2 La grande guerra e i temi colonial
4.1 La Gran Bretagna
Alla fine della guerra, la Gran Bretagna poteva ritenere soddisfacenti i risultati raggiunti. In particolare Londra registrava con sollievo la distruzio- ne della marina militare tedesca, che in passato aveva costituito – o era stata percepita come – una grave minaccia. Nel novembre del 1918 la marina in- glese aveva raggiunto un tonnellaggio e un numero di navi più o meno uguali alla somma di quelli di tutte le altre maggiori flotte del mondo. All’apice della sua potenza, la flotta inglese contava sessantuno corazzate ed era più grande della somma di quelle americana e francese, due volte quelle di Giappone e Italia. La dottrina navale britannica aveva teorizzato il princi- pio in base al quale essa doveva essere più grande della somma delle due al- tre maggiori flotte da guerre. Questo principio era però insidiato dal pro- gramma di costruzioni navali americano e dalla impossibilità, per la Gran Bretagna appena uscita dalla guerra con gravi problemi finanziari, di regge- re una corsa agli armamenti con Washington.
Pur nella necessità di mettere in conto la opportunità di un futuro ac- cordo con gli Stati Uniti (con i quali, in tutti i casi, la prospettiva di un con- flitto rimaneva remota) che avrebbe anche evitato una distrazione del bilan- cio statale in spese militari, nella strategia imperiale di Londra, una volta eli- minati il pericolo e la concorrenza tedeschi, principale preoccupazione negli anni precedenti la guerra, rimaneva, in teoria, la protezione della via delle Indie sia dalla minaccia russa – per il momento affievolita dalla rivoluzione ma non scomparsa in via definitiva – sia da qualsiasi interferenza dei nazio-
nalismi locali sulle comunicazioni interne del dominio coloniale. Le vie d’acqua principali per la sicurezza di tale percorso – il Bosforo e i Dardanelli, Suez, Bab al Mandab e Hormuz – rendevano di importanza fondamentale il controllo delle terre oggi in parte riconducibili alla definizione di Medio Oriente: lo zoccolo settentrionale – diviso fra la Turchia, l’Iran e l’Afghanistan –, la Mezzaluna fertile dei mandati, i Paesi della penisola ara- bica, l’asse Egitto-Sudan e la Somalia. Il ruolo cruciale di questa regione po- teva quindi anche prescindere dalla sua importanza come area ricca di risor- se petrolifere.
Il controllo degli Stretti turchi era legato alla sistemazione politica dell’Anatolia e a quella imposta in Siria, Iraq e Palestina mediante i manda- ti. I piani britannici e francesi, basati sugli accordi di guerra Sykes-Picot che avevano definito le rispettive zone di influenza, cozzarono in entrambi i ca- si contro la reazione del nazionalismo locale. Quello turco, guidato da Mustafà Kemal, riuscì in modo inaspettato a modificare con le armi le clau- sole del trattato di pace imposto alla Turchia alla conferenza di Parigi, a scon- figgere i greci e a proclamare la nuova Repubblica nel 1923. L’assetto politi- co che ne derivò, e che venne fissato insieme all’abolizione delle capitolazio- ni dal trattato di Losanna concluso nel 1923, si rivelò comunque, nel lungo periodo, più favorevole alle potenze europee di quello definito dai mandati nella fascia della Mezzaluna fertile, in termini di contenimento della minac- cia russa e di stabilità regionale.
In questa regione, il nazionalismo arabo, diviso e meno preparato allo scontro militare del nazionalismo turco, non poté impedire che gli accordi Sykes-Picot prevalessero, ai fini del riassetto regionale, su quelli McMahon- Hussein, con i quali la Gran Bretagna si era impegnata a favorire la nascita di un grande Stato arabo. Faisal, figlio dell’emiro della Mecca Hussein, as- sunse il titolo di re di Siria ma fu sconfitto e deposto dai francesi. A lui la Gran Bretagna, repressa la grande rivolta scoppiata in Iraq a seguito della ri- partizione dei mandati avvenuta alla conferenza di San Remo, decise di as- segnare il trono di Baghdad. Al fratello maggiore Abdallah fu invece desti- nato l’emirato di Transgiordania, separato dalla Palestina. A quest’ultima si impedì di unirsi alla Siria e si aprirono nel contempo le porte all’immigra- zione ebraica, in applicazione della dichiarazione Balfour sulla «national ho-
me» ebraica.
Anche in Egitto Londra fu costretta a tenere conto del risveglio del na- zionalismo, guidato da Saad Zaghlul Pascià e dal WAFD, il «partito della de- legazione» che rappresentava la principale forza nazionalista del Paese. L’Egitto era stato teoricamente parte dell’impero ottomano fino all’inizio
della guerra, ma in realtà esso si trovava sotto il controllo dell’Inghilterra, che lo aveva occupato nel 1882. Con lo scoppio del conflitto, la Gran Bretagna aveva dichiarato l’Egitto protettorato britannico (nel novembre 1914). Gli eventi della guerra e la crescente insofferenza per la dominazione britannica condussero a una insurrezione nel 1919. All’indomani dell’armistizio, infat- ti, il Partito nazionale, guidato dal Zaghlul Pascià, rivendicò l’indipendenza in nome dei principi wilsoniani. Come reazione al rifiuto immediatamente opposto da Londra e all’arresto di Zaghlul, fu scatenato un movimento in- surrezionale che per tre settimane, nel marzo 1919, scosse la dominazione inglese fino al momento in cui intervennero truppe inglesi richiamate dalla Palestina. I capi nazionalisti adottarono allora un altro metodo, quello della resistenza passiva, che manteneva comunque in stato di allerta i britannici. L’alto commissario britannico raccomandò al suo governo una politica di pacificazione e fece liberare Zaghlul. Gli inglesi compresero che continuare con l’assetto esistente significava rischiare di suscitare una rivolta incontrol- labile e su larga scala perché la forza del movimento risiedeva nel fatto che la resistenza nazionale non era più limitata, come prima della guerra, a un gruppo di intellettuali musulmani. Zaghlul aveva in effetti agito con abilità: era riuscito a stabilire un’alleanza tra coopti e musulmani e a rendere popo- lare la causa del nazionalismo presso gli ambienti rurali, sfruttando il loro scontento per le requisizioni di manodopera e derrate alimentari decise dai britannici nel 1918 per far fronte alle esigenze del corpo di spedizione in Palestina e Siria.
Di fronte alla minaccia di una insurrezione generale, nel settembre 1919 il gabinetto britannico decise di andare incontro ai nazionalisti: Londra, pur non accettando la rivendicazione di indipendenza, annunciò l’intenzione di stabilire un regime che avrebbe accordato a rappresentanti eletti della nazione egiziana una parte importante del potere legislativo. Fu questo il punto di inizio di controversie lunghe e aspre che portarono infine il governo britannico all’abolizione del protettorato. Nel 1922, Londra pro- clamò quindi unilateralmente l’indipendenza del Paese, riservandosi una se- rie essenziale di competenze (in quattro diversi ambiti: la sicurezza delle co- municazioni dell’impero britannico in Egitto; la difesa del Paese contro qualsiasi aggressione o ingerenza straniera; la protezione degli interessi stra- nieri in Egitto e delle minoranze; il Sudan e il suo statuto di condominio) che resero tale dichiarazione, accolta dal sultano Fuad, inaccettabile per i na- zionalisti. Nell’aprile del 1923 fu promulgata una Costituzione di tipo par- lamentare e le prime elezioni, che si tennero l’anno successivo, dettero una stragrande maggioranza al WAFD. La Gran Bretagna doveva quindi tratta-
re, nel Paese, con due forze politiche, che talvolta collaboravano, talaltra si opponevano: il WAFD e la Corona.
Nel 1924, in piena agitazione terroristica, si arrivò all’assassinio del co- mandante britannico dell’esercito egiziano che prestava contemporanea- mente servizio come governatore generale del Sudan, allora condominio an- glo-egiziano. La Gran Bretagna reagì esigendo la punizione dei colpevoli, imponendo una ingente penalità finanziaria all’Egitto e chiedendo l’evacua- zione immediata del Sudan da parte delle truppe egiziane. Nei decenni suc- cessivi, la situazione oscillò tra momenti di tensione e moderata cooperazio- ne: la vita politica del Paese fu caratterizzata dalla divisione del potere e dal- la competizione tra l’elemento britannico, la corona e i partiti politici: solo nel 1936, con l’acuirsi della minaccia italiana nel Mediterraneo e sul Mar Rosso, le posizioni rispettive si ammorbidirono e si riuscì a concludere un trattato anglo-egiziano che tuttavia continuava a riservare alla Gran Bretagna vaste competenze, soprattutto con riferimento alla zona del Canale. In que- sto senso, il trattato dimostrava la disponibilità di Londra al trasferimento dei poteri in cambio del mantenimento di basi strategiche e del libero ac- cesso alle infrastrutture di interesse militare in caso di guerra.
Londra seppe reagire con elasticità all’affermarsi del nazionalismo in Medio Oriente: avvalendosi dell’ambiguità insita nel concetto di mandato, i britannici riuscirono a coniugare una graduale concessione dell’autogover- no e l’accentuazione del loro controllo politico e economico. L’Iraq fu la pri- ma delle province arabe dell’ex impero ottomano a ottenere la sua emanci- pazione. L’annuncio delle decisioni di San Remo, della primavera del 1920, scatenò, nella bassa valle del Tigre e dell’Eufrate, una sollevazione generale, per far fronte alla quale il governo britannico inviò un corpo di centomila uomini. L’alto commissario, sir Percy Cox, salvò la situazione annunciando in un vigoroso proclama che il mandato non aveva che un obiettivo, quello di portare al self-government, e istituendo, alla fine del 1920, un Consiglio provvisorio che chiamò sul trono un figlio di Hussein, l’emiro Faysal, eroe della rivolta araba, proclamato re a Damasco qualche mese prima. Il consi- glio della Società delle Nazioni fu informato dell’evento nel novembre del 1921. L’assemblea costituente, nel 1924, votò una Costituzione e si pro- clamò a favore dell’immediata fine del mandato. Gli inglesi, tuttavia, riusci- rono a conservarlo ancora per alcuni anni: per avere soddisfazione nella sua richiesta del vilayet di Mossul – territorio ricco di risorse petrolifere, abitato in maggioranza da curdi, arabi musulmani e cristiani nestoriani, e rivendi- cato sia dalla Turchia sia dall’Iraq – Baghdad aveva infatti bisogno dell’ap- poggio britannico e fu convenuto con Londra che, in cambio, il Paese non
avrebbe rivendicato immediatamente l’indipendenza. Sulla base di questo accordo, che consentì infine all’Iraq, nel dicembre 1925, di ottenere soddi- sfazione su Mossul, nel 1924 Londra concluse un trattato con il re Faysal in base al quale la Gran Bretagna manteneva il suo ruolo di Paese mandatario.
Un passo ulteriore fu fatto nel 1930 quando un nuovo trattato anglo- iracheno sostituì al mandato uno statuto di alleanza politica e militare con la quale (art. 5) il Paese mediorientale si impegnava a utilizzare l’assistenza tecnico-militare inglese e a concedere a Londra vantaggi di carattere milita- re (in particolare, in tempo di guerra, l’Iraq avrebbe permesso alla Gran Bretagna di utilizzare il proprio territorio e gli inglesi avrebbero presidiato in permanenza alcune basi aeree nel territorio iracheno). Inoltre, esso trasferì al governo di Bagdad «tutte le responsabilità che derivavano a Sua Maestà bri- tannica in rapporto all’Iraq in virtù di trattati e accordi». L’ultima tappa fu realizzata nel 1932, con la cessazione del mandato e l’ammissione alla SdN che fu tuttavia accompagnata da un certo numero di condizioni. L’Iraq si impegnò davanti al Consiglio della SdN a garantire la libertà di coscienza e l’attività religiosa delle missioni, i diritti acquisiti della nazione aperta e l’u- guaglianza dei diritti di tutti gli Stati membri. Infine l’Iraq promise di trat- tare con equità le minoranze che vivevano sul suo territorio, in particolare i Curdi e gli Assirio-Caldei cristiani della regione di Mossul, regione fonda- mentale sul piano strategico oltre che economico. Nell’ottobre 1932, quin- di, e per la prima volta, un popolo sotto tutela riceveva, non solo dalla po- tenza mandataria ma anche dall’Assemblea delle Nazioni, la consacrazione della sua indipendenza. L’evento ebbe un’importanza fondamentale per il mondo arabo. Si trattava di una emancipazione più formale che sostanziale perché limitata dal trattato con la Gran Bretagna, la quale aveva agito con abilità, promovendo un progressivo e rapido avanzamento verso l’autono- mia locale per limitare il carico economico e ridurre i costi anche politici di un impegno formale, pur mantenendo inalterati i suoi interessi nel Paese.
Nel caso della Transgiordania le autorità britanniche dal 1921 lascia- rono che l’emiro Abdullah, figlio di Hussein, stabilisse il suo governo su que- sta regione montuosa, popolata da duecentomila uomini, per la maggioran- za arabi musulmani. Il controllo britannico, accantonate le richieste di pari- ficazione con le conquiste irachene avanzate nei primi tempi da Abdullah, non dovette misurarsi con alcuna preoccupante forma di rivendicazione na- zionalista. Ciò rallentò il cammino verso l’indipendenza, prefigurata con ri- serva dal trattato del 1928, che riconosceva l’esistenza del governo di Abdullah, ma sottolineava anche la sua disponibilità a seguire i consigli del governo britannico sia in politica estera, sia in politica finanziaria e econo-
mica. Più limitata dell’indipendenza dell’Iraq dopo il trattato del 1930, l’in- dipendenza della Transgiordania sarebbe stata riconosciuta in pieno soltan- to dopo la Seconda guerra mondiale.
Il caso della Palestina è poi emblematico del fatto che non bastava la sola pressione nazionalista a indurre Londra alla concessione di una effettiva autonomia. Le rivendicazioni avanzate dagli arabi del mandato tra il 1921 e il 1923 – governo nazionale, abbandono del programma sionista e unità con gli altri stati arabi – non ebbero infatti esito. D’altronde era poco probabile che la Gran Bretagna, costretta ad abbandonare le speranze sulla Turchia con il trattato di Losanna, fosse disposta a perdere subito terreno in un altro pun- to nevralgico del Medio Oriente.
Con le promesse che Londra aveva fatto per necessità in tempo di guerra al nazionalismo arabo e al sionismo, la Gran Bretagna aveva innesca- to in Palestina l’accelerazione di un meccanismo che, sotto varie manifesta- zioni, si sarebbe poi ripresentato in molti dei casi di più difficile decoloniz- zazione: la presenza, in uno stesso territorio non indipendente, di minoran- ze concorrenti, decise a difendere i propri diritti su regioni desiderate e per- cepite come proprie, in misura più o meno esclusiva. Tale situazione com- portò, fra le due guerre, una serie di tentativi britannici per comporre il dis- sidio tra arabi e ebrei, con l’obiettivo di una stabilizzazione della regione che ne rendesse anche meno problematico e più redditizio il controllo.
Il dovere che incombeva alla Gran Bretagna di proteggere l’immigra- zione ebrea incontrò subito le resistenze delle popolazioni arabe. Secondo la promessa fatta nel novembre 1917, il governo inglese doveva favorire la creazione di una «national home» ebraica. Tra il 1919 e il 1926 giunsero dall’Europa Centrale e Orientale un centinaio di migliaia di ebrei, che si aggiunsero ai cinquantamila circa che già erano presenti nella regione pri- ma del 1914. I nuovi immigrati si stabilirono preferibilmente nelle città ma incontrarono l’ostilità degli arabi, che formavano i quattro quinti della po- polazione globale e temevano le conseguenze di questo afflusso. Conflitti violenti ebbero luogo a Gerusalemme nel 1920, e a Jaffa, nel 1921. L’opposizione araba puntava il dito sul regime del mandato, poiché era l’amministrazione britannica a dare l’autorizzazione all’ingresso degli ebrei nel Paese.
La carta del mandato non fissava alcun termine per lo stabilimento dello statuto organico di «libero governo» e prevedeva espressamente che «il mandatario avrebbe avuto pieni poteri di legislazione e di amministrazione»; inoltre essa prescriveva l’obbligo di favorire le autonomie locali. L’alto com- missario britannico a Gerusalemme riuscì a costituire un numero elevato di
consigli municipali. Ma i tentativi di creare un abbozzo di organizzazione politica del Paese fallirono davanti al rifiuto di collaborazione delle sfere di- rigenti arabi. Gli organi della SdN, pur dichiarandosi soddisfatti dei pro- gressi compiuti sul piano locale, ogni anno espressero il desiderio di trovare nel rapporto dell’anno successivo indicazioni più precise riguardo lo svilup- po delle istituzioni del libero governo. Nel 1930 il consiglio della SdN inviò una commissione speciale per regolare la questione dei Luoghi Santi, teatro di gravi incidenti tra arabi e ebrei con gli inglesi che riconoscevano la loro impotenza a riportare la calma.
A partire dal 1937, in seguito al dilagare della rivolta tra gli arabi pale- stinesi e alle difficoltà di realizzazione dei piani di spartizione, la politica bri- tannica subì un’evoluzione decisiva, essendo ormai divenuto troppo rischio- so per Londra, nella possibile prospettiva della guerra contro le potenze dell’Asse, alienarsi l’appoggio del mondo arabo, sul quale stava crescendo l’influenza tedesca e tentava di radicarsi quella fascista: il White Paper del 1939 fissò una quota massima, pari a 75.000, per l’ammissione di immigrati ebrei nei cinque anni successivi e annunciò che l’indipendenza della Palestina, preparata da opportune istituzioni di autogoverno, sarebbe stata riconosciuta alla scadenza di un periodo decennale.
Come osserva Di Nolfo, una delle idee forti della tradizione britanni- ca era che era possibile, anzi talvolta auspicabile e senz’altro meno costoso, rinunciare all’esercizio formale del potere pur mantenendo, o potenziando, il controllo economico e politico di un territorio. Era questo il concetto che, dalla prospettiva di Londra, fu alla base della trasformazione dell’impero in British Commonwealth of Nations. L’acquisto graduale di autonomia da parte dei dominion ricevette una spinta decisiva dalla guerra e si manifestò in diverse occasioni, come il fallimento del protocollo di Ginevra nel 1925, in cui un ruolo fondamentale svolse l’opposizione dei dominions alle scelte po- litiche di Londra.
Già intorno al 1923 i dominion controllavano la propria politica este- ra e, nel 1926, una conferenza imperiale ne riconobbe l’indipendenza. La mozione adottata all’unanimità dalla conferenza, oltre a riconoscere l’indi- pendenza dei dominion, sostituiva la parola commonwealth alla parola impe- ro. Si stabiliva pertanto che «i membri della conferenza erano un raggrup- pamento di nazioni autonome, uguali nello statuto, che non erano subordi- nate le une alle altre in nessun aspetto dei loro affari interni o esterni, ma unite da un comune vincolo alla corona e liberamente associate come mem- bri di commonwealth». Nel 1930 una nuova conferenza imperiale riconobbe all’unanimità per i dominions il diritto di secessione.
A partire dal 1931, con l’approvazione dello statuto di Westminster da parte del Parlamento britannico, ognuno di essi ebbe la facoltà di divenire uno Stato sovrano e di annullare, per quanto lo riguardava, le leggi votate a Londra. Lo statuto di Westminster, che precisava le attribuzioni dei Parlamenti di ciascun dominion, sostituiva così una legge del 1865 secondo la quale le leggi votate dai parlamenti coloniali non dovevano essere in con- traddizione con le leggi votate a Londra. Nel 1932, a Ottawa, venne fissato il regime delle preferenze imperiali, che fece della Gran Bretagna, costretta dagli effetti della crisi economica del 1929 ad abbandonare il regime di li- bero scambio, tradizionale dopo l’abolizione delle Corn Laws, nel 1846, un mercato di eccezionale valore per i dominion e rappresentava, per Londra, una preziosa opportunità di agire in un sistema di scambi protetti. La pron- tezza dell’intervento in guerra dei Dominion a fianco della madrepatria – con l’eccezione dell’Irlanda – mise in luce come questi Paesi, ancora nel 1939, continuassero comunque a guardare a Londra come alla chiave di volta del- la loro politica estera e a percepire come comune la minaccia rappresentata dalle potenze dell’Asse.
Nel periodo tra le due guerre, il dibattito politico e culturale sull’im- pero si concentrò in Gran Bretagna sulla possibilità e l’opportunità di utiliz- zare l’evoluzione dei dominion bianchi come paradigma per le colonie asia- tiche e africane. La trasformazione in dominion – una condizione giuridica sorta per essere applicata solo ai Paesi di civiltà occidentale appartenenti al- l’impero – poteva cioè essere uno strumento utilizzabile per conservare in modo elastico ma effettivo i rapporti con la madrepatria, poiché la Gran Bretagna non si opponeva in linea di principio al riconoscimento dell’indi- pendenza, ma intendeva decidere in ultima istanza i tempi e le modalità del trasferimento dei poteri.
Il dibattito sulla concessione dello status di dominion riguardava in par- ticolare l’India. Nella «perla» dell’impero britannico, la presenza inglese era