La mediazione come strumento
3. Le “doti” necessarie ad un mediatore
Ma quali caratteristiche dovrebbe avere un mediatore? deve na-turalmente essere in grado di risuonare “per simpatia” sulle corde dell’altro37perché patire è capire (Eschilo nell’Agamennone). E deve ovviamente essere polifonico, in grado di farsi altro per ca-pire gli altri, deve superare le differenze di genere. «[…] sono l’unico uomo che vive tra gli spettri / L’unico spettro a vivere tra gli uomini / Sono l’unico eletto, e l’unico negletto fra le nebbie. / C’è in me la sfrontatezza dell’uomo e della donna»38. La sua poli-fonicità gli consente di capire le ragioni di tutti perché i conflitti non sono mai casuali e c’è sempre una ratio a giustificarne l’esi-stenza: «Il pensiero della molteplicità e del conflitto muove dal presupposto che i punti di vista in lotta all’interno di un certo con-flitto siano dotati ciascuno di una ragione sufficiente. Nessuno di loro è semplice aberrazione»39.
E deve, va da sé, essere un buon comunicatore. Deve avere le parole40, deve restituire il non elaborato e lasciare che si trasformi in narrazione, perché la narrazione ridefinisce il problema: «Date
strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole. Il rapporto fra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità (e dunque di democrazia) è dimostrato anche dalla ricerca scientifica, medica e criminologica: i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una con-versazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione – il tono, il lessico, l’andamento – in base agli interlocutori e al contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora. Non sanno sentire, non sanno nominare le pro-prie emozioni. Spesso non sanno raccontare storie. Mancano della necessa-ria coerenza logica, non hanno abilità narrativa: una carenza che può produrre conseguenze tragiche nel rapporto con l’autorità, quando è indi-spensabile raccontare, descrivere, dare conto delle ragioni, della successione, della dinamica di un evento. La povertà della comunicazione, insomma, si traduce in povertà dell’intelligenza, in doloroso soffocamento delle emozioni.
Questo vale a tutti i livelli della gerarchia sociale, ma soprattutto ai gradi più bassi. Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura, e più di tutte proprio le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza;
quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, manca un mec-canismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi. Nelle scienze cognitive questo fenomeno – la mancanza di parole, e dunque di idee e mo-delli di interpretazione della realtà, esteriore ed interiore – è chiamato ipo-cognizione. Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli studi condotti negli anni Cinquanta dall’antropologo Bob Levy. Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psi-chico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale, e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo.» In Carofiglio, op. cit., pp.
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parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovrac-carico e gli ordina di spezzarsi» (W. Shakespeare, Macbeth). Dare parole al dolore per non far crollare il mondo nel quale ci muo-viamo: «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» scrisse Wittgenstein. La padronanza del linguaggio è una condizione affinché il reale non ci sfugga più di quanto già non fac-cia di suo. Va ricostruita l’esperienza di vita, ridrammatizzata con il mediatore che entra ed esce di scena, anghelos nella storia, libero
di entrare ed uscire dalla quarta parete. Il mediatore deve aiutare i confliggenti a trovare le parole nascoste, i non detti, i sottotesti, perché «curae leves loquuntur, ingentes stupent (le preoccupazioni lievi parlano, quelle gravi tacciono» (Seneca, dal Fedra). Bisogna dare un nome ai propri demoni, solo così si ha potere su di loro.
E le situazioni vanno continuamente ridefinite perché il compor-tamento umano sfugge dai facili sillogismi e non procede per via algoritmica; ma se questa sua eccedenza diventa una risorsa e non un problema allora potrà venir fuori il meglio di noi con un ap-proccio creativo (pensiero laterale, procedimento euristico, ecc.).
Oltre alle caratteristiche precedentemente descritte un media-tore deve, naturalmente, essere dotato di grande pazienza; la pa-zienza rimanda al ritmo del percorso, ritmo lento.
Gregory Bateson ha avuto il merito di insegnarci a leggere nelle tradizioni un deposito di sapienza ecologica, di coscienza del li-mite, che è stato poi dissolto dal trionfalismo espansivo della mo-dernità. Uno sguardo equo e scevro da pregiudizi scoprirebbe che ci sono esperienze che con l’aumento della velocità si deteriorano profondamente o addirittura scompaiono, dall’amore e la cura per l’altro alla riflessione, dall’educazione alla convivialità, a tutte quelle attività e qualità che, per esistere, hanno bisogno di respi-rare un tempo largo, di disporre dell’ossigeno della durata. L’as-solutizzazione della velocità produce una grave deformazione o mutilazione dell’esperienza, e ciò che va perduto viene spesso so-stituito da qualcosa che porta ancora lo stesso nome, ma ne costi-tuisce solo una terribile caricatura. I ricordi spesso vengono ricostruiti secondo i nostri interessi
Come dice Marc Augé, «La storia futura non produrrà più ro-vine. Non ne ha il tempo».
E infine tra le qualità di un buon mediatore ovviamente c’è l’empatia; e tanto più la nostra individualità sarà multipla, com-plessa, sfaccettata e con molteplici identità e affiliazioni, tanto più come mediatori avremo la capacità di sentire l’Altro. Scrive Rifkin:
41J.W. Goethe, Le affinità elettive, (1809) Mondadori, Milano 1988, p.
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«Vivere con identità ibride e affiliazioni culturali multiple alimenta il cosmopolitismo dal basso e l’estensione empatica. Approprian-dosi di diverse culture, gli individui acquistano una identità mul-ticulturale e, perciò, diventano più tolleranti e aperti verso la diversità che li circonda. Un’identità multiculturale offre anche al-l’individuo una più ricca riserva di esperienze personali e di sen-timenti cui attingere per esprimere empatia verso gli altri».
E per concludere non posso non riportare un pezzo che ho tro-vato rileggendo un classico di gioventù: «Quest’uomo singolare era stato, tempo addietro, un religioso e, con la sua infaticabile at-tività, si era distinto nel suo ufficio, perché riusciva a sedare e ad appianare tutte le controversie, sia quelle in famiglia sia quelle tra vicini, dapprima tra singoli individui, poi anche tra intere comu-nità e tra numerosi possidenti. Finché era rimasto in servizio, nes-suna coppia aveva divorziato e i consigli regionali non erano mai stati importunati con liti e processi provenienti dal suo paese. Si era accorto subito quanto fosse indispensabile per lui avere delle conoscenze giuridiche. Si era buttato a capofitto in questo genere di studi e presto si era sentito il più abile degli avvocati. La sua sfera di influenza si era straordinariamente allargata, e già pensa-vano di trasferirlo nella capitale, affinché completasse dall’alto ciò che aveva iniziato dal basso, quando riportò una notevole vincita a una lotteria, si comprò una discreta tenuta, l’affittò a mezzadria e ne fece il centro della sua attività, con il fermo proposito – o piuttosto seguendo vecchie abitudini e inclinazioni – di non trat-tenersi in una casa dove non ci fosse da metter pace e da prestare aiuto. Coloro che sono superstiziosi riguardo al significato dei nomi sostengono che il nome Mittler [in tedesco «mediatore», N.d.T.] lo abbia costretto ad abbracciare questa, che è la più strana di tutte le vocazioni [c.vo mio]»41.
«Mediares», n. 17-18, 2011
Of the participants in the criminal procedure, the person in the worst position is the victim, whose grievance launches the “case”.
It is he or she who, not properly informed, without any real legal and psychological support, often with their basic rights ignored, meanders in the cobwebs of criminal procedure which are in-comprehensible for them. Often they are not even notified of the close of the procedure and the harm they suffered is redressed neither by the perpetrator nor by anyone else. Despite this, per-petrators and their circumstances get greater attention in crimi-nal procedures to this day. 0The need for investigating the victims of crime appeared in criminal policy and in scientific thought in the second half of the 20th century.
As the role of victims came to the fore, ground was gained by efforts which – in addition to understanding the causes and pro-cess of victimisation – intended to explore such issues neglected