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Il padiglione israeliano alla 54ma Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Venezia del

3.2. L’architettura del padiglione

Il padiglione israeliano a Venezia rappresenta molto di più uno spazio di pura ricezione per i visitatori, apparentemente molto lontano dai canoni in genere riconosciuti ad un luogo adatto alla visione di opere d’arte.

Gli artisti di Israele partecipano per la prima volta alla Biennale nel 1948. Ma già nel 1946, malgrado l’opposizione delle Gran Bretagna che agiva ancora abilitata dal Mandato di Governo, una richiesta di partecipazione da parte di Israele viene inviata al direttore dell’esposizione veneziana.

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Dunque l’invito per l’anno successivo, il 1947, viene spedito, ma giunto a destinazione in ritardo, non permette l’organizzazione in tempo della trasferta degli artisti. In questo stesso periodo iniziano oltretutto una serie di discussioni per la costruzione di un edificio definitivo che riuscisse a rappresentare efficacemente Israele all’interno dei Giardini.

La pianificazione architettonica del padiglione viene affidata all’architetto israeliano Zeev Rechter (1899-1960), alla fine del 1951. Altri due architetti lavorano con lui al progetto: il figlio Yakoov Rechter e David Reznick - entrambi di lì a poco concorreranno al premio israeliano per l’architettura. La costruzione dell’edificio termina nel 1955.

Rechter, direttore del progetto è annoverato tra i fondatori del modernismo israeliano132. Inizia gli studi professionali in Ucraina prima di immigrare in Israele, continua poi la sua formazione in Europa, a Roma verso la fine degli anni ‘20 e a Parigi all’inizio degli anni ‘30 del Novecento; ma è in Israele che fonda infine il proprio studio.

Per il suo lavoro al padiglione veneziano, che deve rappresentare l’immagine di Israele al mondo intero, egli esporta in Europa il linguaggio tipico del modernismo locale israeliano, di cui egli stesso è uno dei portavoce più attivi. Tra le varietà di stili architettonici caratterizzanti i padiglioni dei Giardini, tra quelli neo-gotici e neo- classici, Rechter sceglie di concepire un padiglione diverso, in spirito Bauhaus e in stile internazionale, tendenze che caratterizzano l’architettura in Israele ancor prima della fondazione dello Stato133. I progetti del padiglione vengono trasmessi poi a un interprete locale che realizza il lavoro autonomamente, senza la supervisione dell’architetto. Rechter, deceduto nel 1960, non avrà mai l’opportunità di visitare la struttura da lui stesso ideata per Venezia.

Nel progetto del 1949, ritrovato presso l’archivio dello studio dell’architetto, figura anche la proposta di una struttura italiana per il padiglione israeliano, prevista dall’autorità veneziana. Vi si leggono le indicazioni per il posizionamento

132 Con il termine Modernismo si definiscono un insieme di stili architettonici con caratteristiche

analoghe, i quali sorgono intorno agli inizi del Novecento. In questi anni, un numero consistente di architetti provenienti da tutto il mondo iniziano a sviluppare nuove soluzioni architettoniche per integrare tradizioni consolidate (come per esempio il romanico ed il gotico) fuse con le emergenti possibilità tecnologiche, andando alla ricerca di forme nuove anche ispirate alla natura.

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dell’edificio all’ombra del padiglione americano, a fianco del canale che attraversa i Giardini. Il luogo destinato è sicuramente propizio per quanto concerne l’esposizione, giusto davanti alla zona nuova, vicino al canale, dove giungono alla Biennale gli ospiti importanti. Si trovano poi i dettagli per quanto riguarda la forma del padiglione: una struttura divisa in due spazi di esposizione, separati da un’ampia entrata. Le due gallerie di dimensioni diverse, sono ideate come semplici scatole, con finestre panoramiche superiori per farvi entrare la luce. Secondo l’elaborazione più classica l’entrata della struttura è situata al centro ed è leggermente sopraelevata dall’ambiente circostante attraverso una scalinata. All’altra estremità si trova invece una scala più piccola che conduce al sentiero nel giardino.

In una lettera datata 1951, inviata dal Presidente della Biennale al Ministero dell’Educazione e della Cultura in Israele, viene scritto che l’architetto potrà pianificare il padiglione secondo i propri desideri, a condizione di non deviarne la linea e la forma previste, seguendo i canoni costruttivi alla lettera. Questi comportavano in più un nota sulla necessità di rispettare i fiori, le piante e gli alberi che si trovano nel luogo134.

Il padiglione israeliano definitivo (Fig. 79) viene concepito al contrario da Rechter in maniera completamente nuova, sottoforma di una villa a tre piani con una facciata larga e inaccessibile senza finestre, la quale sembra girare le spalle alla strada di accesso e agli altri padiglioni.

Fig. 79 - Il padiglione israeliano ai Giardini della Biennale, fotografia.

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Tutte le informazioni relative ai progetti del padiglione sono tratte da: Sack, Matanya, Espace– Mouvement–Lumière, le pavillon israélien à Venise, in De Loisy, Jean, Ilan, Wizgan, Sigalit Landau: One Man’s Floor is another Man’s Feeling, 54th International Art Exhibition, La Biennale di Venezia, Israeli Pavilion, p. 193.

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Sul retro vengono installati un’enorme finestra e un cortile accogliente, circondati e nascosti dagli alberi. La forma, la dislocazione nel contesto dei Giardini e la visione voluta e pianificata per il fruitore rimandano indubbiamente alla coscienza collettiva israeliana e alla situazione geopolitica dello stato di Israele: basti pensare alla vicinanza al padiglione americano e al mare, e ancora al padiglione egiziano posto proprio dall’altra parte del canale.

Se si sovrapponessero la pianta effettiva del padiglione di Rechter, con i limiti dell’edificio proposto inizialmente dagli italiani e mai realizzato, si scoprirebbe che l’architetto considera una linea di costruzione massima: eleva le linee limitrofe e le impone nella geometria del sito e nel movimento dei visitatori. La facciata a nord del padiglione si allinea quindi col sentiero principale che vi ci porta, formando il muro della strada e integrandosi alla libera composizione del giardino. L’entrata del padiglione è invece posta a nord-ovest135. Il padiglione israeliano risplende in tutto il suo color bianco modernista all’interno dei Giardini della Biennale contrastando con l’aspetto di tutti gli altri padiglioni vicini. Rechter prevede in questo caso, su una superficie triangolare (Fig. 80), una passeggiata architettonica su tre livelli, dove due scale stabiliscono un legame tra i piani e permettono di svolgere un itinerario circolare attraverso tutti gli spazi.

135 Ibid.

Fig. 80 - Zeev Recher, Disegno della pianta triangolare del padiglione israeliano per la Biennale di Venezia.

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L’architetto da rilievo in particolare a tre elementi nel padiglione: lo spazio, il movimento e la luce. I documenti sul processo di costruzione dimostrano la ricerca di un moto continuo verso l’alto e verso il basso. Rechter vuole creare più livelli su una superficie ridotta che ha dei limiti sia in larghezza che in altezza: l’altezza del padiglione è infatti allineata a quella del vicino padiglione americano. Mentre nella maggior parte degli altri padiglioni vi è un solo piano, Rechter costruisce qui due livelli interni, ai quali si aggiunge negli anni ‘60 il livello intermedio installato con lo stesso sistema di circolazione e movimento. Un possibile spunto giunge probabilmente dal padiglione di arte contemporanea Helena Rubinstein a Tel Aviv, sempre disegnato da Rechter nell’anno 1950, in cooperazione con Dov Carmi e Yaakov Rechter. Anche qui l’architetto lavora con piani a mezza altezza, “sospesi” su una scala, al fine di creare più livelli: si realizza in questo modo uno spazio particolare nel quale le prospettive sono lunghe e profonde e comprendono più piani allo stesso tempo.

L’artista Sigalit Landau ha sicuramente tenuto conto di tutti questi fattori architettonici per concepire il suo allestimento One Man’s Floor is another Man’s

Feeling, ricordando inoltre bene anche lo spazio del padiglione Helena Rubinstein,

nel quale aveva presentato la sua grande esposizione personale intitolata The Endless

Solution (2005)136.

Nell’esposizione alla Biennale di Venezia, la Landau si riferisce al padiglione come a un sito e non come a uno spazio dedicato all’esposizione delle sue opere. Desidera cambiare il padiglione nazionale; creare una storia più complessa di quella che consiste nel disporre le superfici murali per esporvi le opere. Ad un certo stadio dei lavori preparatori pare voglia anche inserire un livello inferiore supplementare nel padiglione, un’iniziativa questa però subito fermata dal dipartimento del patrimonio artistico, che rifiuta categoricamente di modificare la struttura originaria dell’edificio.

L’artista ha studiato la proposta italiana mai realizzata per il padiglione ed è rimasta colpita soprattutto dalla possibilità di dividere in due o più gallerie il luogo d’esposizione, per creare una doppia narrazione e consentire la presentazione di due opzioni/visioni opposte; in secondo luogo è stata colpita dall’equilibrio imperfetto

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derivante dall’assenza di simmetria tra i due corridoi proposti. Essa dunque “rompe” e travalica i limiti intrinseci dell’uso di uno spazio da esposizione, e in questo contesto lo manipola in maniera diversa da quella che l’architetto Rechter aveva previsto. Agisce quindi direttamente sul sito e crea ambienti nuovi e complessi137. Nel padiglione di Venezia la Landau si adattata al sistema del movimento dettato dall’esperienza dello spazio, ma in questo caso lo cambia da un punto di vista ieratico e pratico. Ossia costruisce un itinerario diverso che, dal livello inferiore, sale lungo le scale e collima verso il livello superiore, per riscendere di nuovo verso il livello intermedio; e da là attraverso la scala adiacente, dalla quale i visitatori escono nel giardino esterno. L’itinerario non è più dunque circolare, ossia i visitatori non escono dallo stesso punto da dove sono entrati, ma diventa un percorso rettilineo. L’artista non invita a visitare il padiglione, ma semplicemente a transitarci138

.

Anche la facciata originale, con l’entrata in vetro infossata nella profondità dello spazio, viene modificata. Durante i rinnovi dell’edificio le porte in vetro sono state infatti portate in avanti per volere di Sigalit Landau, fino a circa un metro rispetto la linea della facciata. Questa stessa azione ha ingrandito lo spazio e ha modificato il limite originale dell’edificio. Ciò è particolarmente evidente quando ci si trova all’interno della stanza e si guarda verso l’esterno. L’artista manipola esattamente questo spazio dall’interno verso l’esterno ingrandendolo ma anche oscurandolo. Le pareti in vetro sono infatti ricoperte. Viene a crearsi una sorta di ombra d’entrata, che conduce dall’esterno illuminato all’interno oscuro. Il vasto muro-finestra, la principale fonte di luce per il padiglione che nel progetto originale rappresenta il solo legame con il giardino esterno e con la vegetazione situata dietro l’edificio, viene quindi annullato139. L’oscuramento del padiglione rende le distanze più fluide e permette di dimenticare le dimensioni limitate dell’edificio, aiuta inoltre il visitatore a concentrarsi meglio su quello che l’artista intende mostrare.

137Sack, Matanya, op. cit., p. 194. 138 Ibid.

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