A’ son si brustolò, Sgareggio caro, 1 e de muò cresce in su sto fogaron,
ch’a tirar te verè presto i scofon
Begio Ravan quel puovero boaro. 4
S’a’ muoro, Amore, fa ch’i buò col caro s’impiggie an iggi, e impiggia anche el cason, de muò che faghe smaravegia a ognon
tanto me fuogo turbolente, amaro. 8
El me gaban sea in pe de corsaleto co’i miè zapon tachè cima a un restelo co’l capel su, che scuse per elmeto,
e scrito ghe sea su dal Tandarelo 12
viersi, che dighe: “Vî, sto povereto per massa voler ben xe andò al bordelo”.
Da mieza note, quand’iera pi scuro, 15 al spiandor de du occhi a’ g’ho stampà
al me caro Sgareggio sto versuro.
[1-8: Sono così abbrustolito, Sgareggio caro, e ancora cresce in su questo focolare che presto vedrai tirare le cuoia, Beggio Ravan, quel povero bovaro. Se io muoio, Amore, fa che i buoi col carro, si accendano anch’essi, e accendi anche la casa, in modo che ognuno si stupisca, tanto è il mio fuoco turbolento, amaro. 9-17: Il mio gabbano sia vicino al corsaletto, con le mie zappe grandi, attaccato ad un rastrello con su il cappello, che funga da elmetto, e scritto su vi sia dal Tandarello, versi che dicano: “Vedete questo poveretto, per troppo voler bene è andato in malora”. A mezzanotte,
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Resposta
No te smaravegier, Beggio me caro, 1
s’in la panza te gh’è quel fogaròn che te brusa dal cao china i scofon,
che chi n’è inamorò, no è bon boaro. 4
He sentio dir ch’Amor va sempre in caro zolando in questo e in quel’altro cason; là ’l ponze e scota, qua ’l miega, onve ognon
prova così de dolce, qual de amaro. 8
No ghe val corazzina, o corsaleto, donde che ’l toca con quel so rostelo, né coverzerse ’l cao gnan co l’elmeto.
Te dirè ti: chi ’l sa? Mo el Tandarelo 12 che n’ha mè ben, d’onde che ’l poereto
è tanto tormentò, che ’l va al bordelo.
Seanto sentò su ’l cul del me veturo
e pensanto a la Dina, a’ g’ho piggià 16 la pena in man per farte sto versuro.
[1-8: Non ti meravigliare, Beggio mio caro, se nella pancia hai quel gran fuoco che ti brucia dalla testa ai piedi, che chi non è innamorato, non è un buon bovaro. Ho sentito dire, che Amore va sempre su un carro, volando in questo e in quel casone. Là punge e scotta, qua medica, così ognuno prova il dolce e l’amaro. 9-17: Non valgono corazza, o corsaletto dove tocca con quel suo rastrello, né coprirsi la testa neppure con l’elmetto. Tu dirai: chi lo sa? Ma il Tandarello che non ha mai pace,
Metro: sonetti con rima ABBA ABBA CDC DCD EFE.
Secondo scambio di sonetti tra Beggio e Sgareggio Tandarello. Il tema è ancora l’amore e i suoi effetti sul poeta, argomento trattato con ironia. Beggio afferma di non riuscire a vivere più a lungo, e allora si rivolge direttamente alla causa del suo malessere, l’amore, personificato, e gli chiede di far bruciare anche la casa, analogamente al suo cuore, in modo da destare meraviglia ad ognuno, mentre i suoi indumenti giaceranno a terra abbandonati e con su scritto «guardate questo poveretto che per troppo bene è andato al bordello!». L’ultima terzina descrive il momento di composizione e ribadisce la dedica allo Sgareggio, che prontamente risponde con un sonetto che è in realtà un virtuosismo di stile, poiché è composto mantenendo le stesse parole in rima utilizzate dall’amico poeta (tranne che per i versi 15 e 16), e per lo più mantenendo gli stessi vocaboli ricontestualizzati (sono presenti in entrambi i componimenti i termini come «smaravegia», e la personificazione di Amore si trova sempre nel primo verso della seconda strofa) e tema. Sgareggio afferma che Beggio non si deve meravigliare di sentirsi ardere, perché colui il quale non è innamorato, non può dirsi un buon bovaro. Nella seconda quartina vengono descritti gli effetti contrastanti che l’amore produce, e chiarisce che al sentimento amoroso non c’è alcun riparo. Segue la prima terzina con una domanda retorica: «chi lo sa?», la risposta naturalmente è: Tandarello stesso, anch’egli contaminato dall’amore. L’ultima terzina, similmente a quella del sonetto di Beggio tratteggia il momento in cui il testo è stato composto.
Equivoca la rima A ai versi 1 e 5 («caro»), ed assuonano le rime C, D: «-eto», «-elo». Da segnalare nel sonetto composto da Beggio il verso 3, «ch’a tirar te verè presto i scofon», con anastrofe e metalessi, la sinestesia «fuogo turbolente, amaro», l’allitterazione del suono /g/ al verso 6, con la reduplicazione del verbo «impiaggiare» e l’anafora di «co» ai versi 10, 11. Per quanto riguarda i versi composti da Sgareggio si noti la paronomasia del verso 15 («seanto sentò»), l’enjambement tra i versi 7 ed 8, e l’anafora di «che» ai versi 3 e 4.
2 Fogaron: accrescitivo del sostantivo «fogaro», cioè ‘focolare’. In Sgareggio si trova anche in 8.2, 27.76, 30.17, 69.5. Si segnala anche in Rime III 8.8 [MAG.]; Rime III 9.155 [MAG.];Rime IV 57.4 [MAG.].
3 Tirare i scofon, tirare su i scofon, significa ‘tirare le cuoia’, morire. 7 Faghe smaravegia: «Fare smaravegia» significa ‘stupire’.
8 Amaro: detto di fuoco, particolarmente difficile da domare, che causa molti danni. «Oh fuogo, fuogo
amaro!» (18.63).
9 Corsaleto: ‘corsaletto’, corazza leggera per il torace. Anche in Rime I 13.73 [MAG.],Rime III 31.30 [MAG.],in Sgareggio 8.9, 43.51.
10 Zapon: accrescitivo e/o dispreggiativo di «zapa».
14 Andare al bordello: andare in rovina, andare in malora; spesso usato per esmprimere disappunto nei confronti di qualcuno.
17 Versuro: termine che significa letteralmente ‘aratro’, e che si presta anche ad un gioco di parole: ‘aratro’, ‘verso’.
7 Miega: da «miegare/medegare/meegare/megare». La stampa riporta «miaga».
9 Corazzina: Armatura del busto che si usava anticamente, piccola corazza. Cfr: «con le so smagiarole e
corazine / e archi e celaine» (Bet. C IV 63); «con le smagie e coracine / e con archi e celaine» (Bet. M IV
62); «i g’haea una corazzina indosso e una spagnuola al lò» (Mosch. A IV 2); «A’ sento muò sgrintolare na corazzina» (Mosch. A IV 23); «le celaine e corazzine / no s’aven col ballar, mo messier no» (Rime II 51.151 [CHIAV.]);«ho vogiù tocar de quiggi che, co i g’ha na bona corazzina indosso, i se mete pi ontiera a prigolo de le spontonè» (1.1); «Che volìo star a dir che le gazzuole / porta la corazina?» (FORZ. Past. II 477).
15 Veturo: grande tino in cui si pigia l’uva. «E se l’aosto, con se fa el mosto, / te t’insaccassi e an ti folassi / qualche veturo qu’è mal mauro, / gran serae quel che no fosse inmelò?» (Rime III 5.145 [MAG.]); «né manco a ’n buso d’ave, né a na bota, / a ’n vetturo, a ’n tinazzo, né a na tina» (Rime IV 58.152 [MAG.]); «E vu, grami veturi e ropegare, / a’ sì muè in saline e pertegare» (25.34); «co è un caro senza rue, co xe un versuro / senza gomiero o senza chiò un veturo» (46.35).