La mediazione come strumento
2. Alcune parole della mediazione comunitaria
Si sente in giro – e non solo in occidente – una rinnovata ricerca di giustizia, cosa che ovviamente prende forma cercando la pro-pria legittimazione soprattutto nell’ambito del politico11ma non solo; in ogni forma di relazione la palese mancanza di giustizia sembra cercare nuove autorevolezze (e non autorità) in grado di orientare i nostri comportamenti. E per giustizia intendiamo un modo di stare al mondo, un particolare sguardo sulle cose, uno sforzo, una consapevolezza del proprio essere-insieme. Borges scrisse una toccante lirica (I giusti): «Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. / Chi è contento che sulla terra esista la musica. / Chi scopre con piacere una etimologia. / Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
/ Il ceramista che intuisce un colore e una forma. / Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace. / Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
/ Chi accarezza un animale addormentato. / Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. / Chi è contento che sulla
terra ci sia Stevenson. / Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
/ Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo».
La storia dei Giusti è nella tradizione ebraica (Talmud). Si rac-conta che in qualsiasi momento della storia dell’umanità ci siano sempre 36 Giusti al mondo. Nessuno sa chi siano, nemmeno loro stessi, ma sanno riconoscere le sofferenze e se ne fanno carico, per-ché sono nati Giusti e non possono ammettere l’ingiustizia. Ed è per amor loro che Dio non distrugge il mondo.
Ma quella della mediazione comunitaria è chiaramente un modo per inseguire una certa idea di giustizia che non può non sposarsi alla pratica della mitezza, che non è solo un modo di stare al mondo, ma un modo attraverso cui filtrare e ricostruire gli ac-cadimenti della vita. La giustizia anzi trova nella mitezza quel co-lore particolare caratteristico del fare mediazione.
Sulla mitezza Bobbio scrisse pagine memorabili: «al contrario di mansuetudine, la mitezza è virtù sociale più che individuale: è una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro:
il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male den-tro di sé. La mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opi-nione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione.
Il mite non ha grande opinione di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell’uomo, ed egli è un uomo come tutti gli altri […] Il mite non ostenta nulla, neanche la propria mitezza […]. Il mite è colui che lascia essere l’altro quello che è […]. Non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere. È completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità, e quindi anche della vittoria […]. Da non confondere con remissivo, che è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione. Il mite, no: rifiuta la distruttiva gara della vita per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara, per un senso profondo di distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più, per mancanza di quella
12N. Bobbio, Elogio della mitezza, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 34-43.
passione che, secondo Hobbes, era una delle ragioni della guerra di tutti contro tutti, la vanità o la vanagloria, che spinge gli uomini a voler primeggiare […] per una totale assenza della puntigliosità che perpetua le liti anche per un nonnulla, in una successione di ripicchi e ritorsioni […]. Non è né remissivo né cedevole, perché la cedevolezza è la disposizione di colui che ha accettato la logica della gara, la regola di un gioco a somma zero […]. Il mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio contro a chicches-sia. Non continua a rimuginare sulle offese ricevute, a rinfocolare gli odi, a riaprire le ferite. Per essere in pace con se stesso deve es-sere prima di tutto in pace con gli altri […]. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mante-nendo la propria misura, la propria compostezza, la propria di-sponibilità. […] Il mite è ilare perché è intimamente convinto che il mondo da lui vagheggiato sarà migliore di quello in cui è co-stretto a vivere, e lo prefigura nella sua azione quotidiana, eserci-tando appunto la virtù della mitezza […]. Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore […]. Il mite non chiede, non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una pre-disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrispo-sta per rivelarsi in tutta la sua portata»12.
Si può “insegnare” la mitezza o è soltanto una peculiarità ca-ratteriale che contraddistingue alcuni individui? Di sicuro la per-sona mite lascia il suo segno e imprime un esempio che qualcuno non scorderà. Quella sua «totale assenza della puntigliosità che perpetua le liti anche per un nonnulla, in una successione di ri-picchi e ritorsioni» non lascerà indifferenti e porterà nella contesa un clima di maggior distacco da quelle piccole cose da cui troppo spesso ci si fa stritolare e avvelenare la vita.
Ma – a sostegno del nostro modo di vedere – la definizione di
13S. Fiori su «la Repubblica», 27 giugno 2011.
14In Bobbio, op. cit., p. 11.
Bobbio della mitezza come la più «impolitica» delle virtù (diver-samente da come dovrebbe ritenere un operatore di mediazione comunitaria) viene invece ribaltata da Ginsborg che scrive: «es-sendo virtù sociale [la mitezza], vi rientra perfettamente [nel di-scorso pubblico, nella Politica]»13. E anche Giuliano Pontara (maggiore studioso italiano di Gandhi) ebbe a scrivere: «in quanto è mite, anche il nonviolento non entra in rapporti conflittuali con gli altri allo scopo di gareggiare, di distruggere, di vincere; non è vendicativo, non serba rancore, non ha astio contro nessuno, non odia nessuno; e non è assetato di potere. […] ma non ha timore di aprire un conflitto o di non portare a galla conflitti latenti, né ha timore della lotta. Ma, come rifiuta la violenza, così rifiuta quella logica del potere per cui di necessità ci deve sempre essere un vin-cente e un perdente; e imposta i conflitti in modo tale che la so-luzione non sia a somma zero, bensì una soso-luzione in cui tutte le parti ci guadagnano ed è quindi accettata da tutte […] smentisce, con il suo agire, la definizione della politica (politica nel senso più ampio) come il regno esclusivo della volpe e del leone [c.vo mio]»14. Anche chi fa mediazione comunitaria non può non credere alla forza “politica” della mitezza come elemento scardinante almeno di un certo tipo di conflittualità diffusa a basso voltaggio, anche soltanto con la sua pura ed esemplare presenza, contraddistinta da quella particolare qualità plastica che passa col nome di resi-lienza, cioè una certa elasticità nelle reazioni e nel ritornare allo stato iniziale assorbendo i colpi che viceversa lascerebbero am-maccature e segni indelebili.
In questa piccola rivincita dei “buoni” Massimo Gramellini dice: «Ci salveranno gli ingenui. A cambiare il mondo saranno gli ingenui che si rifiutano di credere che sia ridotto così male». Ma,
aldilà delle belle intenzioni e delle facili speranze di tutti noi ope-ratori di cambiamento, è da poco uscito in America il saggio di uno storico (Steven Pinker) che, dati alla mano, grazie alla possi-bilità investigativa di alcune tecniche in grado di capire la causa di mortalità attraverso i ritrovamenti ossei rinvenuti negli scavi, si può incontrovertibilmente sostenere che viviamo in una delle epo-che meno violente della storia. L’umanesimo prima e l’Illumini-smo dopo hanno portato lentamente ad una visione più ragionevole della convivenza umana. La nascita degli Stati – unici legittimi depositari dell’uso della forza – porta dal 15 al 3% la pos-sibilità di morire di morte violenta. Per quante cose possano suc-cedere, per quante spaventose possano essere spesso le notizie di cui veniamo quotidianamente a conoscenza, non possiamo non ri-tenerci più al riparo della violenza rispetto ai secoli precedenti. Il mito delle «magnifiche sorti e progressive» non può essere nem-meno caricaturizzato nel suo contrario15. E sempre più – pur nella palese non linearità del suo percorso – una certa forma di civiliz-zazione sembra destinata ad allargare all’umanità intera visioni del mondo tolleranti, comprensive e non escludenti. Le cose cam-biano: a volte ci sono colpi di coda, repentini salti indietro, ma tutto sommato gli uomini cercano di allargare il proprio senso di appartenenza a tutto il genere umano, non soltanto al prossimo suo vicino. Scrive Rifkin: «Secondo i ricercatori, la scoperta più importante è che “con la sicurezza individuale, cresce l’empatia”.
[…] La realtà è che in ogni cultura, dalla più povera alla più agiata, la pulsione all’affetto, alla compagnia e all’appartenenza è fonda-mentale. Ecco perché ogni società nella storia ha sviluppato com-plessi rituali per stabilire legami di fratellanza e ricorre
15Anche l’ultimo film di W. Allen (Midnight in Paris) racconta di come spesso non siamo in grado di apprezzare le bellezze del tempo che ci è toc-cato vivere per proiettare le nostre insoddisfazioni in un passato immagina-rio.
16J. Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010, p. 415.
17E. Bianchi, M. Cacciari, Ama il prossimo tuo, il Mulino, Bologna 2011.
all’ostracismo e all’esilio per punire i malfattori. L’empatia esiste in ogni cultura. La questione è fondamentalmente quanto estesa o ristretta essa sia. Nelle società di sopravvivenza, i legami empa-tici sono meno sviluppati, più avari, riservati ad una categoria più ristretta di relazioni. Nelle culture tradizionali, l’estensione em-patica è generalmente confinata alle relazioni fra genitori e figli, fra consanguinei e altri parenti stretti, alla famiglia estesa e ai gruppi di pari. I legami comunitari e la catena gerarchica lasciano poco spazio di manovra per un’estensione orizzontale dell’espressione empatica. Mentre le rivoluzioni del regime energetico-comunica-zionale creano strutture sociali sempre più complesse e allargano il dominio umano nello spazio e nel tempo, nuove cosmologie of-frono ampie griglie di riferimento per l’ampliamento dei legami empatici. La coscienza teologica permetteva all’individuo di iden-tificarsi con altri individui non consanguinei e anonimi e, attra-verso l’affiliazione religiosa, di includerli nell’abbraccio empatico.
Gli ebrei empatizzavano con gli altri ebrei, i cristiani con gli altri cristiani, i musulmani con gli altri musulmani, ecc. La coscienza ideologica ha esteso geograficamente i confini empatici agli Stati nazionali: gli americani empatizzano con gli altri americani, i te-deschi con gli altri tete-deschi, i giapponesi con gli altri giapponesi, ecc.»16.
E Barbara Spinelli – commentando una riflessione di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari17sulla parabola del Samaritano che si sente «squarciare le viscere e il cuore spaccare» alla vista del vian-dante ferito – scrive: «Le sue viscere si squarciano senza che del semi-morto sappia alcunché: è un consanguineo? un amico? un simile? No: è un uomo ferito. È la ferita che accomuna, che crea
18B. Spinelli, Ci serve compassione senza commozione, «la Repubblica», 8/12/2011.
19«Ogni forma di umanismo universale e astratto, ignorando la dimen-sione della situazione concreta, fallisce l’appuntamento con il divenire e con la vita, in nome di una realtà in ultima analisi inesistente». M. Benasayag, A.
Del Rey, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2008, p. 147. Cioè: una co-mune appartenenza filogenetica non è sufficiente a sorreggere un’etica con-divisa sul comune, sul simile.
20«In un classico studio condotto più di mezzo secolo fa, alcuni ricerca-tori hanno scoperto che dei ratti che avevano appreso a schiacciare una barra per ottenere del cibo, smettevano di farlo se il loro intervento era accompa-gnato dall’emissione di una scarica elettrica su un ratto vicino a loro visibile.
Successivi esperimenti con le scimmie rhesus hanno portato a risultati ana-loghi, con la sola differenza di una reazione emotiva più duratura e dalle con-seguenze più profonde: una scimmia ha smesso di premere la leva per cinque giorni, un’altra per dodici, dopo aver visto l’effetto che quel gesto aveva fatto sull’altra scimmia. Le scimmie erano disposte a morire di fame pur di non es-sere responsabili del dolore inflitto a un proprio simile». Rifkin, op. cit., p. 91.
il simile. Lo scuotimento di cui parla la parabola è radicalmente di-verso dalla commozione, che è breve, che resta nei recinti del-l’Io»18. Il Samaritano difatti prima di ripartire lascerà dei denari preoccupandosi che il ferito venga curato e nutrito: «La compas-sione non è esplocompas-sione effimera di sentimenti ma ha una testa che pensa il lungo periodo […]. Chi con-patisce considera proprio il patire: non perché glielo dica la Legge, la Torah. Il suo essere viene soverchiato dall’essere dell’altro».
Nel pezzo precedente si parlava di quella «ferita che acco-muna, che crea il simile» con “simile” scritto in corsivo dall’au-tore per sottolinearne l’importanza. Ma a mio avviso in corsivo potrebbe andare anche quel “crea” che sorregge l’oggetto. Il co-mune – il simile – non è sempre e per forza riconosciuto come tale (se fosse così semplice…19), ma va invece costruito, creato. Se per un verso ci viene spontanea una certa avversione a fare del male ai nostri simili20, è altrettanto vero che la costruzione di un “comune”
è sempre operazione complessa: «Per accedere a ciò che c’è di
co-21Benasayag, Del Rey, op. cit., p. 147.
mune in un conflitto è necessario costruirlo. Intervenendo nelle si-tuazioni, per le sisi-tuazioni, attraverso le situazioni che il conflitto fa emergere». Bisogna entrare nel conflitto, nelle situazioni, non esi-stono regole universali: «Immaginiamo che un amico inseguito da un assassino chiede rifugio in casa nostra, e che l’assassino si pre-senti alla nostra porta per chiedere se il suo uomo si nasconde da noi. Ebbene, secondo il filosofo tedesco avremmo il dovere di dire all’assassino “la verità”. La risposta di Kant è scioccante nella mi-sura in cui, suggerendoci di consegnare il nostro amico, se vo-gliamo chiamarlo ancora così, al suo carnefice, confonde la verità con l’informazione verificabile. Che cosa si debba intendere per
“verità” dipende infatti interamente dalla situazione in cui il di-lemma viene a porsi […]. In questo caso la verità sta tutta dal lato dell’impegno che ci lega a un uomo perseguitato, la cui sorte è unita alla nostra dal vincolo dell’amicizia. Il comune non esiste in astratto, al di fuori delle situazioni nelle quali ci troviamo impe-gnati. Il comune va costruito, ed è racchiuso sempre e soltanto nel conflitto che attraversiamo… La scelta kantiana di evitare di as-sumere il conflitto intrinseco alla situazione, facendo ricorso a un principio di verità totalmente desituato, è il segno di un vera e pro-pria debolezza esistenziale, il tentativo di riferirsi a una dimen-sione che ha la parvenza dell’universale al solo scopo di non doversi impegnare nella costruzione di uno spazio davvero co-mune. In ogni conflitto, infatti, la sfida è quella di comprendere lungo quale tendenza, quale biforcazione, quale asimmetria della situazione sarà possibile procedere in direzione del comune»21.
Insomma, bisogna costruirselo un mondo condiviso, non ce lo troviamo mica già pronto e a nostra disposizione; ma, più che nei valori o nelle morali, forse bisognerebbe provare a costruirselo svi-luppando quelle capacità – se non quelle attitudini – che ci
por-22L. Irigaray, Condividere il mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
Cito da: Demetrio, op. cit., p. 129. I corsivi sono miei.
tano a sentire, compatire (nel senso precedentemente descritto), risuonare; nella disponibilità – se non nella propensione – a farsi specchio, eco, compagnia; termine del quale ogni tanto è piace-vole ricordare l’etimo: cum panis, condivisione del pane. Questa costruzione e questo divenire li ritroviamo nelle parole di Iriga-ray: «La prossimità all’altro, o più esattamente con l’altro, si sco-pre nella possibilità di elaborare con lui, o lei, un mondo comune che non distrugga il mondo proprio a ciascuno. Questo mondo comune è sempre in divenire. […] Nei bordi della nostra soglia prepareremo l’incontro con l’altro: all’orizzonte di un mondo che ci consenta di uscirne e di accogliervi un ospite»22.
D’altro canto anche la neurobiologia ci dice quello che, per altre vie, si pensava ormai da tempo: l’uomo si è evoluto, anzi ha potuto staccarsi dal regno di pura natura, proprio perché animale fondamentalmente sociale e cooperativo, meno predisposto alla violenza e alla sopraffazione di quanto si pensava. Eros batte tha-natos, almeno come attitudini primordiali. La selezione naturale ha premiato i possessori di un gene (Avpr 1) che regola ormoni le-gati ai nostri comportamenti sociali (altruismo, cooperazione…).
È ormai assodato che l’uomo si è differenziato dagli altri primati per l’attitudine alla cooperazione, comportamento riscontrabile in qualsiasi cultura e che si osserva anche nei bambini in tenera età; la solidarietà di gruppo aiuta la sopravvivenza. Certo le cose sono molto più complesse, perché noi siamo fatti di logos, di sto-ria, di educazione, siamo soggetti assogettati alle istanze sociali che ci condizionano; il soggetto è un campo di battaglia dove si af-frontano e si consumano forze di diversa provenienza e con al-terne fortune. L’attitudine alla cooperazione si scontra con altre pulsioni e desideri e bisogni indotti. Per questo ci sembra di vivere
23«Per Gehlen il tratto fondamentale della società contemporanea non è la manipolazione della soggettività ad opera dell’apparato culturale del ca-pitalismo, ma al contrario l’affermarsi del “bisogno di far valere la propria personalità”, che è diventato “onnipresente con un’intensità e in pari tempo con un senso di insicurezza che non hanno precedenti nella storia”. Più che la scomparsa di un soggetto autonomo ad opera di un potente apparato cul-turale, Gehlen vede nella nostra società l’affermarsi di un nuovo soggettivi-smo, il generalizzarsi dell’“ambizione di essere qualcuno”. Ecco perché Gehlen afferma: «Lo slogan della personalità minacciata dalla cultura di massa, è esatto solo per metà [...] non si è mai avuta al mondo tanta sogget-tività finemente differenziata e ricca d’espressione come oggi». F. Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 66. È una riflessione che, par-tendo dal celeberrimo pezzo di Dostoevskij (La leggenda del Grande Inqui-sitore, nei Fratelli Karamazov), affronta in tonalità minore il problema del male e della libertà. Esiste una zona grigia tra la santità e la dannazione?
Come rendere più accessibile alla fragilità umana lo sforzo emanicipativo?
24A proposito di successo, riporto questa lirica di Ralph Waldo Emerson:
«Ridere spesso e di gusto / ottenere il rispetto di persone intelligenti e l’af-fetto dei bambini / prestare orecchio alle lodi di critici sinceri e sopportare i tradimenti di falsi amici / apprezzare la bellezza; scorgere negli altri gli aspetti positivi / lasciare il mondo un pochino migliore, si tratti di un bambino gua-rito, di un’aiuola o del riscatto di una condizione sociale / sapere che anche una sola esistenza è stata più lieta per il fatto che tu sei esistito. / Ecco, que-sto è avere successo». Ma il sentirsi (ed essere) unici non scatena soltanto competizione: «Il risveglio del senso di sé, innescato dal processo di diffe-renziazione, è cruciale per lo sviluppo e l’estensione dell’empatia. Più è svi-luppato e individualizzato il sé, più è grande la nostra percezione dell’unicità e caducità dell’esistenza, della nostra solitudine esistenziale e dell’infinità di
in una società malata: intossicate sono le nostre emozioni. E quando si ammalano le emozioni si ammalano anche le idee.
Siamo passati dalla società della disciplina («tu hai fatto que-sto…») alla società dell’efficienza («non sei stato in grado di…»)23 e del successo24che – insieme alla popolarità (e quindi alla rico-noscibilità) sembra essere il valore più ambito per i giovani di qual-siasi classe e condizione sociale; la continua ricerca di conferme
sfide che dobbiamo affrontare per esistere e prosperare» (Rifkin, op. cit., p.
25). Il problema è che sentire la propria pienezza non dovrebbe essere un
25). Il problema è che sentire la propria pienezza non dovrebbe essere un