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Al so caro Paron el Carissimo Signor Catarin Zen.

Seanto vegnù l’altro diazzo da cavar un pezzo de fossà stanco e suò, e vogianto muarme, a’ no catiè la femena a ca’, tanto que a’ scugnî fregolarme da me posta, e anare a la cassa per tuor de man una camisa. In lo cavarla fuora, a’ sparpagnié no so que scartabieggi per tera, e togantoggi in man per vêr zò que i disea, a’ catié sonagieti e canzon, e altre tatare, que a’ fié a la V.S. de vu quando a’ ieri a Chioza mierito Poestò; e così dito e fato me vene tanto piteto de far che tuti cognoscesse quanto a’ ve son serviore ubrigò, che senza pensarghe su a’ g’ho vogiù penzergi fuora. A’ so mo que no ghe mancherà zente che dirà che queste no xe fiabe da mandar a un vostro pare, e que ’l è pi i falon que ghe xe entro che le bone parole, e che no g’ho tegnù regola (co dixe sti pulitan) de grafia o siintia. Mi mo a’ ghe responderè a sti rabiusi che vu farì co fé quel Imperaore che ghe vene donò un ravo, che no ’l guardè al presente, ma a la bona volontè de quel puovero vilan. Che ’l sea mo pi i falon che le bone parole, cognossanto tuti chi è Sgareggio, ghe serà purassè que me scuserà ch’a’ g’abia falò la pata in lo scrivere; a’ ghe responderè que no se caté mè negun da le vile, che guardasse a ste cagarì fiorentinesche, e scrivanto fesse "frelo" con du "l", "mato" con du "t" e "tera" con du "r", perqué a’ no saon ste recete. Mi mo con tute ste conse ho vogiù tocar de quiggi che, co i g’ha na bona corazzina indosso, i se mete pi ontiera a prigolo de le spontonè. A’ g’ho tolto la V.S. de vu per ruela, e sì me tegnirè defendù soto ’l vostro lome, tetame po chi vuole. Se sto me arcolto mo, Paron caro, foesse stò tardivo, dè la colpa al seco de le mie torbolation, che ’l ha tegnù tirò in drio. E se ben da quel tempo in qua xe intravegnù conse stragne, e a la roessa da quel che a’ ve scrivea alora, fè conto de aerle abie zà assè, che così no ve parerà stragno. In sta me salata mo, Segnore, per farve pi peteto a’ g’ho metù entro an de l’erba somenà per far piatanza a la me cara morosa la Dina Soleta, e altre smissianze, perqué ’l radichio solo ve arae stufò. Cetè tonca sto puovero presente, e metìlo a pe de quel cuore che zà tanto a’ e he donò. Stè san, ch’a’ priego Dio che ve daghe quel ben ch’a’ vorae aer mi. Da Calcinara, el mese de i aseni, del mile e la mità de mile e vintitrì pi de sessanta. De la V.S. carissima de vu serviore Sgareggio Tandarello.

[Al suo caro padrone, il carissimo signor Caterino Zen. Essendo venuto l’altroieri dallo scavare un pezzo di fossato stanco e sudato, e volendo cambiarmi, non trovai la donna a casa, tanto che dovetti sfregarmi da solo, e andare alla cassa per prendere una camicia. Nel toglierla fuori sparpagliai non so che foglietti per terra, e prendendoli in mano per vedere ciò che dicevano, trovai sonetti e canzoni e altre bazzecole, che feci per la Signoria Vostra quando eravate a Chioggia emerito Podestà; e così detto e fatto mi venne tanto desiderio che tutti conoscessero quanto vi sono servitore obbligato, che senza pensarci su ho voluto spingerli fuori. So che adesso non mancherà gente che dirà che queste non sono storie da mandare a un vostro pari, e che sono più gli errori che ci sono dentro che le buone parole, e che non ho rispettato una norma (come dicono questi napoletani) di grafia o scienza. Ma risponderò a questi rabbiosi, che voi farete come fece quell’imperatore a cui venne donata una rapa, che non guardò al presente, ma alla buona volontà di quel povero villano. Che siano poi di più le fandonie che le buone parole, conoscendo tutti chi è Sgareggio, ci sarà anche chi mi scuserà se avrò sbagliato nello scrivere; gli risponderò che non si è mai trovato nessuno proveniente dalle ville che guardasse a questa sciocchezze fiorentinesche, e scrivendo facesse “frelo” con due “l”, “mato” con due “t”, e “tera” con du “r”, perché non conosciamo questi accorgimenti. Ma io con tutte queste cose ho voluto trattare di quelli che, quando hanno una buona corazzina addosso, si mettono più volentieri a rischio delle spuntonate. Io ho preso la Signoria Vostra per scudo, e così mi terrete difeso sotto il vostro nome, mi dia noia poi chi vuole. Se questo mio questo raccolto, padrone caro, fosse stato tardivo, date la colpa al sacco delle mie tribolazioni, che l’ha tenuto tirato indietro. E sebbene da quel tempo in qua sono capitate cose strane, e al contrario di quello che vi scrivevo allora, fate conto di averle avute già assai, che così non vi parerà strano. In questa mia insalata, signore, per farvi maggiore appetito, vi ho messo anche dell’erba seminata per fare pietanza alla mia cara morosa Dina civetta, e altre mescolanze, perché il radicchio solo vi avrebbe stufato. Accettate dunque questo povero dono, e mettetelo accanto a quel cuore che già da tanto vi ho donato. State sano, che pregherò Dio che vi dia quel bene che vorrei avere io.

Da Calcinara, il mese degli asini, del mille e la metà del mille, e ventitré più di sessanta. Per la V.S. carissima dal vostro servitore Sgareggio Tandarello.]

Lettera dedicatoria a Caterino Zen, protettore di Sgareggio Tandarello, datata maggio 1583, la quale introduce il lettore all’opera Delle rime de Sgareggio Tandarelo da

Calcinara in lingua rustica padoana.

Il poeta apre il suo scritto con un espediente narrativo nel quale racconta di come egli sia venuto nuovamente in contatto con testi da lui scritti in anni precedenti ed ora di seguito pubblicati. Sgareggio si presenta da subito nelle vesti di bovaro, e nello specifico di quelle di un contadino che, tornato a casa dopo esseri recato al lavoro nei campi, e volendosi cambiare d’abito, non trovando la moglie a casa, si reca da solo presso il cassone alla ricerca di una camicia. Nel prendere l’indumento, cadono a terra dei fogli i quali contengono sonetti e canzoni scritte, afferma Sgareggio, «quando a’ ieri a Chioza mierito Poestò» (dal 19 giugno 1575 al dicembre 1576), e per mostrare quanto sia stato e sia obbligato nei confronti di Caterino Zen, pensa di stampare questi scritti. In seguito Sgareggio previene eventuali critiche che a suo parere gli possono essere mosse (topos delle dediche). Le accuse che gli possono essere rivolte, sostiene il poeta, sono principalmente tre: le primi due riguardano gli argomenti trattati, mentre la terza possibile critica concerne lo stile. Sgareggio teme che i testi delle Rime siano ritenuti da alcuni non degni di essere presentati ad una figura nobile come quella di Caterino Zen, inoltre egli paventa che la sua opera sia accusata di contenere più fandonie che «bone parole», essendo molti dei componimenti giocosi. Altra preoccupazione del poeta è di essere imputato del fatto di non aver seguito alcuna norma linguistica inerente grafia o sintassi, e di aver poetato in pavano anziché in fiorentino.

Sgareggio in questa lettera introduttiva risponde preventivamente a queste possibili accuse. Per quanto riguarda gli argomenti da lui trattati, egli afferma che Caterino Zen li accoglierà similmente a come fece un imperatore al quale venne donata una rapa, che guardò non al valore del dono, ma al gesto del villano, inoltre tutti coloro i quali sanno chi è Sgareggio, conoscendolo, lo perdoneranno se nella raccolta delle sue rime, quelle di argomento scherzoso o fantasioso superano quelle di argomento serio. Prosegue altresì il poeta affermando che da dei contadini soliti a frequentare le campagne, come lui si presenta, non ci si può aspettare che si adeguino alle norme della lingua fiorentina. Analogamente a coloro i quali hanno una buona corazza addosso e per questo si mettono volentieri in balia dei colpi, così Sgareggio affronterà ogni giudizio senza

timore, essendo Caterino Zen, il suo scudo difensivo (ancora un topos per quanto riguarda le dediche).

Il poeta prosegue la sua lettera dedicatoria giustificando il ritardo della pubblicazione degli scritti (che come aveva affermato in precedenza sono stati composti tra il 1575 ed il 1576, ad eccezione probabilmente del sonetto 69, nel quale si fa riferimento ad una aurora boreale apparsa nel 1580), sostenendo che questa attesa (si noti la metafora contadinesca del «arcolto tardivo» per indicare il risultato del suo lavoro) è stata una conseguenza delle sue tribolazioni, e se dal momento della composizione a quello attuale sono intervenute delle vicende che hanno cambiato o rovesciato i dati che si riscontrano nei testi, Sgareggio prega il suo signore di fingere di avere avuto i componimenti già da tempo, in modo che nulla sembri anomalo.

Il Tandarello inoltre vuole giustificare e comunicare al lettore, oltre a Catreino Zen, che all’interno della raccolta di rime, non si troveranno solo testi riguardanti un unico argomento, ma conformemente ad una insalata, che è più appetitosa se mista, Sgareggio ha inserito, in aggiunta ai testi indirizzati allo Zen, anche poesie di argomento amoroso dedicate alla sua amata Dina Civetta e «altre smissianze» (il riferimento è alle traduzioni di Petrarca, di Ariosto e ai componimenti scambiati con altri pavani).

Infine il poeta si congeda chiedendo al suo protettore di accettare questa raccolta di poesie in dono (argomento topico), come già da tempo gli ha donato il suo cuore, e gli augura tanto bene e salute quanta ne vorrebbe lui.

Tutti i riscontri lessicali sono stati presi dal Vocabolario del Pavano: IVANO PACCAGNELLA, Vocabolario del Pavano (XIII, XVII secolo), Padova, Esedra, in corso di stampa.

Fregolarme: ‘sfregarmi’, da «fregolare», ‘sfregare’, ‘strusciare’, qui ‘ripulirsi’. Cfr: «E co ’l fo a casa, el

se lo messe in sen / e al fuogo el lo scaldà, / e scomenzanto a fregolarlo ben / el lo ressuscità» (20.259); «puovero mi, e co gera suò / fregolarme col sacco ben la schina, / muarme la camisa, spiocchiarme, / consarme la camisa, i calzaritti» (FORZ. Past. IV 108); «Te porè fregolare! Ahimè, Veletria, / ch’io sto peggio di te!» (FORZ. Past. IV 935).

Da me posta: ‘da me’. Cfr: «Questa è la veritè, qué, inanzo ch’a’ cognoscesse Amore, an mi, perqué haea

aldio dire que ’l giera ria cosa, a’ me ’l cercava de parar da cerca da mia posta» (Anc. A M V Prol. II 10); «Chi se penserae mè che a’ m’haesse ammazzò da me posta?» (Dial. fac. 79); «De la vergene Gribellata, el me ven vuogia de sbuellarme chivelò adesso da me posta!» (Fior. IV 44); «Almasco me / poesse strangolar e desligarme / da me posta pi presto ch’esser pasto / de luvi in ste campagne a muò un castron» (FORZ. Past. IV 93).

Camisa: ‘camicia’. Cfr: «zugando l’altro dì / ello havea perdù con mi / la camesa col zupelo / e le scarpe

e ‘l capelo» (Bet. M IV360); «A’ he tanta legrezza, che la camisa me sta tanto erta dal culo!» (Mosch. A I 54); «Quante fiè m’è taccà / la camisa a la schina, sì sogi stracco / quando ch’a’ vegno a vêrte inchina in Sacco» (Rime I 39.19 [MEN.]); «Horsù, spazzanamen / fatt’in su molto ben / la camisa di brazzi» (Rime II 1.85 [MAG.]).

Scartabieggi: ‘foglietti’. Cfr: «Dasché ti è morto, caro Tuogno frello,/ el to dugo, la ferla e le panelle /

supia el preve, la crose e le candelle, / e un qualche bel frascaro el to lisello, / e Menon te g’appete un

scartabello / che dighe po che per contar noelle / e far d’i carniruoli a dindarelle / o na beretta o un

qualche bel capello / t’ieri el primo homo, che sea mè nassù» (Rime I 14.5 [MAG.]);«Que criu che sempre mè / an mi a’ no stugie? Mo i miè scartabieggi, / senza ch’a’ staghe a fruame i cervieggi, / è Sole, Luna e osieggi» (Rime III 1.139 [MAG.]); «Tonca crezì che ’l snatural sea quello / c’ha cattò el calamaro e el

scartabello» (Rime III 1.272 [MAG.]);«Se ’l puover Magagnò / con sto so scartabel ve pò pregare, / el ve strapriega ch’a’ ’l vogiè spetare» (Rime III 104.18 [MAG.]); «Fèmme sta gratia, Segnor Tavian: / quando a’ serì a Moncelese ivelò / don nù per nù voss’esser setterrò / el vostro Doni, ch’iera un bron sletran, / pettèghe un scartabel de vostra man» (Rime IV 3.5 [MAG.]);«Così sotto a la pieta / mi, ch’in fatti iera stò lialò da vu, / a’ ghe tornié pensando; e quando a’ fu / de presto saltò su, / a’ ve vussi mandar, Paron me bello, / per barba Bon Voler sto scartabello» (Rime IV 12.80 [MAG.]);«Quando che ’l me Moratto penserà / che Magagnò no se recorde d’ello, / che ’l no ghe vuogie ben pi ch’a so frello, / e pi ch’a quanti parente, che ’l ha, / da ste tre lire de carne salà, / da sta puoca lonzatta de veello / e da i versuri de sto scartabello / in bona parte el se n’accorzerà» (Rime IV 29.7 [MAG.]).

Sonagieti: ‘sonetti’ ma si noti il gioco paretimologico su «sonagio», «sonaio»

Tatare: masserizie di poco conto, ‘cianfrusaglie’. Cfr: «A’ vuò andar a tuor le mie tàttare, che ’l me ha

portò chì» (Piov. G IV 63).

Ubrigò: ‘obbligato’, ‘vincolato’. Cfr: «Se Die v’aì, me consegiasé / che m’andase a negare / e a ubigare /

a una femenuza, / che mena pi puza / ca diese cagauri?» (Bet. C I 947); «A’ te sarè, mare, ubigò ben sempre de quel che te m’he dò» (Piov. G IV 148); «Andè, che inchinadamò a’ me ubigo squaso que a’ l’ haverì» (Anc. A M V III 33); «A’ no ve poì ubigare, que sì figiuolo de pare. Aspittè fina a doman» (Vacc. III 161); «a’ so che i ve serà sempre ubighè» (Rime II 40.16 [MAG.]).

Penzergi fuora: ‘spingerli fuori’, ovvero ‘pubblicarli’.

Pulitan: ‘napoletani’, per Sgareggio, come per Ruzante, i ‘napoletani’ rappresentavano la letteratura

ricercata, e Napoli era l’emblema di un indefinito meridione peninsulare. Cfr: «Io mi sono della Talia,

pulitan» (Mosch. A II 35); «Te vuò ch’a’ faelle da politan romanesco? Mo no sètu che quello è el me

mestiero?» (Vacc. II 44); «Favellerae, a’ dige, sì fieramen, che a’ dissé che a’ foesse prupio un politan da Rubin!» (I Oraz. V 36 5); «fa’ con fa gi altri, s’te no vu fallare, / e laga a i Pulitani imboescare. / S’a’ no porè portare / la me Doviga bella con xe ’l sole / inchina onde che ven le cesiole, / con ste mie cantafole / a’ spiero far che ’l so lome se senta / da per tutti i cason, ch’è in su la Brenta» (Rime I 1.23 [MAG.]).

Siintia: ‘scienza’. Cfr: «Un’ è tanti sletran de tute le sincie, che tuti da per tuto el mondo core a scasafaso

a imparare se no chialò?» (Bet. C Prol. Pav. 4). «a’ n’aon pur fata una de le gomierie, e sì a’ g’in faron de le altre per tegnire alzò el lome de Pava, che, così cum la passa tute le altre in forteza, in beleza e in

sincia, che la le passe in piaseoleza» (Bet. C M Congedo 1). «Con gran scentia el vegnia / Simon inanzo,

e in cao g’hea un bel capello, / s’una cavalla de color morello» [Rime II 7.33 (MEN.)]. «Che, con disse quellù, / se mè s’have besogno d’un Segnore, / che de sciintia, de bontè e d’amore / fosse spiegio e spiandore / a tutti g’altri in sto mondo poltron, / ’l iera quel caro to segnor Paron» [Rime IV 4.56 (M .)].

d’inaffetto par bon, / ’n altro no ghe in torà de manco un pelo / de sincia e co rason, / e s’in dirà de l’altre assà / da sti biè fante de le so cante, / che sarà quelle, che a muò candele / ghe servirà al bel ziequio in t’agno lò» [Rime IV 128.44 (MAG.)].

Rabiusi: ‘rabbiosi’. Cfr: «Co, cancaro, sasséu mè vegnù sì rabioso que magnessé ferro?» (Parl. A M V 36

22); «E se igi harà mugiere, i no serà sì rabiusi né sempre sì in veregagia, ché le i tegnerà monzù» (I Oraz. A 41, M 40, V 36 1636 42).

Ravo: ‘rapa’. Cfr: «Oh, pieto bianco e scolorio / con fo mè ravo in campo!» (Bet. C III 293); «El è

puorpio com è un bo: / no sarae cavar i dente, / dige, d’un ravo bogiente» (Bet. M III 85); «E con haìvinu zugò, a’ se metìvinu a far ravolò, e man per tutto el fogolaro nomè cielo e gusse de ravi!» (Anc. M V IV 57); «Con quel voltonazzo reondo, nuorio, bianco e rosso che ge perderae fette de persutto inverzellò o

ravi de quigi bianchi e russi, quando gi è ben lavè!» (I Oraz. A V 1636 20, M V 36 21); «Mo quel bel

viso, che par mezza luna, / con quelle tette po che par du ravi, / cavaràvegi un morto d’una busa?» (Rime I 27.17 [MEN.]); «Fóssela zà anà / onve che nasse i ravi, sotto terra!» (FORZ. Past. IV 758).

Scuserà: ‘perdonerà’. Cfr: «Mo con me scuserègie co el fato to / con te sapi sto fato? (In questo

soprazonze Nale)» (Bet. C II 757); «Mo sa’ ve gh’imbatì / un anno tutte do, Parona bella, / el me par vêr che la Boara Stella / e ’l Sol, che ven con ella, / no s’incurerà pi a le so hore / portarne el dì, far luse a i carraore, / perqué quel gran spiandore, / che se vé in gi uocchi d’ella e in quî de vu, / si vegnerà a scusar per tutti du» (Rime III 7.82 [MAG.]).

Falò la pata: «falar la pata» significa ‘ingannarsi’, ‘sbagliare’. Cfr: «Se mo a’ crezéa che luxesse la luna,

/ ma a’ g’ho falò la pata» (FORZ. Past. V 332).

Cagarì: ‘cose non sostanziali’, ‘sciocchezze’. Cfr: Le specie, l’erba bona, l’uolio, el sale / e mille cagarìe

ch’a’ g’ho metù, / no lagherà che la te fazza male» (Rime II 48.10 [MEN.]); «Le spiecie, l’erba bona, l’uolio, el sale / e quele cagarìe sì m’ha metù / tanto vin in lo cao, ch’a’ stago male, / perqué a’ son pi presto in te ’l tuor su / che no fa un zapaor, che in t’una vale / si g’habia fato laorier per du» (Rime II 49.10 [BEG.]).

Fiorentinesche: ‘fiorentinesche’, esprimersi in lingua toscana, ma anche nel senso di linguggio affettato.

Da notare che in questo caso l’aggettivo non sembra contenere una sfumatura ironico - spregiativa. Cfr: «no digo solamen della lengua e del faellare, mo an del resto; perqué a’ vezo que ’l no basta que a’ volzì la lengua a faellare fiorentinesco e moschetto, mo a’ ghe magnè, e sì ve ghe fè le gonelle, que ’l n’è zà ben fatto» (Fior. Prol. 5); «Cancaro a i carnieri e an a i sachi, dasché a’ muarè la mia lengua! No, per dosento fiorentinesche!» (Mosch. M Prol. 11); «a’ vezo che ’l non basta ch’a’ ve volzì la lengua a favellare fiorentinesco e moscheto, ma a’ ge magnè, e sì ve fè le gonelle, che ’l n’è zà ben fatto» (Mosch. V 4); «Recordate que ’l besogna che te faelli moschetto fiorentinesco, perqué a’ he ditto a quelù que ’l fattore no è de sti paesi» (Vacc. II 43); «nu haon piasere de tegnire el nostro snaturale in pè dertamen per la natura, e smissiare la lengua a nostro muò, e non alla fiorentinesca?» (I Orat. A M V1636 3, V36 4); «fa tal bota tirar le regie a quî cettaini sletrani che favella per gramego, o fiorentinesco, per inchina al dì d’ancuò, che ’l dê esser, fè vostro conto, de gi agni pi de deseotto, a’ no g’ho cognossù negun» (Rime II Prol. [MAG.]).

A prigolo: ‘a rischio’. Cfr: «Ruzante, chi no se mette a prìgolo, no guagna» (Parl. A M 102); «E sì va an

fuossi a prìgolo, se ben a’ no dego havere, de scuodere» (Bil. 31); «Me compare me mette sempre mè in sti luoghi prigolosi, su crosare, a prìgolo de spiriti e de muorti e del cancaro» (Mosch. A V 53); «Oh, frello, chi è so homo vive a so prìgolo, mo chi sta co altri vive a prìgolo d’altri!» (Vacc. V 68); «Hieri dasquaso a’ fu / a prìgol de morire / per el fiò, c’hea perso in te ’l tossire» (Rime III 69.7 [MEN.]).

Spontonè: “spuntonate”, Colpi inferti con una punta. Cfr: «O botte senza sangue, / o care spontonè, / mè

pi a’ ve sentirè!» (Bet. C V 582); «Botte dolce senza sangue, / o care mie spontonè, / mè pi a’ ve sentirè!» (Bet. M V 573).

Ruela: scudo di forma rotonda. Cfr: «Fate pi in fuora / e ti, da la roela. / Buta via la gonela / ti, che t’hexi

quel sponton» (Bet. C IV 189); «Deh, sta’ indrio, da la roella (Bet. C IV 248); A’ me vuò conzare co sto pe inanzo e la ruella drio la schina» (Mosch. A V 53); «El me buttà alla prima la ruella in terra, e man mi a muzzare e ello a supiare!» (Mosch. A V 66).

Soleta: ‘civetta’, Sgareggio gioca con il termine «zoetta», appunto ‘civetta’.

El mese de i aseni: ‘maggio’, mese in cui gli asini vanno in amore e ragliano in maniera fragorosa. Anche

1

Vu ch’al cantar d’un puovero boaro 1

le faighe, le strussie, i sbatiminti a’ sbrefelè le recchie, e i sentiminti

che ’l par, que ’l me stentar ve supie caro, 4

a’ ve slaino, e pianzo a paro a paro pin de trista speranza, e de piminti

che, se ’l gh’è chi d’Amor no supia esinti,

spiero catar piatè, no che reparo. 8

A’ m’acorzo ben mi, ch’in tra la zente a’ son smatò, ma no ghe posso fare altro, lomè tegnir la testa bassa.

E pentio de ste strussie, e de ste stente, 12 dir che tempo passò no pò tornare,

ch’ombria, fumo e beltè ven presto, e passa.

[1-4: Voi che al cantare di un povero bovaro, le fatiche, gli affanni, gli agitamenti spalancate le orecchie e i sentimenti che pare che il mio stentare vi si insinui caro, 5-8: a voi dichiaro e piango