In s’un bel prò cargò d’erbe e de fiore 1 cantava Beggio in mezo la rosà,
che ’l bel occhio del ciel n’iera levà
ancora a dare al mondo el so spiandore. 4
A’ sentî, che ’l laldava un certo Amore, puto orbo nù, co l’ale al cul tacà, co un arco in man, che sta sempre tirà,
e cierti vereton de du colore. 8
Mi, ch’iera soco, e ch’a’ no m’eva adò de chi ’l cantasse, a’ me sgrignava d’elo che ’l stesse a sbrefelarse si lialò.
Onve, quando ’l me vete: «O Tandarelo» 12 -el disse co un sospiero desperò-
«No rir, Sgareggio, oimè no smatar, frelo,
[1-8: Su un bel prato pieno di erbe e di fiori, cantava Beggio in mezzo alla rugiada, che il bell’occhio del cielo non si era ancora levato per dare al mondo il suo splendore. Io sentii che lodava un certo Amore: fanciullo cieco, nudo con le ali attaccate al culo, con un arco in mano, che sta sempre a tirare e certe frecce di due colori. 9-14: Io che ero sciocco e non mi ero accorto di chi cantasse, ridevo di lui che stava a struggersi così là. Onde, quando mi vide: «O Tandarello», disse
que, se sto giontoncelo
che m’ha forò el magon, te chiapa ti, 16 in vita toa te no grignerè pi».
A’ ghe respusi mi:
«Chi cancaro è questù c’ha sì poere
de far rire o sgnicare al so parere? 20
An, se ’l no ghe pò vêre,
co muò chiàpelo in coste a questo e quelo? Se ’l è un putin, que no ghe deto a elo?
Se ’l svola, èlo un’oselo? 24
Te dì po que ’l è nù, mo n’ièto un sterno? No muorelo de ferdo co xe inverno?
Te dì ’l è un fuogo aterno.
Mo se ’l è fuogo e che ’l brusasse agn’ora, 28 no seristo ti in cendere, e in mal’ora?
Te dì que ’l trà d’agn’ora.
On catel tante frezze e tanti scati,
se ’l no g’ha bece da comprargi fati? 32
[15-27: che se questo mascalzone che mi ha forato lo stomaco prende anche te, in vita tua non riderai più». Io gli risposi: «Chi canchero è costui che ha un potere così grande da far ridere o piangere a suo piacere? Eh, se non può vedere, come colpisce nelle costole a questo e quello? Se è un bambino, perché non lo meni? Se vola, è un uccello? Tu dici poi che è nudo, ma non hai uno straccio? Non muore di freddo quando è inverno? Tu dici che è un fuoco eterno. 28-32: Ma se è fuoco, e che bruciasse sempre, non saresti in cenere e in malora? Tu dici che tira sempre. Da dove prende tante
An mo chi xe quî mati,
che co i lo vé con l’arco per tirare,
che i no s’asconde o se mete a muzzare?»
Elo co un sospirare 36
disse: «Sgareggio, el g’ha na cendalina su gi vuocchi fata tuta de sea fina;
ma, frelo, la stravina.
Fa conto gi è i suò occhiale quî bindieggi. 40 E po crito, che ’l sea co xe i putieggi?
’L ola co fa gi osieggi,
el brusa e quel so fuogo fa brusare
figò, bati, polmon, né fuora ’l pare. 44
Mo ’l ha po na so mare,
que ghe dà de le frezze e d’i bolzon da forar questo e st’altro in lo magon.
Che critu po, minchion, 48
che, quando che ’l vuol trar qualche vereta,
che ’l dighe a quel gramazzo: «guarda» o «aspieta»?
[33-50: E chi sono quei matti che quando lo vedono con l’arco per tirare, non si nascondono e non si mettono a scappare?» Egli sospirando disse: «Sgareggio, egli ha una benda sugli occhi fatta di seta fina, ma fratello, la trapassa, fai conto che siano i sui occhiali quelle bende. E poi credi che sia come sono i bambini? Vola, come fanno gli uccelli, brucia, e quel suo fuoco fa bruciare fegato, cuore, polmoni, né fuori traspare. Ha poi una madre che gli dà delle frecce e dei bolzoni per forare questo e quest’altro nello stomaco. Che credi poi, stupido, che quando vuole tirare qualche freccia che dica a
El zula, sta frascheta,
e po se cazza in sen da qualche tosa
in foza de garofolo o de ruosa, 52
e là crito che ’l cuosa
la zente, che ghe guarda entro a quel sen, e che ’l gi tegna arsè contugnamen?
Priegal, Sgareggio, ben 56
che se na bota el te fora el casseto, te proverè que consa è Amor maleto».
Mi, ch’a’ g’he tegnù streto,
sto faelar de Beggio bon boaro, 60
in lo magon adesso a’ ’l sento e imparo.
Oh fuogo, fuogo amaro!
Oh, Beggio, esse crezù senza provare
a le parole, a quel to sospirare! 64
Doh, vieme alturiare,
Beggio me caro, e vieme da’ conseggio que dê far con st’Amore el to Sgareggio?
[51-61: Egli allaccia, questa fraschetta, e poi si infila nel petto di qualche ragazza a foggia di garofano o di rosa, e là credi che cuocia la gente, che guarda dentro quel petto, e che continuamente li tenga arsi? Pregalo bene, Sgareggio, che se una volta ti fora il giubbetto tu proverai che cos’è Amore maledetto». Io, che ho tenuto a mente questo parlare di Beggio buon bovaro, nello stomaco adesso lo sento, e imparo. 62-67: O fuoco, fuoco amaro! O Beggio, avessi creduto senza provare alle parole, quel tuo sospirare! Deh, vienimi ad aiutare, Beggio mio caro, e vienimi a consigliare, che
Metro: Sonetto caudato con rime ABBA ABBA CDC CDC cEE
Sonetto scritto da Sgareggio per Beggio. Tema principale di questo sonetto, che si potrebbe definire narrativo, in quanto appare come una vera e propria descrizione di un evento in versi, è l’Amore, personificato nella classica figura mitologica di Cupido. Il componimento rimanda alla mente la discussione su Amore tra Zilio, Nale, Barba Scati e lo scettico Bazzarello nel primo atto della Betia.
Sgareggio, nelle due quartine, afferma di avere incontrato l’amico Beggio, disperato, in un prato (come Nale incontra Zilio che piange e si dispera seduta a terra) ancor prima dell’arrivo del sole, mentre lodava «un certo Amore» fanciullo alato, che con i suoi dardi fa innamorare gli esseri mortali (la seconda quartina è interamente dedicata alla descrizione di Amore). Dalla prima terzina in avanti, l’autore, con le parole «Mi, ch’iera soco, e ch’a’ no m’eva adò de chi ’l cantasse» (vv. 9, 10), che ci fanno intendere che l’evento che lui narra è accaduta nel passato ed è precedente ad un suo stato attuale (che si configurerà con il suo essere innamorato), prosegue il sonetto narrando un dialogo avuto con Beggio. L’amico viene inizialmente deriso da Sgareggio, per il fatto di essersi fatto colpire da un fanciullo nudo e cieco, il poeta, infatti non si capacita di come sia possibile che un giovincello in quelle condizioni riesca a provocare tanti effetti su un uomo, ed incalza Beggio con delle interrogazioni di carattere logico sul dio dell’Amore, che come da tradizione, non conosce le regole della razionalità. Il sonetto si conclude con una sorta di rovesciamento della situazione. Sgareggio è pentito dell’aver deriso l’amico e di non aver creduto alle sue parole, è stato colpito dal sentimento amoroso, e chiama in aiuto Beggio per un consiglio (figura dell’anacenosi) sul da farsi contro gli effetti dell’Amore.
Il sonetto può essere diviso in più sezioni. La prima sezione che va dal v. 1 al v. 17, si può definire introduttiva, è infatti la presentazione della situazione che si mostra agli occhi dell’autore, il quale vede l’amico sofferente e lo deride. Una seconda sezione si può delineare dal v. 18 al v. 36, cioè le parole che Sgareggio rivolge a Beggio: in questa parte si ritrovano le insistenti domande (ben nove) da parte dell’autore, nelle quali l’incalzare dei toni è sottolineato dalla presenza di due anafore («se» ai vv. 23, 24 e «che» ai vv. 34, 35) e la rima identica dei versi 28, 29, 30, che per quanto concerne i vv.
58, dove si ritrova la risposta di Beggio a Sgareggio. Analogamente alla sezione di testo precedente il tono è piuttosto concitato, e ciò lo si avvince anche dalle figure retoriche come l’anafora dei versi 48, 49, 50; le domande retoriche dei vv. 41, 50 e 55; la ripetizione del verbo «brusare» all’interno del v. 43; l’enumerazione per asindeto al v. 44.
Dal verso 59 prende il via l’ultima parte del sonetto. Sgareggio si trova ora in una situazione di disperazione a causa dell’amore, afflizione che traspare anche dalla struttura dei versi, dove le invocazioni al «fuogo amaro» e a «Beggio» (v. 63, 64) sono amplificate da una anafora, e si noti che la parola «Beggio» si ritrova in tutte i secondi versi delle ultime tre terzine, ed in particolare al v. 66 costituisce una rima interna. Da segnalare inoltre le rime paranomastiche «fati», «mati» (vv. 32 e 33), «pare», «mare» (vv. 44, 45), «ruosa», «cuosa» (vv. 53, 54), «sen», «ben» (vv. 55, 57); le rime suffissali dei vv. 40, 41 e 42 («bindieggi», «puntieggi», «osieggi»); le rime desinenziali «tacà», «tirà» (6, 7), «tirare», «muzzare», «sospirare» (34, 35, 36), «brusare», «pare» (43, 44), «provare», «sospirare», «alturiare» (63, 64, 65).
2 Rosà: ‘rugiada’, ma anche ‘addiaccio’. «Né le vache fa mè tanta late in le citè con le fa de fuora a la
roxà, a la salbegura?» (Bet. C Prol. ven. 1); «No fa pi late una vaca de fuora a la rosà, a la salbegura, ca
int’una citè?» (Mosch. M Prol. 10); «E con l’alba de rosata / s’in lieva el bel fantino / per conquistare la so manza / con battagia, que no è né de lanza / né de cortello» (Vacc. V 134); «E ti, Doviga, no star pi in senton, / ma tuo’ la secchia e va’ parecchia / la colaora e l’impresora, / e se zonchià fo mè asià / con tutte quante le suò gremesì, / con le tuò man, che par verasiamen / puori frischi e lavè, / che quel ch’avanza fuora del terren / par le maneghe verde che te g’he, / e el resto po dal mezo in zo / par quî deon ch’uovra el saon, / guccia e deale sì ben che i vale / pi smozzanighe che n’ha pili un bo / àsiaghe questa e fa’ che incerca via / el ghe supie atachè / purassè ruose, ma che le no sia / de quelle smorte e massa spampanè, / ma de quî cierti buoccoli averti, / che g’ha per drentogozze co è ariento, / e perqué i dure, indusia pure / a sunargi doman con la rosà» (Rime II [MAG.] 2.200); «Perqué el se vé a straluser quî tuò dente / con luse la rosà / per entro l’herba fresca al sol nascente» (Rime III [MAG.] 5.68); «Mo far sprecisamen con fa le fiore, / che galde el sole e galde la rosà / e cerca mandar fuora un bon aldore» (Rime III [MAG.] 11.15); «Gné manco a’ te dirè que la rosà, / che quela note drento / caì in Vegniesia, fosse tuta ariento / de quel pi fin, che mè sea stò catà, / e che mi poereto / sgolasse ivelò dreto / ala so ca’ criando in festa e inriso: / ’l è nassù tuto ’l bel del paraiso!» (27.121); «No è d’avrile in t’un prà tanti biè fiore, / né in tante goce caze la
rosà, / co tante bote al dì cigo piatà!» (53.2).
8 Vereton: dardo lanciato dalla balestra, ‘verrettone’. Cfr: «quante lanze e a quanti vereton / pò rompere e sittare in t’un magon / la Fortuna sbecìa» (Rime I 18.2 [MAG.]); «’l par che ’l sea quel tavolazzo / donde l’Amore me trà in lo cuore / i vereton d’un par d’occhion» (Rime II 1.14 [MAG.]); «un million de
veretton / ven de ficchetto in sto me petto» (Rime III 5.31 [MAG.]); «lagal pur sittar, sto mal giotton, / che ’l no me porà pi / impire el cuore de i suò veretton / né far altre ferì» (Rime III 9.147 [MAG.]); «Tuogia la soga, el fuogo e i vereton, / che m’incatigia e brusa e ten passò!» (Rime III 81.1 [BEG.]); «Saìu an quando el sgnicca / e che l’Amor ghe ficca / tutti i suò vereton / in mezo del magon?» (Rime IV 14.45 [MAG.]); «I vereton, / che te triessi in sto magon, / tornai pure in lo scarcasso» (Rime III 27.46 [MAG.]); «con l’arco e i bolzon, / col fuogo, con la corda e i vereton» (28.32); «perché una cigala con un fiauto / de sparpanazzi fatti alla toesca / ghe aéa tratto co una vanga un vereton» (FORZ. Past. II 150). Cfr la descrizione di Amore fatta da Zilio nel primo atto della Betia: «A’ te dige che ’l è snaturale e un dio, / e sì se porta drio / l’arco e i bolzon, / e va sitando in lo magon / a questo e a quelo, / e, cum fa un oselo, / porta l’ale sempre mè. / E ha gi oci abindè / e va nu per nu», vv. 211 - 218.
9 Soco: letteralmente significa ‘pezzo di legno’. In senso figurato il sostantivo assume il significato di ‘sciocco’, ‘stupido’. Cfr: «a’ no vuò cantare / mè pi, co solea fare, perqué puochi / sì gh’intendea o suochi i miè strambuoti» (32.3).
M’eva adò: da «adarse», ‘accorgersi’, ‘rendersi conto’. Cfr: «che a’ no stason tanto chialò / che mia mare
se n’adesse del vegnir via / e che la ghe trovasse chì su la via.» (Bet. C III 635); «A’ me n’he ben adò al so faellare que la m’ha reffuò.» (Mosc. A I 23); «sbùrighe adosso da resguardo e salùala, que la no se n’adaga.» (Fior. I 1);« mo perché el no se n’adesse, no ve guardava.» (Anc. M V V 20); «e quando i se n’ha adò / gi ha tacò presto un bon tacon al buso» (69.30).
10 Sgrignava: verbo con “s-” preposta alla forma «grignare» (vedi v. 17). Il significato rimane pressochè lo stesso (“ridere”, “sghignazzare”).
11 Sbreselarse: verbo riflessivo di «sbreselare», il quale significa originariamente ‘sbriciolare’, ‘sgranocchiare’. In forma riflessiva si ritrova solo in Sgareggio, e con il significato di ‘struggersi’, ‘tormentarsi’; ‘disperarsi’. Cfr: «S’a’ l’ho cercà per tuto, / s’a’ la chiamo, s’a’ crio / sta piva ’l sa, que a’ no l’ha lagò in suto, / ma posso sbreselarme» (70.18).
14 Smatar: vedi nota 7 del primo testo.
17 Que, se sto giontoncelo / che m’ha forò el magon, te chiapa ti / in vita toa te no grignerè pi: cfr il primo atto della Betia: «E, s’te l’ ’ìssi provò / con ho provà mi, te no dirissi cossì, né speranza arissi, né mé a’ cherzarissi / de esser desliberò», vv. 65 - 70.
21 Se ’l no ghe pò vêre: Betia 721 - 724: «Mò pol far el mal drean / che, no gje vezando, / el vaghe sitando?».
22 Co muò chiàpelo in coste: cfr: «E po que volio el maor sperito de quel de l'Amore? che, co 'l se cazza in coste a qualcun, el lo fa inmaghinare e cantar tal consa che un sletran no se l'haverave pensò in mill'agni?» (Rime II Prol. 5 [MAG.]).
23 Que no ghe deto a elo?: cfr: «sto Amore, / zà que el va co la binda a tut’ore, / dê voler esser menò, / e per questo a’ m’he pensò / che ’l sea de natura d’un cotal dretamen, / perqué an ello purpiamen / no ghe vé e vol esser menò, / a voler che ’l faze el fato so» (Bet. C I 705).
32 Bece: ‘bezzo’, moneta di rame coniata a Venezia dal 1497, di valore equivalente a mezzo soldo veneto.
37 Cendalina: ‘zendado’, fettuccia di seta. PATRIARCHI: «fasciuola sottile con la quale le contadine intrecciano il crine».
40 Bindieggi: da «bindello», ‘benda’. Cfr il sonetto di Guittone Poi ch’hai veduto 9-10: «nudo, cieco, di garzonil fazione, / che già non fu ritratto en tal essenza», facente parte di un ciclo che “espone” allegoricamente un’immagine di Cupido: «Qui de’ essere la figura de l’amore pinta sì ch’el sia garzone nudo, cieco, cum due ale su le spale e cum un turcascio a la centura, entrambi di color di porpora, cum un arco en man…» (GUITTONE, p. 268). I cinque elementi che compongono il ritratto topico di Cupido sono: la cecità, la nudità, la fanciullezza, le ali e l’arco con la faretra.
49 Vereta: ‘freccia’, ‘dardo’. Cfr: «Quela bacheta fo la vereta, / la searina fo corda fina» (24.181); «La ve trà in le coraggie na veretta / in quel che la scomenza a rasonare» (Rime III 101.12 [BEG.]).
50 Gramazzo: accrescitivo di «gramo». Cfr: «O sesole me bele, / sesolon, manarini e cortelaci, / falce, zuvi, gugiè, manare e maci, / que sìo chialò, gramaci?» (25.24); «Alzanto a ste parole in elto ’l viso / e fissantome gi vuocchi in lo mostazzo / respose quel gramazzo» (70.129). già nei Proverbia quae dicuntur super natura feminarum «qe l’om qe plu le ama, plu sovençe n’è grame».
50 Zula: ‘allacciare’, ‘legare’ ed in senso figurato “imprigionare”. Cfr: «E cusì zulagiantome i lachiti / de drio d’i me nemale / a’ vago inchin ch’a’ i fremo» (27.17); «Faghe bianco el cordon / que la se zula, e bianchi anch’i stringhiti, / bianchi i tondini, e bianchi i fazzoliti» (28.55); «Puuh, gh’in fusse! A’ ghe l’he pur zulà, / sta Persa!» (FORZ. Past. V 562).
51 Sen: parte dell’abito che copre il petto. Cfr: «Mo a’ no he fatto per no ghe le dare, ché a’ le he portè chialò in sen ingroppè int’un fazzoletto» (Piov. G IV 19); «Con a’ me vête su la via al scuro con i dinari in sen, mo dige: “Gi è miegio que putte, quisti!”» (Vacc. III 156); «D’oraro na ramella / e na de palpa se cavé de sen / digando: “Dal seren / ciel de l’Impierio, on ghe xe sì bel stare, / a’ te son vegnù chì per arpasare”» (Rime II [BEG.] 38.8).
55 Contugnamen: ‘continuamente’, ‘sempre’. Frequentissimo in Magagnò: «'l lo vorave vêr
contugnamen / a galder del so vin e del so pan» (Rime II 1.3 [MAG.]);«te g'he contugnamen / vuogio el vezatto e la casa dal pan / e con cento berunci el to gaban» (Rime II 1.57 [MAG.]);«el poveretto cria
contugnamen, / perqué 'l è uso star sotto al to sen» (Rime II 4.64 [MAG.]);«el v'impirave gi uocchi del terren / che 'l agiaventa co i piè contugnamen» (Rime II 39.80 [MAG.]);«un mal nascente, / un cancaro, una lévera, un caruolo / che ne ten roseghè contugnamente» (Rime II 3.45 [MAG.]); «'l no besogna solamen pensare / de volergi impiantare / ma de bruscargi e far contugnamente / che i sea zapè» (Rime II 4.211 [MAG.]);«gi uocchi on zola Amor contugnamen» (Rime III 5.34 [MAG.]);«Così l'Amore per quel spiandore / se vé a zolare per sgraffignare / contugnamen el cuor del sen / a qualche scatturò co a' son stò mi» (Rime III 5.41 [MAG.]); «quel vin, che solamen / sotto a ste belle grotte se manten / dolce
contugnamen» (Rime III 105.45 [MAG.]).