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Alla Carissima Segnora Betta Zen Poestaressa de Chioza

A’ no crezo que mè Paràsio, o Pèle 1

penzesse in muro, in asse, in carta, in tela na fegura compìa, sì schieta, e bela,

co a sì, Parona anor del’altre bele. 4

Tanto co luse el sol pi dele stele e un bel dopiero pi d’una candela, al muò que luse al scuro una fasela

così luse quel viso in queste e in quele. 8

Tasa quel, che cantè la so Loreta; se ’l fosse vivo, el dirave spreciso «la no fo degna trarve una scarpeta».

Gi vuocchi, la boca, el sen, la gola, el viso 12 mostra tanto spiandor, ch’un agnoleta

a’ parì svolà zo dal Paraiso.

[1-8: Io non credo che mai Parrasio o Apelle, abbiano dipinto su muro, su tavola di legno, su carta, su tela, una figura compiuta, così pura e bella, come siete, voi Padrona, onore delle altre belle. Tanto quanto risplende il sole più delle stelle, e un bel doppiero più di una candela, al modo che risplende al buio una fiammella, così risplende quel viso tra queste e quelle. 9-14: Taccia quello che ha cantato la sua Lauretta, se fosse vivo, direbbe preciso, ella non fu degna di trarvi una scarpetta. Gli occhi, la bocca, il seno, la gola, il viso mostrano tanto splendore, che sembrate una angioletta volata giù dal

Gratia, parole e riso

onestè, cortesia, famia d’anore 16

xe le vertù, ch’a’ g’hi sarè in lo cuore.

Parona, se le ore

foesse agni, e que sto me cotale

d’archeto fosse impasturò d’azzale, 20

se d’inghiostro un canale foesse pin, e c’esse pi penieggi

ch’in la vostr’ara è stè guano granieggi

e c’esse pi cervieggi 24

que no se vende un’ano in becaria a no porae cantar tal zentilia.

Dela vostra zenia

n’in faelon, che de mario, e de pare 28 neguna certo no ve và del pare.

La gran Snatura mare

che no vo che na schiata sì anorà

vaghe de male, v’ha conduta qua, 32

[15-21: Grazia, parole e riso, onestà, cortesia, fama d’onore, sono le virtù che avete chiuse nel cuore. Padrona se le ore fossero anni, e questo mio archetto fosse impastato d’acciaio, 21-32: se un canale fosse pieno d’inchiostro, e avessi più pennelli di quante granaglie nella vostra aia ci sono quest’anno, e avessi più cervelli di quanti non si vendono in un anno in macelleria, io non potrei cantare tanta gentilezza. Della vostra genie, non potrei raccontare che per quanto riguarda il marito ed il padre nessuno certo non vi è pari. La grande madre natura, che non vuole che una stirpe così onorata vada

onve, che a’ g’hi muà

ciera, legrezza, viso, panza e pelo,

che a quel ch’a’ vego a’ g’hi impolò un putelo,

no putelo, un pontelo 36

che farà anor a i suò santi, e da ben antessore, ch’è muorti da ca’ Zen.

Parona, aliegramen,

tegnive in bon, che a’ si la prima stà 40 de do cugnè, che g’hea besogno assà

d’aer tusi per ca’.

A comenzare: insegneghe mo a ela,

ala vostra cugnà, cara Gabriela. 44

Pota, la sarà bela!

Che così tute do, co è palaini, a’ farì Marchiorati e Cattarini.

Onve con bieggi inchini 48

Vegniesia e Pava s’aldirà cantare

“Viva Zini, e Mechieggi in tera, e in mare!”

[33-47: dove avete mutato aspetto, allegria, viso, pancia e pelo, che a quel che vedo gli avete concepito un bambino. No bambino, un puntello, che farà onore ai suoi santi, e da antecessore ai morti di casa Zen. Padrona, allegramente, restate in salute, che siete stata la prima di due cognate, che c’era assi bisogno, di aver bambini per casa. Per cominciare: insegnate a lei, alla vostra cognata, cara Gabriella. Pota! Sarà bella! Che così, tutte e due, come sono i paladini, farete Marchioratti e Cattarini. 48-50: Ovunque con begli inchini, Venezia e Padova si sentirà cantare: «Viva gli Zen e

Metro: Sonetto caudato. Schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE.

Il decimo sonetto delle Rime, dedicato ad Elisabetta Zen, si sviluppa su una serie di paragoni a cui la donna, moglie di Caterino Zen, podestà di Chioggia, è accostata. Nella prima quartina la signora è paragonata a dei dipinti, nella seconda quartina agli elementi naturali del sole e delle stelle, che non sono luminosi quanto lei. Nella prima terzina, Sgareggio, chiama in causa Petrarca, con una allusione, parlando di «quel che cantè la so Loreta», perché se il poeta aretino avesse conosciuto Elisabetta, la sua Laura non sarebbe stata degna nemmeno di toglierle una scarpetta. In seguito la donna viene paragonata ad una angioletta discesa dal cielo, alla quale non ci sono eguali, neanche per quanto riguarda il marito o il padre, e Sgareggio afferma che anche madre natura, personificata, non vuole che una stirpe così onorata vada in malore, ed infatti la donna si trova in stato di gravidanza. Prima di due cognate ad aspettare un figlio, il poeta la onora con questo sonetto celebrativo e al contempo augurale, in quanto auspica che anche la cognata Gabriella dia un erede alla casata e che entrambe siano onorate per terra e per mare come sono due paladini.

Sonetto caudato con 12 code. Da notare le rime, in particolare quelle della prima quartina, dove a rimare sono solo delle parole bisillabe che producono la figura retorica della paronomasia. Rima paronomastiche sono «pele», «bele» (vv. 1 e 4), «tela», «bela» (vv. 2, 3), ma anche «bela», «bele» (vv. 3-4). Altre rime paronomastiche si trovano ai vv. 12, 15 («viso», «riso»), 29, 30 («pare», «mare»), 32, 33 («qua», «muà»), 37, 38 («ben», «Zen»), e si noti la rima equivoca dei vv. 28, 29 («pare») ed inclusiva «ela», «Gabriela» (43, 44).

Sgareggio per elencare le innumerevoli virtù della donna ricorre, in questo sonetto, non di rado oltre che ai paragoni anche alle enumerazioni, come nei vv. 2 (enumerazione per polisindeto), 12, 15 e 16, 34. Da notare i versi 35 e 36: «che a quel, ch’a’ vego a’ g’hi impolò un putelo, / no putelo, un pontelo» dove si riscontrano le figure retoriche del poliptoto, della paronomasia e la metonimia.

2 Penzesse : da «pènzere», ‘dipingere’. Cfr: «Al cellente penzaore pi ca quanti penzesse mè, Missier Stician. El m’è stò ditto, mesier Stician, / che siando a Pava» (Rime III 31 [MAG.]); «S’te ovrassi mè, Maganza, el to penelo / e s’te penzissi mè de bel colore / e s’te te fiessi a Vicenza mè anore, pinzi una que è per dirte el Tandarelo» (28.2-4).

6 Dopiero: ‘doppiero’. Candelabro a due bracci.

11 Trarve una scarpeta: tanta è la nobiltà di Elisabetta Zen che Sgareggio sostiene che la Laura petrarchesca non sarebbe degna neppure di toglierle una scarpa.

13 Agnoleta: ‘angioletta’. Diminutivo di «àgnolo». Presente nelle Rime di Sgareggio anche in 27.107, 68.100.

20 Archeto: ‘archetto’, legno flessibile piegato ad arco con un filo teso alle estremità, da collocare su un ramo per catturare gli uccelli.

23 Granieggi: diminutivo plurale di «granelo». ‘Granaglia’, ‘grano’.

27 Zenìa: ‘genia’, ‘stirpe’ e spreg. ‘combriccola’, ‘accozzaglia’. «Te pàrela mo zanza / a morir in tanta

zania» (Bet. C I 1082); «Ampò te sè an ti / se g’è stò zenia asè raversa» (Bet. C V 321); «Ampò te sè pur

an ti / se ’l g’è stò zenia reversa!» (Bet. M V 311); «a’ vuogia star a frappare, né a dire, né a sbagiafare de la vostra schiata, zenia e naration» (I Orat. M 22, V 36 V 1636 23); «Mo no g’è la pezor zenia de Romagnuoli» (I Orat. A 21, M 22, V 36 V 1636 23); «che ghe vegne la sitta a tal zenia / de poltrone e poltron» (Rime I 37.41 [MEN.]); «e sì ghe va d’agno zenia / a ca’ soa, com gi anesse all’ostaria» (Rime II 7.31 [MEN.]); «O maleta zenia / nassù in sto mondo se lomè per fare / a contrario de quel» (25.42). 36 Pontelo: ‘puntello’. Questo sostantivo si trova in Vacc. Prol. II, ed è frequente nelle Rime di Forzatè (24.203, 28.17, 35.99, 75.14).

47 Co è palaini: la stessa similitudine si trova in 35.19: «el no gh’in manca gniente / tanto xelo informò co è un paladin».

11

Sonagieto de Beggio

A’ g’he butò i penieggi in t’un cain 1 caro Sgareggio, e sì vuo lagar stare

de fruarme i cervieggi a spiegazzare,

tanto ch’a’ vegne a farte un bel inchin. 4

Chialò no g’he boaro o cettain, puovera Pava, che s’alda cantare; daschè ti no se t’alde a smergolare

i no priesia sto mondo un bagatin. 8

Frelo, quando in la vila de chialò sti boari me disse: «Te no sé

Beggio? Mo ’l to Sgareggio xe amalò»,

a’ dissi in zenocchion: «La gran bontè 12 de Dio no vuogie tuorlo de chialò,

e ne scampe da tanta scuritè».

[1-8: Ho buttato i pennelli in un catino, caro Sgareggio, e voglio lasciar stare di consumarmi il cervello a scarabocchiare tanto, che vengo a farti un bell’inchino. Qui non c’è bovaro o cittadino, povera Padova, che si oda cantare. Dacché non ti si sente cantare, questo mondo non viene valutato un bagattino. 9-14: Fratello, quando nella villa di questi bovari mi dissero: «Non lo sai Beggio? Adesso il tuo Sgareggio è ammalato», io dissi in ginocchio: «La gran bontà di Dio non voglia

E de cuore a’ preghiè,

e così tuti, messier Gieson Dio, 16

che l’ha vogiù, que te supi guario.

Fa’ mo, che da qua in drio

s’alda quî tuò sonagi e quî strambuoti

che dà la ose a i nuostri sigoluoti. 20

Quî tuò pegoraruoti

sì gran boari e buoni cantarini, che sta là da Vicenza in t’i confini,

te fa tri bieggi inchini, 24

mi un, ca quatro. A’ te vogiòn pregare che tal fià te ne vuogi alturiare,

perché, s’te aniessi a stare

assè fuora de Pava, a’ provessan 28

che marturio è la fame, è bramar pan,

ché, co ’l to ben soran

s’alde longo la Brenta a sgrongolare,

a’ seòn bieggi e passù senza magnare. 32

[15-24: E di cuore pregai, e così tutti, Messer Gesù Dio, che ha voluto che tu fossi guarito. Fai sì che da qua in avanti, si sentano quei tuoi sonetti e strambotti che danno voce ai nostri pifferi. Quei tuoi pecorari, così gran bovari e bravi canterini, che stanno presso Vicenza, sui confini, ti fanno tre begli inchini, 25-32: io uno, e che sono quattro. Ti vogliamo pregare, che talvolta tu ci voglia aiutare: perché se andassi a stare assai fuori da Padova, proveremmo che martirio è la

Quî monte, on ti è anò a stare per tuorte del piasere qualche dì, me par ch’a’ i vega zà tuti fiorì.

O aventurè ch’ a’ sì, 36

monte beniti, daschè del Pavan g’arì tirò là su du gran sletran.

Teto Luolio ortolan

fo el primo: adesso a’ g’hi tirò là su 40 el pi gran cantaor, ch’abian mè abù.

Frelo, s’a’ son insù

fuora del trozo,’l è ch’a’ n’he mè ben

lomè co te menzono veramen. 44

Co t’he ingrassò ’l teren

in quele bande, caro Tandarelo, mandame a mi qualche versuro belo.

[33-38: Quei monti dove sei andato a stare per prenderti del piacere qualche giorno, mi pare di vederli già tutti fioriti. O fortunati che siete, monti benedetti dacché dal padovano avete attirato lassù due grandi letterati. 39-44: Tito Livio (?), l’ortolano fu il primo; adesso avete elevato il più grande cantore che abbiamo mai avuto. Fratello, se sono uscito, fuori dal sentiero è che mai non ho

Metro: Sonetto caudato. Schema: ABBA ABBA CDC DCD dEE

Altro scambio di rime tra Beggio e Sgareggio. Tema della poesia è la malattia di Sgareggio, che viene comunicata all’amico Beggio da altri bovari. Sgareggio è malato e non è più in grado di cantare, così l’amico, non può fare altro che pregare per la sua guarigione, preghiera ascoltata da Dio, che ha fatto sì che l’autore pavano sia guarito. L’aver sentito la mancanza del canto di Sgareggio rende il suo suono ancor più bello ed atteso, e ad inchinarsi al poeta non è solo Beggio, ma anche i tre grandi boari e bravi canterini che stanno a Vicenza (allusione a Magagnò, Menon e Begotto). Dal verso 25 compare il tema della fame, della mancanza di cibo dei vicentini, tema non solo poetico, se si pensa che il Magagnò accettò di buon grado il soprannome di Magradanza datogli da Alvise Bembo a causa della sua palese povertà (si veda PACCAGNELLA 2011, p. 19; BANDINI, p. 334 e MILANI 1983b, p. 234). Questo tema dà lo spunto per la lode ad un autore pavano non menzionato, ma definito dopo «Teto Luolio», chiamato l’ortolano il più gran cantore mai avuto a Padova. «Teto Luolio» potrebbe essere Tito Livio, denominato con l’epiteto di “ortolano” poiché anche al grande letterato latino vengono fatti indossare i panni di «bovaro», ma potrebbe anche trattarsi di un altro poeta pavano, non identificato da Marisa Milani (in MILANI 1983b), il quale viene menzionato solo

con la lomenagia di Ortolan nel sonetto numero 48 delle Rime. Si pensi inoltre al prologo del Betia, dove il nome del poeta latino viene chiamato semplicemente «Teto Livio» («Teto Livio, quel gran sletran che fé tante stuorie?», Betia, Prologo pavano, RUZANTE 155), senza deformare eccessivamente il nome.

Il secondo «gran sletran» ora assunto il monte Parnaso potrebbe essere Agostino Rava (Menon), morto nel settembre 1583 (MILANI 1983b, p. 236), anche se appare curioso che solo pochi versi prima abbia accennato ai cantori vicentini senza fare alcun riferimento all’evento luttuoso. Inoltre la lettera dedicatoria posta all’inizio dell’opera riporta la data di maggio 1583 ed afferma che i testi che compongono questa raccolta di rime sono stati composti anni prima di quello della data di stampa; ciò spinge a pensare che ad essere metaforicamente morto sia Sgareggio stesso, recatosi sui monti per prendersi «del piasere qualche dì».

desinenziali ai versi 2 e 6 («stare», «cantare»), 25, 26, 27 («pregare», «alturire», «stare») e 31, 32, 33 («sgrongolare», «magnare», «stare»); una rima inclusiva ai vv. 40, 42 («su», «insu»); e paronomastica la rima «dì», «sì» (34, 36). Da segnalare l’anafora nei vv. 14, 15, 16 la quale sottolinea la concitazione nella speranza della guarigione di Sgareggio.

1 Penieggi: ‘pennelli’. Cfr: «El to ovrar de penieggi, o Tandarelo, / si xe un dar vita a i muorti» (56.12) e «Sgareggio a Magagnò. S’te ovrassi mè, Maganza, el to penelo / e s’te penzissi mè de bel colore / e s’te te fiessi a Vicenza» (28.1); «Viva quel [che] con l’arco e col penelo / restagna el Bachiggion, la Brenta, el Po» (51.12); «Lagon zanzar sta zente, / Magagnò, co la pena e col penelo / sboron le fantasì de sto cervelo» (69.136).

5 Cettain: ‘cittadino’. Lo si riscontra anche in «i cittaini ne magna e ne deleza nu puoveri containi da le ville» (I Orat. A 1); «no gh’è re, duco, conte o cetain / che done pi a negun per ben cantare» (12.7); «Te dì esser cetain? Doh, poereto, / ièto stravaliò?» (20.145); «Canzon, s’t’albierghi in mezo cetaini, / no vuòto che i boari anche te senta?» (32.91).

6 Puovera Pava: ‘povera Padova’, anche in 26.31: «Mo ’l no s’in vêa canton / de la puovera Pava esser in pe, / que ’l s’arvia fina i muri da piatè!».

7 Dasché: ‘giacché’, solo in BORTOLAN 87, con il significato ‘dopoché’, non del tutto adatto al nostro contesto.

8 Priesia sto mondo un bagatin: ‘non valere un bagatin’ significa ‘non valere una buccia di porro’ in PATRIARCHI. «Apresiare»: nel senso di attribuire un valore, specialmente economico. Il bagattino, è moneta che vale un dodicesimo di un soldo; genericamente, si intende una moneta di scarso valore. Vedi 12.6: «le vertù no s’apriesia un bagatin».

12 Zenocchion: forma che deriva «zenochio», ‘ginocchio’. Formazione avverbiale del tipo ‘gattoni’ 14 Scuritè: ‘oscurità’, termine usato prevalentemente da Sgareggio nel panorama della letteratura pavana: «Adesso quel bel tempo xe passò, / sto mondo è pin de nibia e scuritè, / pin d’ingani, traitore, orbo, amalò» (12.13); «Quando, parona, la massara bela / del Sole arve i balcon / e chiama e porze i drapi al so paron / azzò que ’l salte su la so barela, / a’ vuò mo dir in quelo / che la ghe dà el capelo, / e que con le suò drezze inarzentè / la cazza via da nu la scuritè. (27.8).

19 Strambuoti: componimento popolare di poesia satirica o d’amore in ottava rima, ‘strambotto’, spesso deformato parodicamente in «stramuorti». Cfr: «Che canzon cantavistu? Stramotti o barzellette?» - «Stramuorti messier no» (Anc. A II 50); «Mi, fin ch’a’ vivo, a’ me strossio i cervieggi / in far qualche

strambotto o sonagietto» (Rime II 43.6 [MAG.]); «a’ vuò cazzar la piva in te ’l carniero / e no far pi

strambuotti né canzon» (Rime III 32.6 [MAG.]); «’n Imperaore, / ch’iera an el cantaore / e si intendea de far qualche strambotto» (Rime III 32.30 [MAG.]); «e de sporco, usuraro e spernugiò / deventasse in t’un tartto tutto homan, / e polio e piasevole e slibrale, / e cantasse strambuoti e maregale?» (Rime IV 58.88 [MAG.]); «e fa’ tal botta che ’l to sigolotto / no laghe in le scugie el so Begotto, / ch’un to dolce

strambotto / me pò far ricco» (Rime IV 108.21[BEG.]); «Rota è la piva, e sì a’ no vuò cantare / mè pi, co solea fare, perqué puochi / sì gh’intendea o suochi i miè strambuoti» (32.3).

20 Sigoluoti: ‘pifferi’, altrove «sogoluoti» o «sugoluoti». I «sigoluoti» sono ricordati anche in un sonetto caudato edito dal Lovarini in LOVARINI 1984 (testo numero 10, v. 16), dove sono pure elencati altri strumenti, senza che tuttavia si precisino dei particolari atti a identificarli con certezza.

20 Pegoraruoti: ‘pastori’, da «pegoraro», si trova nelle Rime di Forzatè anche in 12.21 («Se quî pegoraruoti / fosse a Pava anca iggi i bieggi inchini, / ghe struferae se ben gi è cantarini»).

31 Sgrongolare: verbo che si attesta solo qui, dal significato incerto, probabilmente con suono onomatopeico.

35 Fiorì: da «fiorire», ‘germogliare’, ‘fiorire’, qui in senso metaforico. Sgareggio utilizza spesso questo verbo. Cfr: «inchina i buschi m’ alde dir cossì / che, quando al mondo el me Cenzo nascì, / che ’l fen secco fiorì, / che l’hea in la cuna, e l’ara rasa e sutta / de ruose e ziggi se converse tutta» (RimeII41.51 [MAG.]);«ella co i suò uocchi no ghe fesse, / quando l’acqua è agiazzà, / presto nasire e an fiorire / agno somenza» (Rime III 9.213 [MAG.]); «ma i prè fiorisse e rebutta i pianton» (Rime III 26.8 [MAG.]); «dasché vu fè fiorire / l’erbe, e un toso a’ no ’l saì far nascire!» (19.22); «quando el me sole in l’alba si

fioriva / a’ ghe metea de fiò» (24.19); «Mo al to dolce cantar, que tuol l’anore, / Sgareggio, al pi bel

mazo, l’invernà / se vé a fiorire e farse nuovo istà / e furtar agno consa pi de cuore» (58.7); «Canta gi osieggi e se vé d’agno lò / gi erbore zermugiare, e scambiar pelo / le biestie, e intorgolarse agno fossò, / e

fiorir prè al maor caldo e al zielo, / e i munti e buschi verdezare» (58.12); «Co quel caro musin, ch’al

maor giazzo / xe bon da far fiorire / quanti fiore d’avril pò mè nascire, / la se volze e me guarda in lo mostazzo» (68.50); «qual pena o qual inchiostro / scriverà ’l lome vostro, / azzò ve vega chi g’ha da vegnire / pi verde e bela in carta agn’or fiorire?» (68.216); «O dio, donv’è quel muso? onv’è quel sen, / on nascia l’invernà moschete e ruose? / O man snisie liose, / peìti a chi fioria soto el teren» (70.58). 45 Ingrassò: ‘ingrassare’, ‘concimare’, ‘fertilizzare’. Cfr: «Tìndilo a ingrassare, / dasché sì ben ’l ha scomenzò a frutare» (12.46).

12

Resposta

Beggio, se ’l trar de banda el spegazzare 1 e fare a questo e quest’altro un bel inchin

impisse de menestra el to cain,

quî penieggi sarae da lagar stare. 4

Frelo, ’l è andò in despersia el smergolare, le vertù no s’apresia un bagatin,

no gh’è re, duca, conte o cetain

che done pi a negun per ben cantare. 8

El fo zà tempo tanta gran bontè, che co un versuro assè mal sdaldurò s’aea da i grande, in cambio una citè.

Adesso quel bel tempo xe passò, 12

sto mondo è pin de nibia e scuritè pin d’ingani, traitore, orbo, amalò,

onve tuti chialò

dessan pregare messier Gieson Dio 16

che ’l fesse doentar bon da qua in drio,

[1-8: Beggio, se il mettere da parte il scarabocchiare ed il fare a questo o a quest’altro un bell’inchino riempisse di minestra il tuo catino, quei pennelli sarebbero da lasciar stare. Fratello, è andato in disgrazia il cantare, le virtù non si apprezzano un bagattino, non c’è re, duca, conte o cittadino che doni più a qualcuno per il bel cantare. 9-17: Ci fu un tempo tanta gran bontà, che con un versetto assai mal sbozzato, si aveva dai potenti in cambio una città. Adesso quel bel tempo è

azzò que agnon guario

da tante infirmitè co i sigoluoti

fesse aldir per lo mondo d’i strambuoti. 20

Se quî pegoraruoti

fosse a Pava anca iggi i bieggi inchini ghe struferae, se ben gi è cantarini;

Ma quî suò Vesentini 24

co i alde a dir Menon no pò cantare e Magagnò vér Pava vuol trucare,

i gi va alturiare,

i ghe manda le legne, el vin, el pan, 28 zò que i no vegne a stare in sul Pavan,

tanto, che ’l so soran

torna e Maganza, Menon e Begoto

tuti tri a un dà ose al sigoloto. 32

Chi no g’ha mo biscoto

s’i no se ’l guagna, e far co te fè ti, par ch’i viersi no sea così fiorì.

[18-27: acciocché ognuno guarito da tanti mali, con gli zufoli faccia sentire per il mondo degli strambotti. Se quei pecorari fossero a Padova anche loro, i begli inchini li stuferebbero, sebbene sono canterini. Ma quei loro vicentini quando sentono dire che Menon non può cantare, e Magagnò verso Padova vuole correre via, li vanno ad aiutare: 28-35: gli mandano la legna, il vino, il pane, affinché