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Le differenti tradizioni giuridiche

dispute resolution

2. Le differenti tradizioni giuridiche

Nel diritto penale, il conflitto contrappone in linea di principio tre soggetti: il reo/imputato, la vittima del reato e la comunità, ciascuno portatore di autonomi interessi. La giustizia riparativa si

propone di coinvolgere il reo, la vittima e la comunità nella ricerca di soluzioni del conflitto generato dal reato, allo scopo di pro-muovere la riparazione del danno, la riconciliazione delle parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo4. Ciò è conforme alla definizione contenuta nei Principi Base approvati nel 2002 dall’Economic and Social Council delle Nazioni Unite, secondo cui è giustizia riparativa qualunque procedimento nel quale la vit-tima e il reo e, se opportuno, ogni altro individuo o membro della comunità, leso da un reato, partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore5.

Peraltro, gli stessi Principi Base chiariscono che «restorative processes may include mediation, conciliation, conferencing and sentencing circles», attribuendo così rilevanza particolare agli stru-menti della mediazione e della conciliazione nella prospettiva del pieno reinserimento sociale dell’autore del fatto criminoso6.

Al di fuori dell’ambito penale, il conflitto può presentarsi in molteplici forme. Per quanto riguarda in particolare i rapporti ci-vilistici, il conflitto, nel suo schema più elementare, coinvolge una

4Cfr. C.E. Paliero, L’autunno del patriarca. Rinnovazione o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, 1227 ss., spec.

1230.

5Sul ruolo della vittima nella composizione del conflitto generato dal fatto di reato, v. V. Del Tufo, Vittima del reato, in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 996 ss.; ID., La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Dir.

pen. e proc., 1999, 889 ss.; U. Gatti, M.I. Marugo, Verso una maggiore tutela dei diritti delle vittime: la giustizia riparativa al vaglio della ricerca empirica, in Rass. it. criminologia, 1992, 487 ss.

6Restando in ambito comunitario, va segnalata la Decisione-quadro del Consiglio dell’Unione europea n. 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima del reato nel processo penale. In essa, la media-zione penale riceve una speciale consideramedia-zione in quanto strumento capace di consentire la ricerca, prima o durante il processo, di una composizione negoziata tra vittima e reo per il tramite dell’intervento di un terzo imparziale.

7Da ultimo, M. Bove, La conciliazione nel sistema dei mezzi di risoluzione delle controversie civili, in www.judicium.it, (2011), § 3.

coppia di soggetti, i quali corrispondono alle parti del rapporto giuridico in contestazione. Il conflitto, che lì si sostanzia tipica-mente in una controversia o in una lite, contrappone così un cre-ditore a un debitore, il titolare di un diritto all’autore della lesione e così via. Nella dottrina classica (Carnelutti), si tende a distin-guere liti da pretesa insoddisfatta e liti da pretesa contestata, ma è un fatto che – a condizione che i diritti in contesa abbiano natura disponibile – la soluzione del conflitto non deve necessariamente avere fonte giurisdizionale.

Lo sbocco giudiziario mette capo a una soluzione eteronoma del conflitto, nel senso che la regola del rapporto, che disciplinerà nel futuro i rapporti tra le parti, è imposta dall’esterno e ha il pro-prio fondamento nell’autorità del giudice. L’esperienza e il buon senso tuttavia insegnano che ogni soluzione eteronoma, se pure pone fine alla controversia dedotta in giudizio (e non è sempre detto che ciò avvenga: si pensi ai casi nei quali l’esecuzione della sentenza è impossibile o infruttuosa), provoca molto spesso una cesura irrimediabile nei rapporti tra le parti. In altri termini, la pronunzia giudiziale, pur ponendo una regola di condotta che avrà la sua collocazione nel futuro della relazione tra le parti, guarda esclusivamente al passato, ossia al conflitto così come questo è emerso processualmente; dallo sguardo del giudice, invece, resta fuori tutto quanto attiene al contesto e al complesso delle relazioni tra le parti e si disinteressa della possibilità che tra i contendenti si riannodino i fili del dialogo o, per lo meno, si pongano le basi per la prosecuzione della relazione.

Quel che si è testé detto, peraltro, vale non soltanto per la giu-stizia statale, ma anche per tutte le forme di risoluzione eteronoma delle controversie, le quali hanno la propria caratteristica nell’ag-giudicazione di ragioni e torti da parte di un terzo7. In particolare,

pure l’arbitrato – che, tra tutte le forme di ADR, rappresenta quella per molti versi più vicina alla giurisdizione – ha caratteri-stiche analoghe: infatti, benché il fenomeno arbitrale si fondi sul-l’autonomia negoziale delle parti8e benché gli arbitri godano in linea di principio della fiducia delle parti, il lodo racchiude una vera e propria decisione della lite da parte degli arbitri, tanto da essere in tutto equiparato alla sentenza dell’autorità giudiziaria (art. 824-bis c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 40/2006).

Tanto nella nostra tradizione, quanto nella cultura anglosas-sone, queste forme di tutela giurisdizionale, che portano alla com-posizione della controversia mediante l’intervento autoritativo di un terzo (il giudice o l’arbitro), sono qualificate come aggiudica-tive, con ciò alludendosi proprio al carattere eteronomo e non au-tonomo della soluzione normativa. Come ho accennato, in parallelo si sono venute affermando forme di composizione delle controversie che puntano in vario modo sull’autonomia negoziale delle parti non soltanto nel momento genetico della procedura, ma anche nella formazione della regola destinata a comporre il conflitto e a disciplinare per il futuro i rapporti tra le parti.

8Non a caso, la Corte costituzionale ha sempre ritenuto illegittime le norme che prevedano arbitrati obbligatori: v. Corte cost. 8 giugno 2005, n.

221, in Giur. it., 2006, 1452, con nota di I. Lombardini, Illegittimità dell’ar-bitrato obbligatorio in materia di opere pubbliche; Corte cost. 21 aprile 2000, n. 115, in Riv. arbitrato, 2000, 277, con nota di F. Auletta, Tra illegittimità co-stituzionale e non fondatezza della questione: una terza via per le leggi di ar-bitrato «obbligatorio»?; Corte cost. 9 maggio 1996, n. 152, in Nuova giur. civ., 1998, I, 3, con nota di G. Ferraris, La corte costituzionale si pronuncia in tema di arbitrato obbligatorio In argomento, v. ampiamente A. Briguglio, Gli arbitrati obbligatori e gli arbitrati da legge, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 81; D. Borghesi, La camera arbitrale per i lavori pubblici: dall’arbitrato obbli-gatorio all’arbitrato obbligatoriamente amministrato, in Corriere giur., 2001, 682; M. Giovannini, Corte costituzionale e arbitrato obbligatorio: un passo avanti nel solco della tradizione, in Dir. amm., 2001, 407

Si tratta, in verità, di un fenomeno la cui diffusione ha conosci-uto momenti più propizi e altri meno. Se si guarda a quel che è ac-caduto nell’ultimo secolo, non si può fare a meno di notare, da un punto di vista generale, che il rapporto tra giustizia e strumenti di risoluzione negoziata delle controversie è stato, per svariate ra-gioni, niente affatto semplice.

In primo luogo, esiste un problema culturale, comune entro certi limiti tanto alla giustizia civile quanto a quella penale. Si tratta del carattere intrinsecamente contenzioso e autoritativo della giu-risdizione. Nel settore penale, ciò è conseguenza diretta del tradi-zionale carattere retributivo-rieducativo della pena9. Quanto alla giustizia civile, la dottrina classica ha sempre insegnato che la giu-risdizione evoca per sua stessa natura il comando e che il comando non può che essere atto d’imperio. Si aggiunga che il codice di procedura civile del 1940 ha visto la luce in un contesto politico nel quale era massima l’esaltazione della giurisdizione come espressione dell’auctoritas dello Stato e del processo come luogo nel quale, attraverso il giudice, si attua la funzione sovrana del-l’ordinamento di garantire la legalità. Come ho osservato già in altra sede10, basti considerare che la conciliazione e l’arbitrato, che il previgente codice di rito del 1865 disciplinava all’inizio, negli artt. 1 e seguenti11, nel 1940 conobbero un profondo

ripensa-9Cfr. M. Menna, Mediazione penale e modelli processuali, in Dir. pen. e proc., 2006, 269 ss.

10G. Impagnatiello, La mediazione familiare fra Corte costituzionale e le-gislatore delegato, in questa Rivista, 2009, fasc. 14, 166 s.

11La notazione è di F. Cipriani, Il processo civile in Italia dal codice na-poleonico al 1942, in Riv. dir. civ., 1996, I, 67 ss., § 4 (il saggio si legge anche in Id., Ideologie e modelli del processo civile, Napoli, 1997, 3 ss., spec. 9), il quale osserva che quella scelta del codice stava «quasi ad avvertire che il pro-cesso davanti al giudice era l’extrema ratio e che l’ordinamento preferiva, in linea di principio, che le controversie civili fossero risolte dalle parti, da sole o attraverso persone di loro fiducia».

12Così, rimarcando il mutamento di prospettiva compiuto dal «nuovo legislatore», S. Satta, Dalla conciliazione alla giurisdizione, in Riv. dir. proc.

civ., 1939, I, 201.

13Su questi profili, e più in generale sulla c.d. concezione pubblicistica del processo, v. gli studi di F. Cipriani raccolti nei volumi Ideologie e modelli nel processo civile, cit., e Il processo civile nello Stato democratico, Napoli, 2006 (e ivi, in particolare, il saggio che dà il titolo al libro, 5 ss., e I problemi del processo di cognizione tra passato e presente, 27 ss., spec. 35 ss.).

14Cfr. V. Denti, I procedimenti non giudiziali di conciliazione come istitu-zioni alternative, in Id., Un progetto per la giustizia civile, Bologna, 1982, 317 ss.; L.P. Comoglio, Mezzi alternativi di tutela e garanzie costituzionali, in Riv.

dir. proc., 2000, 318 ss.; R. Caponi, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR (“Alternative Dispute Resolution”), in Foro it., 2003, V, 165 ss. Non si può non ricordare, inoltre, l’impegno per l’access to justice profuso in modo particolare da M. Cappelletti sul finire degli anni Settanta: cfr. M. Cappelletti, B. Grath, Access to justice: the worldwide movement to make rights effective.

A general report, in M. Cappelletti (a cura di), Access to justice, I, 1, Milano - Alphen aan den Rijn, 1978, 3 ss.

mento: la conciliazione divenne uno degl’innumerevoli poteri di-screzionali del giudice e l’arbitrato fu relegato «fra quegli ibridi procedimenti speciali che si trovano tradizionalmente in fondo a ogni codice del rito»12, a riprova che l’autonomia negoziale delle parti poteva essere tutt’al più tollerata, ma doveva cedere il passo alla funzione pubblicistica del processo e della giurisdizione13. In questo contesto, non sorprende che la dottrina processualistica italiana abbia faticato non poco a far sua l’idea che una lite possa avere uno sbocco non imperativo, ovvero non aggiudicativo, ma negoziato e consensuale; e sia giunto ad accettarla fino in fondo solo in anni relativamente recenti14.

In secondo luogo, esiste un problema di carattere istituzionale.

In Italia, per una tradizione di matrice preunitaria, la legge di or-dinamento giudiziario delinea il giudice come un funzionario-bu-rocrate, inquadrato in un rapporto di pubblico impiego con lo Stato e selezionato esclusivamente sulla base della sua

prepara-15Sul modello italiano di magistratura, v., tra gli altri, A. Pizzorusso, L’or-ganizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1990, spec. 29 ss., nonché C.

Guarnieri, La magistratura in Italia: un profilo storico e comparato, in P. Bia-vati, C. Guarnieri, R. Orlandi e N. Zanon, La giustizia civile e penale in Ita-lia, Bologna, 2008, spec. 33 ss.

16Se non da quando il Consiglio Superiore della Magistratura, nel qua-dro della formazione e dell’aggiornamento professionale dei magistrati, ha iniziato a promuovere la conoscenza degli strumenti di ADR.

17Si vedano al riguardo le riflessioni di P. Martucci, Mediazione penale, cit., 2.

18F. Santagada, La conciliazione delle controversie civili, Bari, 2008, 149 s.

zione tecnico-giuridica15. A livello sistematico e in linea teorica, al giudice non si è mai domandato di padroneggiare le tecniche della conciliazione e della mediazione16, sicché, di fatto, l’apertura verso tali strumenti di risoluzione delle controversie è stata rimessa alla sensibilità del singolo magistrato.

Sta di fatto che, mentre in altri Paesi europei – e principal-mente in quelli anglosassoni – la pratica conciliativa si è svilup-pata sin da tempi relativamente remoti, in Italia la diffusione di modelli lato sensu conciliativi è assai più recente. Nel nostro Paese, infatti, l’attenzione del legislatore verso le ADR è cresciuta – per lo meno in ambito civile, ma in certa misura ciò vale anche nel set-tore penale17– di pari passo con l’assunzione di consapevolezza dello stato di crisi del sistema giurisdizionale, la quale ha reso chiara l’indifferibilità di interventi diretti al contenimento della domanda di giustizia mediante la promozione di forme di gestione extragiudiziale dei conflitti; e, tra queste, un ruolo di primo piano ha finito con l’essere assegnato alle procedure conciliative per lungo tempo sperimentate pressoché esclusivamente in ambiti set-toriali, estendendole all’intera area dei conflitti su diritti disponi-bili18.

È bene avvertire che la valorizzazione delle ADR – e

princi-palmente dei modelli di ADR più spiccatamente negoziali, a co-minciare dalla conciliazione e dalla mediazione – in una prospet-tiva quasi esclusivamente deflatprospet-tiva ha rappresentato un evidente limite di carattere culturale, che ha condizionato non poco l’ap-proccio a questi metodi e la loro realizzazione pratica. Il nostro legislatore, infatti, ha perso quasi completamente di vista il profilo qualitativo della giustizia partecipata, trascurando la capacità di ogni soluzione autonoma del conflitto di realizzare un assetto ten-denzialmente stabile e duraturo nei rapporti delle parti e, in ul-tima battuta, una più efficace pacificazione sociale; quasi che la bontà delle ADR si possa apprezzare solamente sotto il profilo della riduzione dei carichi di lavoro degli uffici giudiziari.