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Alcune brevi riflessioni sull’allestimento del padiglione israeliano del

Il padiglione israeliano alla 54ma Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Venezia del

3.6. Alcune brevi riflessioni sull’allestimento del padiglione israeliano del

Al termine del percorso proposto, l’attenzione si rivolge in particolare ai numerosi temi affrontati: dalla riflessione sul passato e la transitorietà delle cose; alla condanna invece del presente; fino alla particolare sensibilità e veggenza con cui viene trattato il futuro; nonché l’importanza della lingua, custode della patria. Più legati ad una riflessione ideologica sono invece argomenti quali la critica alle discordie infinte e all’asservimento dell’uomo alla logica della guerra; la critica agli uomini del potere, di bassa morale; la consapevolezza dell’esigenza di agire con forza sul presente contro la finzione che pervade il mondo contemporaneo, nel quale lo stato costante di sopravvivenza diventa una falsa vita.

Come si può intuire dalla sola presentazione dei temi principali One Man’s Floor is

another Man’s Feeling diventa un’istallazione molto densa, concettualmente

impegnativa.

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Il padiglione diventa innanzitutto un dispositivo di comunicazione già a partire dalla sua stessa architettura, che si costituisce non solo di materiale da costruzione, ma anche di emozioni e sensazioni. L’artista riprende proprio questo luogo ridotto, con poche aperture, il quale sembra dedito a preservare le opere d’arte esposte, a meglio controllarne le condizioni di visibilità, ma anche ad aumentarne l’aura e a portare al limite il loro carattere figurativo.

La Landau entra in dialogo con l’architettura originaria e le idee che essa veicola, sia per quanto concerne lo stile modernista, sia per quel che riguarda la situazione geopolitica di Israele. Questo spazio esagerato come luogo di esposizione è proposto dall’artista per ciò che è: un’infrastruttura connessa con l’urbanistica, che fa parte di uno spazio di vita comune. Ma ella vi elimina la funzione primaria di accoglienza, trasformando il luogo in un semplice passaggio; tutto per mettere in primo piano il fatto che in realtà si entra in uno spazio originariamente poco ospitale, una caverna preistorica. Inoltre l’artista scopre uno spazio vacante all’interno del padiglione, che viene aperto, facilitando la comunicazione dell’edificio chiuso nel suo blocco con il mondo esterno. Introduce quindi nella struttura un senso nuovo e allusivo di fluidità e di sensibilità verso l’apertura e la condivisione.

La Landau si indirizza direttamente ai sensi dello spettatore, che diventano qui preponderanti, su un territorio che lei investe di tutta la sua presenza di donna e di artista israeliana d’oggi. Gioca con i sensi perché amplificano ciò che è espresso e si deve comprendere attraverso il “dispositivo-padiglione”. I sensi acuiti apportano un aumento di emozioni veicolate anche da questa semplice architettura monolitica e razionale.

L’artista cerca anche di combattere e abbattere il muro di silenzio che circonda il padiglione. Esso diventa infatti “parlante”: invaso dal passaggio dell’acqua tra i tubi e dal rumore della pompa. L’acqua è in movimento continuo, fluida, senza ristagno (problema invece questo della città di Venezia, dove l’acqua è chiusa artificialmente; un problema che probabilmente Sigalit Landau vuole mettere in risalto). Questo è un concetto fondamentale per l’artista: senza la fluidità si crea stagnazione e quindi un luogo malsano, mentre la fluidità e lo scorrere dell’acqua permettono la vita.

L’acqua dei tubi è di nuovo presente nel video proiettato al piano superiore. L’immagine del disgelo si imprime nell’immaginario dell’osservatore diventando un

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appello al cambiamento, a un salto dalla storia del passato e del presente verso il futuro. Questa riflessione sul cambiamento prosegue nel visitatore quando giunge al livello seguente del padiglione e si ritrova ad osservare la riunione riguardante il progetto del ponte salato, complesso dal punto di vista della realizzazione tecnica, ma soprattutto geo-strategico e politico. Riflette inoltre la complessità e le difficoltà inerenti le discussioni che hanno luogo attualmente circa lo stato del Mar Morto in termini ecologici.

Il linguaggio amministrativo che si ascolta dagli altoparlanti oscilla tra le posizioni positive di alcuni e le recalcitranti di altri. Il legame suggerito per il gesto della bambina attraverso il suo gioco infantile, ossia il legare i lacci delle scarpe tra loro, è propositivo al futuro e all’unione tra popolazioni. Lo scopo è quello di far comprendere che noi tutti siamo “allacciati” e che non c’è futuro possibile senza questi legami.

Filmare quello che accade sotto la tavola ha l’obbiettivo di mostrare il contrario di ciò che sono le discussioni ufficiali, il passaggio attraverso processi che generalmente non sono regolati da norme, ma sono spontanei e non strutturati. È proprio questo che può creare la differenza: il voler “fare insieme” e lo scambio simbolico di idee, al fine di poter gioire di un futuro migliore da condividere.

L’uscita infine conduce alla terrazza aperta. Lo spettatore, trasformato in un passeggiatore da quando ha messo piede nel padiglione, si ritrova con altri come lui, davanti al cerchio di scarpe in bronzo. Esse parlano di territorio e ne rappresentano l’appropriazione. Rinviano poi al bene comune di tutti gli uomini, in quanto rappresentano un elemento necessario della vita quotidiana.

Il passeggiatore si riconosce, lui che porta oggi e porterà domani calzature simili, nella figura dell’artista che ha attraversato il medesimo spazio. Tutto gravita intorno allo stesso territorio e allo stesso spazio comune.

In questo senso il padiglione di Israele rivisitato da Sigalit Landau, specialmente nel contesto internazionale del 2011, si posiziona come un simbolo di storia passata, contemporanea e futura da condividere e ricostruire insieme.

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CAPITOLO 4