Le tematiche ricorrenti nella produzione artistica trattata
5.3. La questione del luogo
Fra i temi indagati con particolare attenzione da Sigalit Landau e da Emily Jacir, i concetti di luogo e di localismo sembrano apparire come substrato cruciale di molte
211 Si vedano le pp. 156, 157 del quarto capitolo di questa tesi. 212 Schwarz, Arturo, op. cit., pp. 27–41.
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ricerche, e la loro produzione – in linea con le tendenze contemporanee213 - diviene mezzo per affrontare la questione del luogo in tutte le sue sfaccettature.
Il luogo fisico, geografico, politico, ma anche quello mentale, costituiscono uno dei fili conduttori della loro attività artistica, con l’ambizione di offrire un insieme di sguardi schietti e sinceri su un territorio reale, dei desideri, o di aspirazione.
Dunque la questione del luogo e la sua complessità, o meglio quell’impulso - innanzitutto personale - volto a capire lo spazio circostante, o ad individuare quel luogo/non-luogo delle proprie esperienze continua a suscitare nella Jacir e nella Landau molto interesse. Il loro scopo è quello di far luce su una problematica che apparentemente è irrisolvibile: la definizione di uno spazio ideale e comune, da condividere in pace, per il popolo israeliano e quello palestinese – migliore testimonianza in questo senso risulta essere l’installazione Temple Mount (1995) della Landau214, una riproduzione in scala del territorio palestinese e israeliano comune, dalla quale sono stati eliminati tutti i pretesti per il conflitto.
L’idea di luogo viene variamente declinata nella produzione presa in esame: può trattarsi di uno spazio fisico, quindi un paese, un lembo di terra, un confine; oppure può anche essere legato al concetto di tempo e al ciclo della quotidianità, scanditi da precisi ritmi sempre uguali. Non a caso entrambe le artiste ripropongono in immagini fotografiche case, cucine e salotti tipici della terra natia, ma ricorrono appunto anche a trasposizioni ben più complesse del concetto, a dimostrazione dunque dell’impossibilità di definire univocamente il concetto di “luogo”. Effettivamente la maggior parte delle opere d’arte realizzate riflette e dichiara l’inesistenza di un luogo specifico ed unico, quanto piuttosto la presenza di più luoghi personali e consapevoli della loro essenza mitica, culturale, reale o storica.
Al fine di poter capire meglio forse le origini delle molteplici declinazioni di “luogo” e l’importanza che il concetto assume nella produzione di Sigalit Landau, ci si potrebbe affidare alla complessità dell’approccio ebraico alla questione. Dalla Bibbia, con il libro della Genesi, ai comandamenti e poi l’intera storia del popolo ebraico è marcata dall’attesa e dalla ricerca di una terra, la Terra Promessa, luogo che diventerà il rifugio ambito, vissuto come un diritto, ma anche come un obbligo. Ne derivano le immagini di un luogo geografico e politico considerato come l’unico
213 AA. VV. (2010), op. cit., pp. 301–311.
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possibile, con tutta la carica emotiva che ciò comporta. Nelle opere di Sigalit Landau molti sono i richiami al territorio reale sia israeliano che palestinese, Resident Alien I e II (1996-1998)215 per citare uno tra gli esempi maggiormente significativi. In questo caso il territorio della Giudea racchiuso in un limite fisico che è quello del container, si affaccia direttamente, attraverso vie di comunicazione diretta, sul territorio arabo.
Un altro esempio di luogo reale che trova spesso rappresentazione è il confine, che i singoli individui e l’intera comunità cercano di scavalcare, superare. Si tratta di un luogo che si connette direttamente al concetto di Nazione, nazionalità e collettività, con la celebrazione della propria patria, fino però ad assumere una posizione contraddittoria. Il confine è infatti anche il luogo della memoria del sacrificio nel contesto nazionalistico, una dichiarazione del conflitto bellico e la causa principale della perdita di vite umane. Ma entrambe le artiste criticano la presenza forte e marcata di confini arbitrari, fondati su violenze e soprusi, e dichiarano la necessità di un loro sconvolgimento, al fine di migliorare la condizione locale tanto palestinese quanto israeliana. Video quali Azkelon (2011) o Dacing for Maya (2011)216 di Sigalit Landau tracciano proprio delle linee di confine sulla sabbia, cancellate irrimediabilmente dalla forza delle onde del mare. Anche Emily Jacir critica in maniera similare il confine reale che è il muro israeliano il quale circonda i Territori Occupati. Lo si percepisce in particolare nel suo progetto fotografico del 2006
Percorrendo con l’Autobus Numero 23 la Strada Storica Gerusalemme–Hebron217
. O ancor meglio nel suo video Crossing Surda (2002)218 che mostra la vera difficoltà di vivere su un confine e di doverlo attraversare per esigenze quotidiane, o per lavoro.
Le città rimaste in piedi e le baracche attaccate le une alle altre con strette stradine a separarle, i campi profughi nella Palestina occupata e nei vicini stati arabi, in Libano, in Siria e in Giordania, sono altri luoghi evocati. I palestinesi hanno assegnato a questi campi i nomi dei villaggi dai quali sono stati espulsi: hanno perso i terreni, le loro case, ma posseggono ancora la memoria dei nomi, dell’identità,
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Si vedano le pp. 73, 74 del secondo capitolo di questa tesi.
216 Si vedano le pp. 100, 111 del secondo capitolo di questa tesi. 217 Si vedano le pp. 145-150 del quarto capitolo di questa tesi. 218 Si vedano le pp. 156, 157 del quarto capitolo di questa tesi.
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dell’immaginario. È da più di mezzo secolo infatti che essi vivono all’interno dei luoghi perduti della loro memoria e che li rappresentano, come se fossero diventati uno spazio onirico, una sostituzione immaginaria. Un popolo che protegge i suoi nomi, discriminato e esiliato, è riuscito a fare della sua privazione uno spazio immaginario, che equivale alla vita e al sogno di rinascita219. Sembra proprio lo stesso percorso vissuto dagli ebrei della diaspora durante il secolo precedente. In
Memoriale di 418 Villaggi Palestinesi che Sono Stati Distrutti, Spopolati ed Occupati da Israele nel 1948 (2001)220 Emily Jacir ricama i nomi dei villaggi perduti e li evoca in rapporto alla tenda, simbolo di rifugio.
Altri luoghi spesso descritti, che assumono ancora una volta il grado di luoghi della memoria, sono poi quelli che hanno ospitato gli scontri del conflitto arabo-israeliano. Si tratta ad esempio di luoghi in cui si ritrovano tutt’ora sparpagliate le carcasse dei veicoli e dei convogli militari utilizzati, abbandonati lì, quasi esibiti come documenti, per far rivivere nell’osservatore il senso del sacrificio, o per glorificare la memoria del passato. Basti pensare alle carcasse di Sigalit Landau in The Dining Hall (2007) o in The Endless Solution (2005)221. Si tratta di testimonianze di quello che è stato un sacrificio di sangue, che ha determinato un legame profondo tra gli uomini e la loro terra. Gli scenari presentati non sono né naturali né autentici, ma diventano una sorta di monumenti artificiali e iconici.
Le società moderne israeliana e palestinese sono molto interessate ai luoghi che le rappresentano e in cui permane la memoria, perché indispensabili a costruire un senso di continuità ed appartenenza alla storia. Questi luoghi non sostituiscono i fatti reali accaduti, ma servono a rievocarli. La memoria infatti non è spontanea, necessita di punti di riferimento fisici e reali per riaffiorare, cioè concettualizza gli elementi e gli oggetti privi di linguaggio per ricostruire il passato, conservandone i valori222. Le opere di Sigalit Landau e di Emily Jacir servono anche ad assolvere a questo cruciale compito.
219 Hilal, Sandi, Petti, Alessandro (2003), Senza stato, una nazione. Un’opera, un luogo, un libro di
Sandi Hilal e Alessandro Petti per la Biennale di Venezia, 50ma Esposizione Internazionale d’Arte, Sogni e conflitti. Venezia: Marsilio Editori, pp. 13, 14.
220 Si vedano le pp. 160-162 del quarto capitolo di questa tesi. 221 Si vedano le pp. 63-67 del secondo capitolo di questa tesi. 222 Cats, Ruth, op. cit., pp. 188–191.
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