e avvio della decolonizzazione
la proposta da Kwame Nkrumah, protagonista dell’indipendenza del Ghana e uno dei massimi teorici del nazionalismo africano, il quale, nel volume Neo-
colonialism, the Last Stage of Imperialism, afferma che il neocolonialismo con-
siste nel fatto «che lo Stato assoggettato conserva una indipendenza formale, con tutti gli ornamenti esterni della sovranità, mentre il suo sistema econo- mico e quindi la sua politica vengono diretti dall’esterno».
Se si accetta una definizione riduttiva e «giuridica» della decolonizza- zione – vista come processo attraverso il quale le popolazioni dei territori do- minati o occupati da una potenza straniera riconquistano o conquistano la loro sovranità interna e internazionale –, si può assumere come momento a
quo della decolonizzazione il termine arbitrario, ma giustificabile, della fine
della prima guerra mondiale, ciò che esclude dal raggio dell’analisi fenome- ni come il distacco delle colonie nordamericane dalla Gran Bretagna o di quelle sudamericane dalla Spagna e dal Portogallo o come l’evoluzione del- l’impero britannico fino al 1914. Si tratta di una scelta, appunto, dominata da un’esigenza di chiarezza espositiva. L’avvio della storia della decolonizza- zione, infatti, può essere ricondotto molto indietro nel tempo, e non erano mancati, prima della Grande guerra, sia episodi di resistenza e vittorioso na- zionalismo dei popoli coloniali, sia – come ricordato – voci critiche sul fe- nomeno imperiale complessivamente inteso. Ma l’impatto della guerra mon- diale, con i suoi effetti su tutti i piani delle relazioni internazionali, fu tale da segnare un vero momento di svolta per il fatto coloniale il quale, dopo di al- lora, nel contempo raggiunse il suo apogeo e si avviò verso il declino.
La ricerca delle cause della decolonizzazione, invece, non può rispettare rigide costrizioni cronologiche e non esime dalla necessità di rievocare feno- meni – estranei ma collegati – che non rientrano della definizione proposta, come il tipo particolare di relazioni che si instaurano tra i Paesi europei e il Medio Oriente in un periodo successivo al trasferimento formale dei poteri. Il punto di arrivo del processo – inteso sotto il profilo giuridico – è più faci- le da individuare: nel marzo 1990, con l’indipendenza della Namibia, si può affermare, salvo trascurabili eccezioni, la fine della decolonizzazione.
Stabiliti i termini a quo (1918) e ad quem (1990), resta da chiarire co- me e secondo quale prospettiva è possibile studiare un fenomeno complesso e disomogeneo come la decolonizzazione, anche se in realtà la scelta di que- sto intervallo temporale già presuppone un preciso approccio esplicativo. Il dibattito storiografico, al riguardo, è ancora aperto. L’idea di decolonizzazio- ne, afferma Calchi Novati, e «le stesse parole decolonizzazione e decolonizza- to sono così ambigue da aver generato non poca confusione nella letteratu- ra». Come sottolinea con grande efficacia sintetica Anna Maria Gentili, «la
complessità della storia della decolonizzazione viene in genere tradotta se- condo tre parametri che corrispondono più che alla verifica storica alla posi- zione teorica e ideologica di ciascuno studioso o osservatore». Così «la mag- gior parte dei lavori di storici conservatori, in genere legati alle amministra- zioni coloniali, presentano la decolonizzazione come una serie di misure rifor- mistiche a lungo preparate e instancabilmente perseguite». In questo senso, «all’avanguardia della decolonizzazione sarebbero le potenze europee più avanzate e in primo luogo l’Inghilterra con la sua radicata tradizione liberale» e «la resistenza del Portogallo a decolonizzare sarebbe una conseguenza diret- ta della sua stessa arretratezza». Sotto questa luce, il termine stesso di decolo- nizzazione torna a essere pienamente pertinente, osserva Calchi Novati, per- ché «pone al centro l’Europa così come l’Europa era stata al centro della co- lonizzazione, vista come pura e semplice proiezione dell’Europa in continen- ti che si assumevano come carenti di storia o comunque afflitti da una irri- mediabile decadenza». «Protagonista è pur sempre l’Europa, che per motivi di lungimiranza o di convenienza concede l’indipendenza ai territori che ha già valorizzato con la colonizzazione, tanto da trasmettere loro i concetti-chia- ve della futura liberazione. In subordine viene ricordata la funzione delle cor- renti di opposizione nei Paesi europei». La decolonizzazione appare quindi «un merito o un errore dell’Europa» che ha esportato nei popoli colonizzati gli ideali della libertà e del nazionalismo, «salvo non saper poi padroneggiare il processo che ne doveva scaturire».
Un secondo filone interpretativo, indica ancora la Gentili, «spiega la decolonizzazione secondo la teoria del sottosviluppo e il concetto di neoco- lonialismo». In questa prospettiva, la decolonizzazione può essere vista come «la creazione e il consolidamento di classi sociali compradore che verrebbe- ro favorite fino a renderle abbastanza forti, così da facilitare la sostituzione dell’amministrazione diretta con governi formalmente indipendenti retti da classi dirigenti legate a rapporti economici, sociali e politici preferenziali con la metropoli». Secondo questa scuola di analisi, la cooptazione di classi com- pradore, seguita dal trasferimento formale del potere politico e amministra- tivo, è «l’elemento essenziale del processo di decolonizzazione». Si trattereb- be quindi «di una nuova spartizione del mondo in accordo con le coordina- te del sistema economico e politico internazionale» con i caratteri con i qua- li esso è emerso dal secondo conflitto mondiale.
Questa chiave interpretativa è compatibile con quella che, con Daniel Headrick, legge la colonizzazione e la decolonizzazione come due fasi di un ciclo storico continuo riconducibile – e sovrapponibile – alle dinamiche evolutive del sistema economico globale. Headrick si pone in effetti una
domanda cruciale. Egli osserva una «straordinaria coincidenza» nel sistema internazionale attuale: la maggior parte dei Paesi più sviluppati sono colo- ro che avevano, un secolo fa, imperi coloniali mentre i Paesi più poveri so- no coloro che sono passati attraverso l’esperienza della dipendenza colo- niale. Al di là di alcune eccezioni, pur significative, nel complesso la divi- sione del mondo tra Paesi ricchi e Paesi poveri persiste e anzi si approfon- disce, nonostante rilevanti cambiamenti sia nella politica internazionale sia nell’approccio al tema coloniale da parte delle singole nazioni. Headrick sostiene che il diagramma esplicativo più efficace per cogliere la persisten- za di questo modello e individuare così la relazione tra colonizzazione, de- colonizzazione e sottosviluppo, è l’evoluzione del commercio globale. Così, se nel periodo dell’invasione e della spartizione dell’Africa e dell’Asia da parte degli occidentali tale processo può essere spiegato con la crescente do- manda di prodotti tropicali nei Paesi europei più industrializzati (ma an- che nel Giappone e negli Stati Uniti), facilitati da una superiorità tecnolo- gica, militare e amministrativa indiscussa, negli anni successivi, in partico- lare nel periodo tra le due guerre e con inaudita accelerazione nel secondo dopoguerra, i Paesi industrializzati svilupparono tecnologie capaci, con la creazione di sostituti sintetici, di ridurre la loro dipendenza dai prodotti tropicali provenienti dai Paesi coloniali. Contemporaneamente, i costi del governo coloniale aumentarono sia a causa delle promesse di sviluppo fat- te dalla madrepatria, sotto pressione per lo sforzo bellico, ai territori di- pendenti, sia e soprattutto perché i movimenti anticolonialisti potevano ora, dopo il conflitto, contare su un equipaggiamento militare e conoscen- ze tecniche che rendevano molto complesso per i Paesi europei averne ra- gione sul piano fattuale. Aumentavano anche i costi strategici e politici del mantenimento di un impero. Il crescere dei costi della conservazione di un impero formale da un lato, il decrescere dei vantaggi connessi alla posizio- ne di Paese imperiale, dall’altro, aggiunti a un cambiamento delle coordi- nate di riferimento sul piano internazionale e alla ridefinizione di rapporti economici sul piano globale e regionale (basti pensare alla novità rappre- sentata dalle istituzioni di Bretton Woods e dalla nascita della CEE) resero di fatto sempre meno attraente per i Paesi europei il mantenimento di vin- coli giuridici formali con i territori che facevano parte dei loro imperi. La possibilità di contare su élites locali disposte a far entrare il loro Paese, una volta divenuto indipendente, in una logica di conferma e anzi di potenzia- mento di legami strategici ed economici con la ex madrepatria, facilitò la dislocazione dei vecchi imperi, rendendola accettabile e talora auspicabile per le potenze coloniali.
Se colonialismo, decolonizzazione e neocolonialismo appaiono, sulla base di questa proposta di lettura, come momenti di un unico processo e fa- si diverse di un continuum, vi è invece un terzo filone interpretativo, appli- cato soprattutto dagli studiosi del Terzo Mondo, che – indica ancora la Gentili – vede la decolonizzazione come «il risultato della lotta vittoriosa dei nazionalismi del Terzo Mondo contro potenze coloniali indebolite». Il prin- cipio, come dice de Bosschère, è che «il decolonizzato è il vero decolonizza- tore, il vero liberatore di se stesso». In questa prospettiva, sintetizza Calchi Novati, «le potenze colonizzatrici non hanno mai contribuito spontanea- mente o di buon grado alla decolonizzazione, se non per salvare interessi che si supponeva di proteggere meglio riconoscendo l’indipendenza del territo- rio in questione – indipendenza formale o nominale. Colonizzazione e de- colonizzazione sono speculari ma in un’altra accezione: alla violenza dell’ag- gressione imperialista e dell’imposizione del potere coloniale fa riscontro la rivolta dei colonizzati». Gli studiosi che hanno utilizzato un approccio di questo genere, «così come non hanno dedicato soverchia attenzione alla na- tura dei processi che hanno provocato – all’interno delle potenze europee sviluppate – le spinte all’espansione imperialista e colonialista, dando per scontato che tali spinte fossero determinate dagli interessi dominanti dei Paesi avanzati, non si sono soffermati, a proposito della decolonizzazione, sulle motivazioni ‘europee’ delle concessioni e dei cedimenti degli Stati co- loniali, assumendo senz’altro a protagonisti i popoli colonizzati». In tale let- tura, è il termine stesso di decolonizzazione ad essere contestato, perché, per i nazionalisti e gli storici dei Paesi afro-asiatici, esso «sembra sottendere il di- stacco da una realtà che essi percepiscono comunque come estranea».
Ora, per coniugare lo studio sintetico del processo complessivo e l’ap- proccio analitico ai singoli casi in cui esso si frantuma, può essere utile – co- me suggerisce Guderzo – assumere come chiave interpretativa il triangolo di forze madrepatria-colonia-sistema internazionale. Leggere gli eventi della de- colonizzazione attraverso questo prisma, da un lato consente di tener conto in modo congiunto e non alternativo delle tre proposte esplicative prima in- dicate e dall’altro arricchisce la dialettica colonizzato/colonizzatore ricordan- done i fattori esogeni che la condizionarono. Gli avvenimenti possono cioè essere analizzati – e meglio compresi – nel costante riferimento all’interazio- ne di tali elementi, una interazione variabile nel tempo e nei singoli casi. In altri termini, posto che non è possibile – o resta comunque difficile – affer- mare in assoluto, senza precisi riferimenti spazio-temporali, che il motore della decolonizzazione sia stato solo uno dei vertici del triangolo, è invece possibile, per induzione dai singoli casi osservati, formulare ipotesi sulle in-
fluenze reciproche delle tre forze nei vari segmenti temporali e, ampliando l’indagine scientifica, ricostruire una mappa, per quanto sintetica, dell’inte- ro processo.