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2 La grande guerra e i temi colonial

4.3 Le altre potenze

Alla fine della prima guerra mondiale l’Italia si ritrovò esclusa dalla ripar- tizione dei mandati e delusa nelle speranze di allargamenti in Africa. Inoltre, la dominazione italiana in Libia era quasi interamente eliminata. Dall’ottobre 1914, la setta dei Senussi, musulmani rigorosi e ferventi nazionalisti arabi, ave- va costretto le truppe italiane a abbandonare l’interno della Tripolitania e della Cirenaica. Con un accordo firmato nell’aprile del 1917 con Mohamed Idriss, grande Senusso, il governo italiano promise di non cercare di estendere la sua zona di occupazione, ormai ridotta a circa sei basi fortificate sul litorale. Nel no- vembre 1918, i capi locali, spinti probabilmente da ufficiali turchi, invocarono il diritto della «libera disposizione dei popoli» di origine wilsoniana e annun- ciarono l’esistenza di una «Repubblica di Tripolitania». Il governo di Roma, non potendo chiedere all’opinione pubblica esausta dalla guerra una campagna

coloniale, preferì negoziare un compromesso. L’accordo che ne risultò, nell’a- prile 1919, stabiliva una politica di «associazione», con la concessione della cit- tadinanza italiana ai libici che avrebbero avuto diritto di voto per l’elezione di un’assemblea legislativa e il potere amministrativo concesso ai funzionari arabi. La presenza italiana nel Paese, al momento dell’arrivo al potere di Mussolini, sembrava assai ridotta. Il fascismo, liquidando l’opposizione senussita, com- pletò le operazioni di riconquista della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan, già avviati dagli ultimi governi liberali, e ne unificò i territori nella co- lonia di Libia; concluse le trattative con la Gran Bretagna per la concessione dell’Oltregiuba, consolidò i possedimenti in Somalia. Il fascismo decise quindi di completare il mosaico imperiale del Paese e conquistò l’Etiopia. Si trattava, come nota Veneruso nell’introduzione al volume di Albertini, La decolonizza-

zione, di un regime politico che «agisce in campo coloniale in una specie di ga-

ra fuori del tempo, quasi in una sfida totale e donchisciottesca contro ‘i segni dei tempi’ che emergono sia dalla discussione insorta a proposito delle colonie nei Paesi democratici, sia dalla più attenta considerazione dei dati e degli even- ti maturatisi nei Paesi soggetti al dominio coloniale europeo ed extraeuropeo, sia dall’obiettivo riconoscimento, unanime in tutte le correnti che non fossero proprio retrive, dell’urgente necessità di profondi mutamenti nel regime colo- niale qualora esso avesse aspirato ad un minimo di consenso da parte dei Paesi soggetti al suo dominio». E, «non solo il fascismo seguiva una politica di colo- nizzazione quando altre potenze avevano già iniziato una politica di decoloniz- zazione, ma dimostrava la sua volontà di andare contro la corrente della storia anche nel proclamare apertamente la dottrina della superiorità della razza bian- ca, su cui si fondava il conseguente diritto al perpetuo dominio».

I possedimenti vecchi e nuovi nell’Africa Orientale italiana vennero or- ganizzati in sei governatorati, popolati da circa dodici milioni di abitanti; ad Addis Abeba, nella carica di viceré, si susseguirono Badoglio, Graziani, feri- to in un attentato nel 1937, e Amedeo d’Aosta.

Il sistema di controllo italiano oscillò tra una teorica adesione ai prin- cipi dell’assimilazione, pubblicizzata come una forma intermedia tra le criti- cate politiche coloniali della Gran Bretagna e della Francia, e una sostanziale tendenza autoritaria e discriminatoria, rispetto alla quale la concessione del- la cittadinanza italiana ai locali in Tripolitania e in Cirenaica – nel 1929 – non costituì che un’eccezione. Nel 1937 furono vietate le unioni miste e, l’anno seguente, si introdussero le leggi razziali, con conseguenze ancora più pesanti sulla posizione degli indigeni. Gli effetti di modernizzazione deri- vanti dal controllo italiano, pertanto, non si accompagnarono a una linea di cooptazione delle élites locali ma, soprattutto in Etiopia – e, in particolare

dopo l’attentato a Graziani – a una violenta repressione delle istanze locali. Il fatto che, nelle colonie italiane, l’ordine pubblico sembrasse assai meglio garantito che in territori appartenenti a altre potenze europee, pareva dimo- strare che la concezione e i metodi fascisti di conduzione coloniale fossero al- l’atto pratico molto più efficaci delle politiche di Paesi democratici che, nel tentativo di andare incontro alle richieste dei popoli soggetti, parevano di- sposti a abdicare al loro ruolo. La circostanza che la conquista dell’ordine co- stasse un periodo di sanguinose repressioni e che in Etiopia ci fosse uno sta- to endemico di guerriglia passava in secondo piano nella valutazione dei co- lonialisti e dei nostalgici dell’impero vecchio stile.

Il controllo dell’Olanda sull’Indonesia andò incontro a serie difficoltà. Fin dagli inizi del secolo si erano avute le prime manifestazioni del naziona- lismo indonesiano che fu molto sensibile alla Rivoluzione comunista russa del 1917. Il governo olandese sperò di prevenire il peggio riunendo, alla fi- ne del 1918, un «Consiglio del popolo», con competenze esclusivamente consultive ma che concedeva la presenza di rappresentanti della élite locale. Esso era tuttavia a maggioranza europea, con metà dei membri nominati dall’alto. L’iniziativa fu accompagnata da un progetto generale di decentra- mento nelle province, ma il nuovo sistema prese forma assai lentamente e fu completato solo poco prima dell’invasione giapponese.

L’élite nazionalista non poteva essere soddisfatta delle concessioni, assai modeste, che rappresentavano tuttavia il massimo che gli olandesi fossero di- sposti a offrire. Nel 1919 presero corpo due movimenti di opposizione, am- bedue nazionalisti ma l’uno di tendenza liberale e l’altro comunista. L’amministrazione olandese rimase sorda nei confronti di ogni forma di na- zionalismo, confermando i criteri generali di governo indiretto appoggiato alle gerarchie tradizionali, rimanendo paternalistica e autoritaria e non accet- tando la novità rappresentata dal crescere delle istanze di emancipazione le- gata alla modernizzazione voluta dal centro. Come ricorda Di Nolfo, la quo- ta di inserimento nell’amministrazione di personale locale era la più bassa in percentuale in tutto il Sud-Est asiatico sotto il dominio europeo. Tra il 1926 e il ’27 venne repressa una violenta rivolta nell’isola di Giava, diretta dal par- tito comunista, e negli anni Trenta i capi del nazionalismo, come Sukarno e Hatta, furono arrestati e deportati. Escludendo ogni possibilità di riforma in direzione di una possibile autonomia della colonia, divenuta anzi parte inte- grante del territorio nazionale olandese nel 1922, il governo dell’Aja, sicuro della forza e della efficacia della propria amministrazione, evitò di fronteg- giare in termini realistici il futuro del proprio dominio sulla regione e finì per spingere i nazionalisti a radicalizzare il proprio atteggiamento.

Anche il Belgio in Congo, come l’Olanda in Indonesia, non aveva al- cun dubbio sulla stabilità e sulla durata del proprio controllo, anche perché, una volta avuta ragione delle ultime sacche di resistenza, non era sviluppata nel Paese una precisa coscienza nazionalista. Situandosi in posizione inter- media tra la dottrina britannica e quella francese, l’approccio belga si carat- terizzò, come quello olandese, per l’efficacia amministrativa e per la scarsa at- tenzione alle possibilità di evoluzione futura del dominio. In modo delibe- rato fu trascurato il problema di formare in loco una futura classe dirigente in grado di assumere le redini del potere quando fossero maturate le condi- zioni generali e particolari di emancipazione mentre fu data grande libertà di manovra a grande imprese, come l’Union Minière, che non trovavano al- cun ostacolo nell’utilizzare le popolazioni locali come mera forza lavoro.

Quanto ai Paesi iberici, nota Di Nolfo, il Portogallo che, fino al 1926, aveva assunto una politica di relativo decentramento amministrativo, che at- tribuiva ampi margini di discrezione decisionale ai governatori dei possedi- menti africani, con il regime di Salazar affermò invece criteri di centralizza- zione e di assimilazione, puntando, ufficialmente, alla creazione di una co- munità panlusitana multirazziale. Le ambiguità del progetto e la difficoltà della sua applicazione concreta erano però acute poiché la metropoli, pur riaffermando la missione civilizzatrice in Africa, era spinta, dalla sua debo- lezza economica, a uno sfruttamento intensivo delle risorse delle colonie, con il risultato di un inasprimento dei metodi di dominio e il rinvio di ogni ipotesi di sostituzione dell’influenza al controllo formale.

La Spagna dovette affrontare gravi problemi nel Marocco Settentrio- nale. Dal 1915, un movimento di resistenza aveva praticamente ridotto la presenza militare spagnola alla sola zona costiera. Nel 1919, il capo di que- sto movimento, Abd-el-Krim, chiese al governo di Madrid di rinunciare ai metodi dell’amministrazione militare e di designare un governatore civile. Solo negli anni Venti la Spagna riuscì a sedare la rivolta del Rif in collabora- zione con le forze francesi. Dopo di allora, Madrid avviò una politica di pa- cificazione nel protettorato marocchino, mostrandosi talvolta tollerante nei confronti del nazionalismo locale, sulla scia di una certa tradizione africani- sta, particolarmente diffusa negli ambienti militari. Il nazionalismo poté co- sì guardare con ottimismo alla politica della madrepatria, fiducioso nelle promesse del Fronte Popolare, al potere a Madrid nel 1936, e in seguito di quelle fatte dai franchisti.

Divenuti una potenza coloniale con l’acquisizione delle Filippine e de- gli altri territori ceduti dalla Spagna, gli Stati Uniti dovettero risolvere la con- traddizione che tale situazione costituiva, dal punto di vista formale, rispet-

to alla loro tradizione politica. Per non compromettere troppo brutalmente la tradizione anticolonialista americana, si era precisato che l’occupazione delle Filippine era solo temporanea, motivata dalla necessità di porre rime- dio al malgoverno spagnolo e destinata a concludersi quando gli abitanti del Paese avessero acquisito la capacità di governarsi da sé. Questa precisazione, percepita dagli europei come puro espediente per giustificare una conquista territoriale, costituì una precisa riserva per Washington. L’interesse degli Stati Uniti per le isole era essenzialmente strategico: quando gli americani si rese- ro conto dell’intensità del nazionalismo filippino, promisero che avrebbero integralmente rispettato gli usi, i costumi e le tradizioni del Paese. In tempi assai brevi, gli Stati Uniti introdussero nel Paese una forma di democrazia analoga alla propria: una democrazia, tuttavia, che presentava forti limiti, poiché la classe dei proprietari terrieri e degli intellettuali, interessati a con- servare i propri privilegi economici e sociali, fu l’effettiva beneficiaria del tra- sferimento dei poteri. La forza dei ceti agrari era stata incrementata dall’in- clusione delle Filippine nell’area doganale americana, decisa nel 1909, per- ché essa aveva favorito la produzione su larga scala di zucchero, olio di coc- co e copra per l’esportazione, controllata da compagnie private e grandi pro- prietari terrieri.

La linea progressista sul piano costituzionale, funzionale all’accogli- mento delle rivendicazioni nazionaliste e a garantire a Washington l’allean- za dei ceti dominanti del Paese, si accompagnò all’elaborazione di un classi- co sistema di dipendenza economica: le Filippine erano produttrici di mate- rie prime e di generi alimentari, rappresentando nel contempo un mercato ottimale per l’assorbimento delle esportazioni americane. La dipendenza delle Filippine dagli Stati Uniti divenne maggiore di quella di qualsiasi altra colonia della regione dalla rispettiva metropoli, con la conseguenza inevita- bile del sottosviluppo industriale. Il 24 marzo 1934, Washington ratificò la legge Tydings-Mc Duffie, secondo la quale, dopo un periodo transitorio di dieci anni, le Filippine avrebbero ottenuto la completa indipendenza. In cambio di queste concessioni, gli Stati Uniti avrebbero conservato le proprie basi navali e militari finché non fosse stata raggiunta la piena indipendenza. L’anno successivo, una costituente filippina votò una Costituzione sul mo- dello di quella americana e Manuel Quezon, che aveva negoziato con gli americani, fu eletto Presidente. La decisione americana, volta più alla tutela degli interessi economici americani che al futuro benessere della popolazio- ne indigena nel suo complesso, fu presentata come manifestazione di anti- colonialismo e mostrava l’intenzione di Washington di esportare nel Paese asiatico le formule e i metodi di controllo che erano stati sperimentati con

successo nell’America Centrale e Meridionale. La scelta di procedere lungo una linea di avanzamento costituzionale nell’arcipelago e di tutelare nel con- tempo gli interessi economici e culturali del centro – in altri termini la de- cisione di sottrarsi al carico del controllo formale e di stabilire un più effica- ce e capillare controllo sostanziale – sarebbe divenuto un elemento impor- tante quando, durante e dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti, accettando il loro ruolo di potenza globale, dovettero precisare il loro atteg- giamento nei confronti della conservazione degli imperi europei.

Il ritorno della guerra generale costituì un momento di rottura nel pro- cesso di decolonizzazione sotto il profilo dei tempi, che si fecero rapidissimi, e delle modalità. Dopo il 1945, infatti, le potenze coloniali europee, inde- bolite dallo sforzo bellico, furono costrette a mutare con relativa velocità la sostanza dei rapporti economici e politici con i rispettivi imperi e, nel corso di questo riassetto di durata e fenomenologia variabili, non poterono sot- trarsi all’interferenza, alle pressioni e ai condizionamenti diretti – nel caso degli Stati Uniti – o riflessi – nel caso dell’Unione Sovietica – dei due pro- tagonisti extraeuropei emersi dalla guerra con potenzialità, reali o apparenti, di influenza politica globale.

I grandi imperi coloniali, che avevano iniziato un lento declino dopo la prima guerra mondiale, crollarono così rapidamente dopo la seconda, tra il 1945 e il 1960. Le cause di questo fenomeno furono di duplice ordine: politico-economiche e politico-ideologiche, diverse perciò dal caso della scomparsa, il secolo precedente, degli imperi coloniali spagnolo e portoghe- se, crollati per cause soprattutto politico-economiche.

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Gli effetti della guerra sulla tenuta degli imperi;