base in Libano e da qui guidava la rivolta contro l’occupazione israeliana. Molti di loro erano stati guerriglieri arafatiani o avevano contribuito ad organizzare la resistenza. A questi anziani, insomma, con Arafat in testa, il ritorno in Palestina era apparso a portata di mano. Era naturale dunque la mistificazione di Arafat e Al Fatah, come naturale mi sembrava la sincera nostalgia con cui gli intervistati parlavano di quegli anni di
lotta ormai lontani. Ma un conto non riuscivo a far tornare: era possibile che tutti gli intervistati tramite BAS, nessuno escluso, non avanzassero critiche o perplessità circa l’operato di Arafat, quando questi firmò la famosa Dichiarazione di Principi di Oslo nel settembre del 1993, la quale di fatto sanciva l’esclusione dalla negoziazione politica col governo israeliano delle migliaia di profughi palestinesi? Era possibile che nessun anziano lamentasse l’abbandono, cui erano costretti i profughi in Libano, da parte della dirigenza palestinese capeggiata da Arafat? Ciò sembrava strano, tanto più che ‘personaggi di spicco nella comunità palestinese (in Libano, ndr), che precedentemente avevano appoggiato il processo di pace, criticarono apertamente la Dichiarazione’, ‘e genuina rabbia e frustrazione serpeggiarono attraverso la diaspora, giacchè i palestinesi si sentirono marginalizzati dopo una lunga e sanguinosa lotta per il riconoscimento’ (Shiblak, 1997: 271). A conferma della disillusione che coinvolse i profughi palestinesi in Libano in particolare, vale la pena riportare un passaggio tratto da Julie Peteet (1997: 4), nota studiosa del rifugismo palestinese in questo paese:
Dalla partenza dell’OLP nel 1982 e il suo declino (…) all’interno dell’ANP e la mancanza di interesse per la diaspora (…), i palestinesi in Libano si sono sentiti abbandonati. L’irrilevanza dei profughi in Libano si segnalò per il declino dei servizi, dei fondi e della loro inclusione in una più ampia strategia politica palestinese (…). L’ANP prestò poca attenzione ai rifugiati in Libano (…). In modo più criticabile, i profughi in Libano non hanno alcuna legittimità costituzionale per esercitare pressione sull’ANP su questioni per loro importanti, né sono visti politicamente o strategicamente molto significativi per il processo di pace. I profughi provano un’intensa amarezza verso l’OLP, Fatah e Yasser Arafat in particolare. (…) Non solo erano stati abbandonati politicamente, ma le risorse che usualmente si riversavano dall’OLP ai profughi in Libano scomparvero completamente.
Ciononostante, dopo decine di interviste, nessuno aveva espresso disapprovazione o dissidenza circa l’ultimo periodo di governo arafatiano. A ragione, mi sorse il sospetto che BAS fosse chiaramente schierata dalla parte di Al Fatah.
Quando mi proposi di discutere questo aspetto della mia collaborazione con BAS, intenzionata a spiegare che il lavoro che stavo svolgendo avrebbe necessitato di una pluralità di voci, e non di una sola elogiativa dello status quo, il presidente dell’organizzazione, Kassem Aina, rifiutò di affrontare la questione. Compresi immediatamente che insistere avrebbe urtato la sua sensibilità; pertanto abbandonai. Una esigenza metodologica di ricerca suscitava un problema politico. Ma, se non era possibile venirne a capo direttamente, indagai attingendo ad altre fonti, per esempio interrogando amici palestinesi o operatori palestinesi di altre Ong in merito allo schieramento politico di BAS. E venni a conoscenza, non solo della filiazione diretta di questa organizzazione da Al Fatah e dei relativi finanziamenti, ma anche della duratura amicizia che legava Kassem Aina ad Arafat e degli anni di dura militanza che i due avevano condiviso. Infatti, anche se Al Fatah ‘non ha più una aperta presenza nella maggioranza dei campi palestinesi’ in Libano, tuttavia ‘le sue strutture sotterranee esistono ancora’ (Peteet, 1997: 4). Finalmente, tutti i conti tornarono.
O quasi tutti: perché infatti tanto mistero circa il legame fra l’Ong in questione e la fonte, in questo caso un preciso partito politico, da cui riceveva parte dei suoi finanziamenti? In fondo, anche le Ong straniere spesso e volentieri ricevono fondi dai ministeri. Perché tanta ritrosia nel dichiarare la propria appartenenza? Probabilmente, per due ordini di motivi. Innanzitutto bisogna considerare il quadro politico-legislativo libanese in cui operano le Ong palestinesi: si è già avuto modo di sottolineare quanto difficoltoso sia l’iter burocratico di registrazione presso il Ministero degli Interni libanese, nonché quanto sospettosa sia la sorveglianza libanese circa l’operato delle Ong
palestinesi242. Dichiarare apertamente la propria filiazione politica avrebbe certamente destato sospetti e creato inutili problemi. In secondo luogo, sbandierare la propria posizione politica avrebbe, per BAS, comportato anche una rivalutazione da parte dei propri partners finanziatori stranieri, fra cui compaiono l’Unione Europea e l’UNRWA, le quali finanziano alcuni suoi progetti. La cooperazione internazionale vanta la neutralità sopra ogni altro principio, e schierarsi significherebbe probabilmente screditarsi presso l’arena dei fondi stanziati per lo sviluppo e la cooperazione. Quando capitò di parlare dei legami fra organizzazioni assistenziali e partiti politici palestinesi, Valentina, ex-operatrice della Ong italiana CISP, si mostrò alquanto categorica: ‘Le Ong palestinesi al 90% sono legate a qualche partito politico, ma assolutamente non vogliono mostrarlo a quelle straniere, per corrispondere al valore di neutralità che esse richiedono ai loro partner locali e per non perdere i fondi’243. Paradossalmente, quando invece esposi la questione all’organizzazione italiana, Un Ponte per…, con la quale collaboravo e che da anni portava avanti una efficiente partnership con BAS (nell’ambito dell’educazione infantile e dei gemellaggi, nonché in ambito sanitario, con la creazione di ambulatori odontoiatrici), gli operatori di Un Ponte per… mostrarono curiosità e interessamento, ma anche qualche disapprovazione, dal momento che le posizioni politiche di questa Ong italiana sono notoriamente critiche circa le scelte della dirigenza palestinese e gli effetti devastanti che la Dichiarazione di Oslo ha prodotto sui profughi palestinesi. Tanto più che in Libano l’esclusione della questione dei profughi dal tavolo politico risollevò i timori circa un loro insediamento definitivo in questo paese, e, dunque, condusse ad una serie di ulteriori misure restrittive volte a scongiurare che ciò accadesse. Forse, la struttura attivista di questa organizzazione italiana le impedì allora di soffermarsi sui legami politici che, volente o nolente, andava intessendo.
Come si è ampiamente mostrato244, per ciò che riguarda la natura politica dell’assistenza palestinese ai profughi, è necessario risalire agli anni 1969-1982, in cui l’OLP, ricevuto il via libera, con gli Accordi del Cairo, all’auto-organizzazione dei campi profughi in Libano, poté radicarsi ed estendere la sua fitta rete di solidarietà. L’OLP si assunse la diretta responsabilità di fornire i servizi di base ai profughi, con l’obiettivo di renderli autonomi, affrancandoli in parte dall’assistenza dell’UNRWA. È in questa atmosfera che ha origine la dimensione tipicamente politica delle organizzazioni palestinesi che forniscono assistenza alla comunità profuga (Brynen; 1990: 219): si tratta di una dimensione politica volta a
rafforzare, approfondire e solidificare l’identificazione del popolo palestinese con una nazione palestinese nel suo complesso e con i risultati ottenuti dal movimento nazionalista palestinese (Khalidi, 1986: 28).
Il progressivo ritiro dal Libano e l’indebolimento delle reti di rappresentanza politica palestinese, cominciati nel 1982 ed accentuatisi con l’abrogazione degli Accordi del Cairo nel 1987 e con la firma degli Accordi di Oslo nel 1993, comportarono un vuoto di potere nella leadership palestinese e lo smantellamento ufficiale della stragrande maggioranza delle organizzazioni assistenziali dell’OLP245. Cominciò così a prender forma una diversa e più informale distribuzione del potere, basata sull’emersione nei campi profughi di piccoli e medi gruppi di potere, che rispondessero alle richieste locali della comunità e agissero nei luoghi di discussione politica che andavano costituendosi. Alcuni di questi gruppi sono ciò che rimane di una decina di organizzazioni politiche ed altri sono ex-membri di Al-Fatah che ancora posseggono una certa influenza e sono supportati
242 Cfr. il paragrafo 2.1.2. 243 Colloquio del 18-08-2007. 244 Cfr. il paragrafo 2.1.2.
245 In generale, i campi profughi meridionali, fuori dalla portata del controllo siriano, sono ancora sotto l’influenza
diretta di Al-Fatah. In particolare, nel campo di Rashiddye risiede un noto leader di questo partito, Shafiq al-Hout, il quale, benché non possa uscire dal campo perché sulla sua testa pende una condanna della corte libanese, è ancora in grado di esercitare la sua influenza politica.
dalla gente (Peteet, 1997). Non tutte queste leadership semi-istituzionali trovarono nel terreno assistenziale la dimensione e la ‘copertura’ adeguate per riempire di fatto il vuoto di potere venutosi a creare dopo la frammentazione e l’eclissamento dell’OLP; alcune infatti, continuando a portare il nome delle più importanti fazioni palestinesi, restano delle organizzazioni politiche vere e proprie, con rappresentati, sedi ufficiali nei campi e ‘guardiani’, muniti di mitra, che ne presidiano gli uffici. Molte altre, invece, con l’intento di proseguire le attività assistenziali istituite dall’OLP, risorsero dalle loro ceneri e di queste mantennero la filiazione o il legame politico con le diverse fazioni palestinesi cui erano originariamente legate, ma sotto le vesti di organizzazioni umanitarie, centri culturali o club giovanili, alcuni dei quali col tempo trovarono il modo di regolarizzarsi con l’autorità libanese. Ora, quei gruppi di potere residuali dell’OLP che scelsero di imboccare la strada dell’umanitarismo – anziché riorganizzarsi come formazioni politiche tout court – furono motivati da due principali ordini di ragioni: anzitutto formalizzare la propria presenza all’interno di una struttura assistenziale legalizzata tramite la legislatura libanese avrebbe consentito maggiori spazi di manovra e di collegamento fra i campi e con l’esterno del Libano, e soprattutto la possibilità di penetrare capillarmente la comunità profuga raggirando le limitazioni e le restrizioni che il governo di Beirut inasprì ulteriormente dopo gli Accordi di Oslo; in secondo luogo, il progressivo prosciugamento dei finanziamenti – dovuto in parte alla scelta dell’OLP di investire nei Territori Occupati, e in parte al considerevole restringimento dei canali economici che collegavano alcuni gruppi della sinistra palestinese con lo schieramento sovietico durante la Guerra Fredda – spinse ad optare per la formula amministrativa della Ong, la quale avrebbe facilmente intercettato i flussi finanziari dell’assistenzialismo internazionale. Fin dagli anni Ottanta, infatti, un
processo di istituzionalizzazione (delle Ong, nda) emerse, dopo che le organizzazioni si erano divise in base alle fazioni di appartenenza e i fondi per le attività avevano cominciato ad essere disponibili. (…) l’OLP procurava fondi alle organizzazioni attraverso le loro fazioni alleate; allo stesso tempo, un certo numero di organizzazioni cominciò a prendere contatti con le Ong donatrici europee. (…) Altre organizzazioni di sinistra (…) cominciarono ad integrare le loro casse di partito con i soldi del donatore (Hammami, 2000: 16).
Senza l’intenzione di accomunare tutte le organizzazioni assistenziali palestinesi entro una tale dinamica – come si noterà infatti vi sono parecchie eccezioni –, è importante evidenziare il cambio di direzione dei flussi finanziari che è andato via via emergendo nel corso degli anni Ottanta: mentre prima era la leadership palestinese dell’OLP a finanziare le organizzazioni umanitarie locali, in seguito – ma ciò è oggi ancora più vero – iniziarono ad essere queste ultime a costituire parzialmente le risorse economiche dei partiti politici, grazie al trasferimento di parte dei fondi dei donatori direttamente alle loro casse locali. É importante, tuttavia, chiarire fin da ora che la sopravvivenza economica dei gruppi di potere che si nascondono dietro molte Ong palestinesi non è però biecamente volta soltanto ad ingrassare le casse dei partiti politici, ma è funzionale anche al proseguimento di quelle attività assistenziali in grado di alleviare le difficili condizioni di vita della comunità profuga. Le Ong locali, infatti ‘riescono a coprire i bisogni vitali della popolazione dei campi, e (…) hanno a che fare con un vasto raggio di problemi umanitari, dalla salute alla povertà estrema, dalle debolezze del sistema educativo alla disoccupazione’ (Peteet, 1997: 5).
Poiché al ruolo finanziatore dei vari partiti politici è di fatto subentrato quello degli attori della cooperazione internazionale, pare appropriato esplicitare questo passaggio – il quale non si limita però a descrivere una mera sostituzione di committenti – attraverso la formula di ‘reversibilità fra politico e umanitario’. Con ciò si vuole designare l’appropriazione, del tutto o parzialmente, da parte dell’apparato umanitario dei campi di pertinenza della sfera politica, e viceversa. Nel caso delle Ong palestinesi in Libano, la configurazione umanitaria del potere non si è semplicemente sostituita a quella politica, ma, specificamente, laddove la dimensione politica sia andata ritirandosi,
lasciando dei vuoti di potere e di gestione, ma anche di linguaggio e di significato, là ha trovato spazio la rete umanitaria. Essa ha così potuto riempire i vuoti semantici della catena politica, senza smantellarne la struttura (gerarchie, relazioni fra persone, campi d’azione), ma, al contrario, appoggiandosi ad essa e ricostituendone le maglie rotte. Si tratta, in altre parole, di una sorta di risemantizzazione umanitaria di specifiche ‘catene umane’ un tempo atte alla rappresentazione e alla gestione politica della comunità profuga. Tali ‘catene’, come qui sono state definite, riguardano le frange della leadership politica che hanno messo radici ‘in basso’, sul terreno, fra la gente, ovverosia specifici individui che, grazie a relazioni, conoscenze e frequentazioni del territorio, dei linguaggi e dei modi appartenenti al proprio ‘bacino’ culturale, sono in grado di offrire queste competenze al nuovo committente umanitario. Così intesa, la ‘reversibilità fra politico e umanitario’ descrive bene il quadro della cooperazione locale fra i profughi palestinesi in Libano.
Abu Mohammad del campo profughi di Mar Elias, che si è già più volte incontrato nel corso di questa indagine, non esita a definire le logiche partitiche delle organizzazioni assistenziali palestinesi come un modo ‘di continuare la politica con altri mezzi’246: ‘la mia impressione è che spesso le Ong palestinesi siano progetti personali di ex-leader dell’OLP. Da quando l’OLP ha cominciato ad indebolirsi, qui in Libano dal 1982, i suoi leader si sono ‘riciclati’ nella cooperazione, fondando Ong di vario tipo: è un modo di continuare la politica con altri mezzi’247. Tornando al caso delle organizzazioni non-governative palestinesi in Libano, questa dinamica di ‘reversibilità fra politico e umanitario’ si riflette inevitabilmente – come si osserverà meglio nel paragrafo successivo – anche nella tipologia di alcuni progetti assistenziali, nelle modalità di relazione fra Ong e profughi beneficiari, nonché nel linguaggio utilizzato dalle stesse organizzazioni per costruire l’oggetto della propria assistenza248.
Avendo, dunque, riempito il vuoto di potere lasciato dalla presenza ufficiale dell’OLP, molte Ong palestinesi oggi attive nei campi profughi del Libano agiscono come dei veri soggetti politici e – prendendo a prestito un’espressione di David Turton (2002: 44) – come ‘agenti non-statali del cambiamento sociale’. Come Suleiman ha sottolineato, la caratteristica cruciale delle organizzazioni non-governative locali si compone di ‘una continua tensione fra il loro duplice ruolo come fornitori di programmi assistenziali sociali e come attori nell’arena politica’ (1997: 409). Emblematico, a riguardo, fu visitare la sede della Ong Ajial e l’ufficio del suo presidente Salah Salah. Ajial è ubicata in un appartamento all’ultimo piano di una palazzone ancora crivellato dei colpi della guerra civile, nelle vicinanze di Cola. Fondata non ufficialmente nel 1989, ma ricevuta la licenza ufficiale dal governo libanese nel 1999, questa organizzazione è notoriamente legata al PFLP, di cui porta affissi sui muri la sigla e i vari poster di propaganda. Salah Salah è un fiero signore sulla sessantina, con la giacca e gli occhiali spessi, oltre che essere uno dei più carismatici ex-leader politici oggi presenti sulla scena non-governativa palestinese in Libano (Peteet, 1997: 5-6). Qualche anno fa egli e il suo staff hanno stilato un prezioso documento sulla storia e sulla attuale presenza di Ong locali e straniere in relazione ai bisogni dei profughi del Libano, cui si è attinto anche per questo studio249. Questa attitudine alla riflessione circa il proprio ruolo è alquanto insolita nella panoramica delle organizzazioni umanitarie, non solo palestinesi. Essendo tale profilo centrale per gli obiettivi di questa ricerca, l’incontro con Salah Salah si è rivelato fecondo e analitico, sia per ciò che concerne la tipologia di rapporti fra Ong palestinesi e sia per le relazioni che queste intrattengono con le organizzazioni straniere finanziatrici. Salah Salah introduce la sua visione delle Ong locali proprio a partire dallo studio da lui condotto e che si è appena ricordato:
246 Probabilmente il proseguimento della politica con mezzi umanitari trova interessanti consonanze (ad esempio circa
l’occultamento umanitario di crisi politiche, oppure l’autolegittimazione politica tramite strumenti propri dell’azione umanitaria) con alcune analisi di ‘guerre umanitarie’, ‘emergenze umanitarie’ e, più in generale, del ‘fondamentalismo umanitario’ che caratterizza gli ultimi decenni di storia politica globale, condotte da politologi (Ignatieff, 2003; Rieff, 2003), filosofi (Agamben, 1996; 2003), antropologi (Pandolfi, 2003; 2005) e studiosi di diritto (Zolo, 2000; 2001).
247 Colloquio del 12-06-2007.