CAPITOLO 1. QUESTIONI TEORICHE E TERMINOLOGICHE
1.6 ALCUNI FATTORI CHE INFLUENZANO L’APPRENDIMENTO DEL LESSICO
Un ruolo molto importante nell’apprendimento di una lingua, e quindi anche del lessico, è sicuramente costituito dalla motivazione dell’apprendente. Tuttavia, va detto che da sola la motivazione dello studente non è sufficiente. Paul Bogaards (1994: 93), infatti, a questo proposito osserva che
l’intention d’apprendre ne mène pas forcément au meilleur résultat et […] les tâches significatives, celles où l’apprenant est impliqué personellement, provoquent un apprentissage bien plus efficace.
A dimostrazione di questo fatto egli cita uno studio effettuato da Wilson e Bransford e riportato da Gairns e Redman (1986: 90-91). Per l’esperimento gli studiosi avevano dato una lista di trenta parole a tre gruppi di studenti. Al primo gruppo era stato detto che dovevano imparare quelle parole in vista di un test. Al secondo gruppo di studenti era stato chiesto di annotare tutte le parole che evocavano qualche cosa di piacevole o di spiacevole. Al terzo gruppo, infine, era stato chiesto agli studenti di classificare le parole che gli erano state date in base all’importanza che potevano avere per un soggiorno in un’isola deserta. Per questi ultimi due gruppi non era stato annunciato alcun test. I risultati del test di controllo finale hanno rivelato che il terzo gruppo ricordava il maggior numero di parole mentre i primi due gruppi avevano appreso più o meno lo stesso numero di parole. Il fatto che gli studenti del primo gruppo ricordassero meno parole rispetto al terzo dimostra che imparare qualcosa ai fini del superamento di un esame, che è certamente una motivazione, in questo caso strumentale, da sola non garantisce il risultato migliore. Allo stesso modo, gli studenti del secondo gruppo hanno ottenuto risultati inferiori al terzo perché il compito affidatogli non li coinvolgeva abbastanza a livello personale. Ne consegue che l’efficacia dell’apprendimento aumenta se agli studenti vengono affidati compiti in cui
siano coinvolti personalmente e in cui gli si chieda di riflettere e prendere delle decisioni.
Anche altri fattori, però, sono considerati molto importanti per l’apprendimento del lessico e sono legati al riciclo/rinforzo e alla ripetizione. Per quanto riguarda il primo aspetto Corda e Marello (2004: 140) osservano che “la presentazione di nuovi elementi lessicali si può utilmente combinare con il ripasso di parole già note, che in questo modo vengono riproposte insieme ad altre parole, creando quindi associazioni diverse da quelle suggerite dal campo semantico a cui sono normalmente collegate.” Nation invece, la mette più in termini di tempo e dispendio di energia e sottolinea che rispetto al nuovo materiale di qualsiasi lezione è più importante il vecchio materiale. Questo perché il vecchio materiale è già quasi padroneggiato dagli apprendenti ma se non viene ripetuto esso sarà dimenticato e tutto il lavoro precedente andrà sprecato. Il nuovo materiale, d’altro canto, non ha ricevuto molto tempo e sforzo e se non gli si presta ulteriore attenzione, verrà anch’esso dimenticato ma, in questo caso, non sarà stato sprecato molto del tempo e dello sforzo precedenti. Secondo lo studioso “it is therefore quite important for a teacher to keep a rough check on the vocabulary that needs to be established so that there are enough repetitions and not a lot of wasted effort and attention” (1990: 45). Attraverso le parole di Nation quindi ci ricolleghiamo al secondo aspetto: l’importanza della ripetizione. Anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo, infatti, essa è ritenuta un elemento molto importante per l’apprendimento del lessico.
A questo proposito Alan Baddeley et al. ([2009]; trad. it. 2011: 95-97) citano lo studio del filosofo tedesco Hermann Ebbinghaus che, intorno al 1880, intraprese uno studio sperimentale sulla memoria. Soggetto dell’esperimento fu egli stesso che, al fine di indagare l’apprendimento di nuove informazioni e al contempo ridurre al minimo l’effetto delle sue conoscenze pregresse, decise di servirsi di materiale del tutto nuovo. A questo scopo lo studioso creò delle liste contenenti ciascuna 16 sillabe prive di significato ma ordinate secondo lo schema fisso consonante-vocale-consonante dando così luogo a sequenze come WUX o BIJ o CAZ che potevano somigliare a delle parole ed essere facilmente articolate, assicurandosi però di evitare associazioni con parole già esistenti. Una volta preparate le liste Ebbinghaus ne sceglieva una e il primo giorno la
recitava per 8, 16, 24, 32, 42, 53 o 64 volte alla velocità di 2,5 sillabe al secondo e ventiquattro ore dopo, verificava quanto aveva appreso cercando di stabilire quante ripetizioni aggiuntive fossero necessarie per reimparare la lista a memoria. Egli fu molto meticoloso perché effettuava i suoi esperimenti ogni giorno alla stessa ora, sospendendoli nel caso in cui si presentassero cambiamenti interni o esterni, e annotava scrupolosamente il numero di ripetizioni di cui aveva bisogno per apprendere ogni lista o per apprenderla nuovamente se dimenticata a causa del tempo trascorso dopo il primo apprendimento. Nell’arco di due anni egli mise in luce alcune delle caratteristiche della memoria legate alla velocità con cui l’informazione può essere fornita al sistema e alla velocità in cui l’informazione si perde o, in altre parole, alla rapidità del suo oblio. Ciò che emerse dai suoi esperimenti fu che l’informazione appresa è proporzionale al tempo che si dedica al suo apprendimento e perciò, se si raddoppia il tempo di apprendimento anche la quantità di informazione immagazzinata raddoppierà. Questo vuole anche dire che fra il numero di prove di apprendimento del primo giorno e la quantità di informazione acquisita il secondo giorno, esiste una relazione di tipo lineare che, negli anni successivi, è stata studiata approfonditamente ed è stata denominata ‘ipotesi del tempo totale’. In merito a quest’ultima, come Baddeley et al. ([2009]; trad. it. 2011: 97- 98) osservano,
vi sono […] molte altre prove a suo sostegno. […] La generalizzazione per cui «ciò che è dato è reso» è perciò una ragionevole legge empirica dell’apprendimento, ma, all’interno di questo quadro complessivo vi sono casi in cui il saldo è positivo e altri in cui è negativo. In altri termini, nonostante questa relazione generale tra pratica e livello raggiunto, è possibile avere di più a parità di tempo impiegato. [Esistono infatti dei] modi in cui è possibile violare a proprio vantaggio l’ipotesi del tempo totale.
Rispetto all’esperimento di Ebbinghaus, infatti, si può osservare che il tempo totale di apprendimento non è costante giacché il tempo che si dedica all’apprendimento della lista di parole durante il primo giorno non è proporzionato al tempo che si risparmia per il suo riapprendimento durante il secondo giorno. Per capire meglio, è forse più semplice utilizzare degli esempi pratici: secondo i risultati dell’esperimento di Ebbinghaus, se il primo giorno si effettuano 64 ripetizioni che con il ritmo utilizzato dallo studioso richiedono circa 7,5 minuti, anche il secondo giorno sarà necessario all’incirca lo stesso tempo per il suo riapprendimento, arrivando a un totale di 15 minuti
per entrambi i giorni. Se invece il primo giorno si recita la lista solo 8 volte impiegando circa 1 minuto, il secondo giorno saranno necessari quasi 20 minuti per apprenderla nuovamente. Ciò significa che in totale serviranno circa 21 minuti per i due giorni messi insieme e quindi un tempo maggiore rispetto al primo caso esposto. Questa differenza è dovuta al modo in cui viene suddivisa la pratica: se quest’ultima è distribuita in modo equilibrato nei due giorni è più efficace rispetto a quando si concentra la maggior parte della pratica nel secondo giorno. In altre parole, se anziché raggruppare le prove di apprendimento in un unico blocco le si suddivide in un periodo di tempo più ampio si ottengono risultati migliori secondo il cosiddetto effetto della ‘pratica distribuita’. Tuttavia, sebbene più efficace, bisogna sempre valutare, caso per caso, se l’esercizio distribuito è anche pratico e conveniente.32
Come si è detto, dunque, la distribuzione delle ripetizioni non dovrebbe avvenire in maniera casuale. Nation (1990: 45) cita uno studio di Pimsleur (1967), il quale suggerisce che le ripetizioni dovrebbero essere distanziate ed effettuate ad intervalli crescenti. Ciò significa che mentre le prime ripetizioni dovrebbero avvenire quasi subito dopo l’introduzione di una nuova parola, le ripetizioni successive dovrebbero essere effettuate dopo un giorno o più, e poi ancora dopo una settimana o più, e così via.
In merito a questo aspetto, in Baddeley et al. ([2009]; trad.it. 2011: 98-99) si parla del metodo di memorizzazione proposto da Tom Landauer e Robert Bjork (1978), noto
32 In questo senso, è molto utile riportare uno studio di Baddeley e altri suoi colleghi (1978) ai quali, qualche tempo fa, fu chiesta una consulenza dal British Post Office per insegnare la dattilografia a un buon numero dei loro impiegati postali. A quei tempi, era appena stato introdotto il codice postale e coloro che si occupavano dello smistamento della posta dovevano batterlo su una tastiera somigliante a una macchina da scrivere. Gli impiegati coinvolti in questo compito furono quindi suddivisi in quattro gruppi che seguirono quattro programmi differenti. Un primo programma prevedeva una sola ora di pratica al giorno; un altro prevedeva una sessione di due ore al giorno; nel terzo programma erano previste due sessioni di un’ora al giorno e nell’ultimo si avevano due sessioni di due ore al giorno. Da questo esperimento risultò che il gruppo di impiegati che aveva fatto pratica per una sola ora al giorno, imparò ad usare la tastiera in meno ore migliorando la propria prestazione più velocemente degli altri gruppi. A loro volta, coloro che si erano esercitati per due ore al giorno impararono più velocemente di chi invece aveva fatto pratica per quattro ore al giorno. Il primo gruppo apprese a battere la tastiera in 55 ore mentre per l’ultimo gruppo furono necessarie ben 80 ore. Inoltre, quando i diversi gruppi furono controllati dopo alcuni mesi in cui non si erano più esercitati, risultò che gli impiegati che avevano fatto pratica solo per un’ora al giorno erano anche coloro che avevano conservato meglio le abilità acquisite precedentemente. L’esercizio distribuito, dunque, riduce l’oblio. Come si è detto però, la pratica distribuita in questo modo ha i suoi svantaggi poiché sebbene il gruppo che si era esercitato solo per un’ora al giorno ottenne risultati migliori e in una minore quantità di ore, c’è da considerare che per farlo erano state necessarie 11 settimane contro le quattro settimane del gruppo che invece si era esercitato per quattro ore al giorno (Baddeley et al. [2009]; trad.it. 2011: 98-99).
col nome di espanding retrieval (recupero a intervalli crescenti) e che combina due principi fondamentali: l’effetto di distribuzione della pratica e l’effetto di generazione, per il quale se si produce in modo autonomo l’item desiderato, lo si ricorderà meglio. Anche in questo caso, utilizzare un esempio semplifica le cose. Si immagini di dover imparare una lista di vocaboli in una lingua straniera: se prima di ripresentare il primo vocabolo e verificarne il ricordo si arriva in fondo alla lista, massimizzando così la distanza tra due presentazioni successive, il risultato sarà migliore del caso in cui presentazione e test avvengano in rapida successione. Tuttavia, secondo il cosiddetto
effetto di generazione, ricordare un vocabolo in modo autonomo rafforza il ricordo più
di quanto non accada nel momento in cui quel vocabolo ci viene fornito da altri. Ciò si scontra con la distribuzione della pratica perché la probabilità di ricordare in modo corretto un vocabolo è maggiore se viene testato subito così come è maggiore la probabilità che l’apprendimento si rafforzi. Per ovviare a questo problema allora bisognerebbe testare un nuovo vocabolo dapprima dopo un breve intervallo, per verificare che esso non sia già stato dimenticato e, successivamente, allungare in maniera graduale l’intervallo tra pratica e test allo scopo di verificare la conoscenza di ogni vocabolo fino all’intervallo più lungo al quale esso può essere rievocato correttamente.
In altre parole, se uno studente deve imparare una lista di vocaboli e sbaglia un vocabolo di quella lista, la cosa migliore sarebbe ripresentarglielo dopo un breve intervallo; in seguito, tutte le volte in cui lo studente risponderà in modo corretto, l’intervallo dovrebbe essere esteso.
Per quanto riguarda l’effetto della distribuzione della pratica, uno studio più recente ne ha confermato la validità. Si tratta del lavoro di Pashler et al. (2007: 187- 193) che hanno rilevato i vantaggi della pratica distribuita negli ambiti più svariati: ricavare informazioni da una mappa, apprendere fatti curiosi, imparare a risolvere problemi matematici, ma anche, per tornare all’apprendimento delle lingue, acquisire il vocabolario di una lingua straniera o imparare la definizione di parole rare. In uno dei loro esperimenti, per esempio, i soggetti erano stati divisi in due gruppi: al primo venivano dati problemi matematici da risolvere uno dietro l’altro; al secondo venivano date due serie di cinque problemi separati da un intervallo di due settimane. I due gruppi
ottennero più o meno gli stessi risultati quando vennero testati dopo una settimana ma il secondo gruppo ottenne risultati migliori quando il test fu effettuato dopo quattro settimane. Per quanto riguarda la distribuzione degli intervalli, essa dipende dalla distanza che intercorre tra il momento dell’apprendimento e il momento del test. Secondo Pashler et al. (2007: 192) sembrerebbe che
over substantial time periods, spacing has powerful (and typically nonmonotonic) effects on retention, with optimal memory occurring when spacing is some modest fraction of the final retention interval (perhaps about 10%-20%).
Ciò significa che per un ipotetico test previsto a dieci giorni di distanza rispetto al primo episodio di apprendimento, l’intervallo tra le prove dovrebbe essere di uno o due giorni, ma se il test è previsto dopo sei mesi, allora dovrebbe esserci un intervallo di venti giorni tra una prova e l’altra (Baddeley et al., [2009]; trad. it. 2011: 101).
Un altro aspetto importante per l’apprendimento è il recupero. A questo proposito, Karpicke e Roediger (2008) hanno effettuato uno studio in cui era previsto l’apprendimento di vocaboli di una lingua straniera in quattro condizioni differenti. Nel primo caso si presentava e si verificava ripetutamente una lista di 40 coppie di vocaboli swahili-inglese. Nel secondo caso, se alcune coppie di vocaboli erano già state apprese allora queste venivano cancellate dalla lista in modo da permettere agli studenti di focalizzare la propria attenzione sugli elementi non ancora imparati. Nel terzo caso, se alcune coppie di vocaboli erano già state apprese si continuava a presentarle ma non a verificarle e nell’ultimo caso avveniva l’opposto: se le coppie erano già state apprese non venivano più presentate ma continuavano a essere verificate. I risultati hanno messo in luce che la velocità di apprendimento nella prima settimana era identica in tutte e quattro le condizioni. Tuttavia, non avveniva lo stesso per la ritenzione: nei due casi in cui le coppie di vocaboli continuavano a essere testate si arrivava a una percentuale di rievocazione dell’80%; nei due casi in cui le coppie non venivano più testate una volta imparate la rievocazione arrivava al 30% circa. Questo vuol dire che lo schema di apprendimento e i test non avevano effetto sulla velocità di apprendimento, ma il fatto che fossero stati effettuati dei test influenzava fortemente ciò che i soggetti ricordavano una settimana dopo e non solo, la presentazione senza test era del tutto inefficace.
Si è parlato dell’importanza della ripetizione e di come essa andrebbe distribuita nel tempo, ma è importante anche il numero di volte in cui questa è presente nell’input
ai fini dell’apprendimento. Da questo punto di vista, tuttavia, tra gli studiosi non c’è accordo e Nation (1990: 43-44) cita i lavori di diversi studiosi che si sono occupati di questo aspetto. Kachroo (1962), per esempio, contò il numero di ripetizioni delle parole presenti in un manuale d’inglese per poi testare i suoi apprendenti indiani e vedere quali parole erano state apprese. Egli scoprì che le parole che nel libro di testo erano presenti 7 o più volte erano conosciute dalla maggior parte degli apprendenti e che più di metà delle parole che ricorrevano solo 1 o 2 volte nei libri erano sconosciute alla maggior parte della classe. Salling (1959), a sua volta, era arrivato più o meno alle stesse conclusioni stabilendo che erano necessarie almeno 5 ripetizioni affinché le parole fossero apprese. Anche Crothers e Suppes (1967), attraverso esperimenti più controllati, stabilirono che erano necessarie 6 o 7 ripetizioni. Saragi et al. (1978), invece, utilizzando dei testi di lettura in cui gli apprendenti non sapevano che dovevano imparare il nuovo lessico, scoprirono che erano necessarie 16 o più ripetizioni. Mettendo insieme i dati dei diversi studi sopra elencati dunque, affinché una parola venga imparata dovrebbe essere ripetuta dalle 5 alle 16 volte.
Il problema però è che spesso nei manuali di lingua, e quelli di italiano non fanno eccezione, non si cura molto questo aspetto che è ancor più importante nei paesi dove non si parla la L2 se non all’interno della classe di lingua. E in questo senso gli insegnanti dovrebbero fare particolarmente attenzione al materiale che scelgono appoggiandosi quindi a libri di testo che contengano al loro interno parole ed espressioni che si ripetono in modo sufficiente a rendere l’apprendimento del lessico possibile. Nation (1990: 44) nota che analizzando il numero di ripetizioni presenti in svariati manuali per l’insegnamento della lingua inglese i dati non sono incoraggianti, anche se ci sono delle eccezioni. In alcuni di questi testi, infatti, buona parte delle parole ricorrono meno di 5 volte ciascuna e metà di esse sono degli hapax, hanno cioè una sola occorrenza. L’indice di densità di un brano, di una lezione o di un intero libro si ricava dalla proporzione tra le diverse parole presenti in essi, ovvero le diverse forme, e il numero totale di parole, cioè le occorrenze. Se la proporzione è alta, allora la lettura sarà relativamente facile e questo perché affinché si abbia un alto indice di densità molte delle diverse parole, le forme, devono essere ripetute frequentemente. Lo studioso, continua affermando che l’indice di densità dell’inglese scritto moderno
solitamente ha un rapporto di 1:2.4. Ciò significa che in media ogni parola è ripetuta tra le due e le tre volte e che circa il 40% delle parole sarà presente una sola volta e che per queste non ci sarà dunque ripetizione. Questo tipo di materiale non è adeguato all’apprendimento del lessico di una seconda lingua perché se una parola ricorre solo una volta durante un intero anno scolastico è evidente che questa avrà ben poche possibilità di essere appresa. Un manuale con un indice di densità pari a 1:2.4 o 1:4 che corrisponde all’indice di densità dell’inglese parlato e che contiene un alto numero di parole che si ripetono per meno di 5 o 6 volte, dunque, non può essere adeguato né all’apprendimento né all’insegnamento di una seconda lingua. Secondo Nation (1990: 45), un libro di testo adatto al primo anno di un corso di lingua dovrebbe infatti avere un indice di densità di circa 1:20 con un basso numero di hapax mentre negli anni successivi dovrebbe essere sufficiente invece un indice di densità di 1:10 o 1:12. Un manuale costruito senza pensare a una sufficiente ripetizione delle parole che contiene, renderà necessario l’intervento dell’insegnante che dovrà sopperire a questa carenza. Se però manca da parte di entrambi l’attenzione per questo aspetto tanto importante e tanto delicato allora lo sforzo speso per trattare il lessico sarà sprecato.
Per quanto riguarda i manuali d’italiano L2, uno studio molto prezioso e interessante è stato quello condotto da un gruppo di ricerca33
dell’Università per Stranieri di Siena e coordinato da Andrea Villarini i cui risultati sono confluiti in diversi articoli e pubblicati in diverse opere (2006; 2008a; 2008b; 2010; 2011; 2012).34 La
ricerca si è basata su un corpus denominato L.A.I.C.O. – Lessico per Apprendere l’Italiano Corpus di Occorrenze - ottenuto attraverso l’analisi lessicometrica di 7 manuali d’italiano L235
molto diffusi e utilizzati nei corsi organizzati presso i Centri Territoriali Permanenti per l’Educazione degli Adulti del Comune di Roma. Tra gli svariati aspetti che sono stati analizzati all’interno di questo progetto, ciò che interessa in particolare qui riguarda la questione delle ripetizioni. Il campione generale, cioè
33 Il gruppo di ricerca era costituito da Alessio Canzonetti, Marcella Delitala, Elvira Grassi, Elisabetta