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veriera: era ora ancora più legittimo chiedersi, da parte dei Paesi extraeuro- pei, se si trattava di una guida indegna e se era quello il senso della sua «mis- sione civilizzatrice». L’idea dell’europeo che dominava il pianeta nel 1945 non esisteva più. I popoli europei, che avevano sognato di essere i primi del mondo, si ridestavano in una realtà che li vedeva dominati da due colossi, che erano bianchi ma non europei – o solo in parte europei. Sulla carta, è pur vero, i Paesi europei avevano ancora molto: ma era difficile dire quanto questa situazione sarebbe durata. Il prestigio di cui potevano continuare a godere presso i popoli coloniali era ormai molto ridotto: la resa della Francia, del Belgio e dei Paesi Bassi in Europa, l’umiliazione della Gran Bretagna sot- to i colpi del Giappone nel Pacifico, contribuirono a assottigliarlo. La su- premazia culturale dell’Europa, sulla quale la guerra civile del 1914-1918 aveva suscitato non pochi dubbi, scomparve, agli occhi dei popoli coloniali, dopo le scoperte del genocidio hitleriano. A ciò si aggiungeva un elemento psicologico che avrebbe avuto un certo rilievo nei diversi iter di decoloniz- zazione: per i britannici, che avevano saputo reagire a Hitler ed erano per questo vincitori a pieno titolo della guerra, era relativamente facile, sotto un profilo anche culturale, accettare il processo di decolonizzazione. Certo più facile rispetto alla Francia, per la quale qualsiasi ritiro sul piano imperiale avrebbe risvegliato la sindrome dell’umiliazione del 1940. Dal 1940 al 1942 la Francia, espulsa dall’Europa, era rinata in Africa, dove, con la guida di de Gaulle, si organizzarono le forze del Paese che volevano lottare contro le po- tenze dell’Asse: ciò contribuì a rafforzare il sentimento della dimensione afri- cana della politica di Parigi.

La sconfitta della Francia nel 1940 e la caduta del controllo europeo nel Sud-Est asiatico ebbero forti ripercussioni psicologiche sull’atteggiamen- to dei movimenti nazionalisti nei confronti delle metropoli. Le potenze dell’Asse, nella foga del loro successo, tentarono di svolgere, con l’aiuto di- retto e con la propaganda, una opera di destabilizzazione delle potenze co- loniali nemiche, cercando ascolto – e spesso trovandolo – presso i movi- menti nazionalisti, in territori che erano sotto loro occupazione o sotto loro influenza. Già dagli anni Trenta, radio specializzate italiane, e in seguito an- che tedesche, offrivano una importante tribuna agli argomenti nazionalisti, tribuna che era sfruttata da alcuni militanti arabi. Non stupisce che la «Gioventù hitleriana» servisse da modello alla creazione di movimenti di gio- vani nazionalisti in Libano, Siria, Egitto. Né che l’aiuto materiale offerto dal- la Germania agli iracheni fosse fondamentale nel sollevamento contro gli in- glesi nel 1941. La parentesi dell’occupazione giapponese, in particolare, rap- presentò in Asia un test della lealtà condizionata o della mancata risposta dei

popoli coloniali alle aspettative olandesi, britanniche o francesi e, determi- nando l’eclissi del potere europeo, accelerò il passaggio alla rivendicazione dell’indipendenza. Furono non a caso i domini asiatici (Indocina, Indonesia, subcontinente indiano ma anche i mandati mediorientali) quelli dove, per prima, si sviluppò l’ondata di decolonizzazione.

L’azione giapponese ebbe effetti importanti a lungo termine e non so- lo sul piano psicologico. Il sostegno dato da Tokyo ai movimenti nazionali- sti presentava tuttavia dei rischi di cui le élites nazionaliste erano perfetta- mente consapevoli. Si trattava, da parte del Giappone, di un impegno di non scarso rilievo: dall’equipaggiamento dell’Indian National Army dell’in- diano S.C. Bose, che si batteva contro i britannici, fino all’incoraggiamento a personalità o a organizzazioni politiche nazionaliste come in Indonesia, in Birmania, in Laos e in Cambogia o nella creazione di vere forze militari in Birmania e in Indonesia. Questa politica si ritorse contro i Giapponesi in Birmania e in Indonesia, dove il movimento nazionale seppe organizzare abilmente una suddivisione dei compiti. Ma le forze così messe in movi- mento, e le competenze tattiche e militari così acquisite, contribuirono in modo decisivo nella lotta contro l’indipendenza. I movimenti nazionalisti nelle Filippine, in Malesia e in Vietnam adottarono invece inizialmente una politica di resistenza all’occupante giapponese.

Come già nel primo conflitto mondiale, durante il secondo l’Europa dovette ricorrere, in modo anzi ancora più massiccio, alle risorse umane e materiali dei suoi domini asiatici e africani, trovandosi così a contrarre im- pegni – e a promettere ricompense – più difficili da ignorare, questa volta, a guerra finita. La rottura o la modifica dei legami politici, economici e commerciali tradizionali con le metropoli, unite alle necessità dell’econo- mia di guerra delle potenze europee, dettero un colpo di acceleratore all’in- dustrializzazione dei Paesi asiatici o africani, costretti di fatto, dalle difficoltà delle rispettive madrepatrie, a fabbricare da soli i prodotti indispensabili. Il ricorso a truppe coloniali fu un’arma a doppio taglio per i Paesi europei. La Gran Bretagna ne fece un grande uso ma queste truppe svolsero un ruolo decisivo anche nell’apporto della Francia Libera allo sforzo di guerra degli alleati. Questi militari divennero perfettamente consapevoli delle contrad- dizioni e delle debolezze dei loro dominatori e coloro che tornarono furo- no spesso stupiti dalla evidente discrasia tra i sacrifici fatti, gli ideali procla- mati e la situazione di disuguaglianza e di discriminazione che li attendeva nel loro Paese. Il contributo dei Paesi coloniali alla vittoria finale appariva come un debito che doveva essere saldato sotto il profilo delle riforme po- litiche. Si trattava di un debito imponente: gli indiani che combatterono a

fianco degli Inglesi erano più di 2 milioni nel 1945; i nordafricani rappre- sentavano, nel 1943-44, la parte più consistente dell’esercito francese nella campagna d’Italia.

L’interessamento dei due contendenti alle questioni coloniali, dappri- ma occasionale, divenne in seguito costante e sistematico allo scopo di at- trarre nell’uno o nell’altro campo le popolazioni soggette alla dominazione coloniale. Se da parte dell’Asse mancò un vero e proprio enunciato al ri- guardo, da parte delle democrazie occidentali il documento più significativo e più importante fu la Carta Atlantica, un documento in otto punti sotto- scritto dal presidente americano Roosevelt e dal premier britannico Churchill il 14 agosto 1941 – in un momento, cioè, in cui gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra, anche se ormai da tempo avevano fatto una precisa scelta contro i Paesi dell’Asse e, in particolare, nella primavera del 1941, avevano approvato la «Legge Affitti e Prestiti» che stabiliva un loro considerevole impegno a favore della coalizione antinazista. Nella Carta Atlantica doveva trovare espressione l’ideologia degli occidentali destinata a rappresentare il termine di riferimento per le future conferenze di pace.

Roosevelt e Churchill «ritengono giusto render noti alcuni principi co- muni della politica nazionale dei loro due rispettivi Paesi, sui quali principi essi basano le loro speranze per un avvenire migliore del mondo» si diceva nel preambolo. Nel primo punto, si precisava che «essi non mirano ad espansione, né territoriale, né d’altro genere» e nel punto 2, si affermava: «desiderano che nessun cambiamento territoriale avvenga, a meno che non sia in accordo con la volontà liberamente espressa dei popoli interessati». Nel punto 3 si dichiarava che essi «rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale desiderano vivere, e intendono che diritti sovrani e governo autonomo vengano restituiti a coloro che ne sono stati pri- vati con la forza». Al punto 4 si stabiliva che essi «compiranno ogni sforzo, senza pregiudizio di obbligazioni già esistenti, affinché venga incoraggiato il godimento da parte di tutti gli Stati, grandi o piccoli, dell’accesso su piede di parità al commercio e alle materie prime del mondo, secondo le esigenze della loro prosperità economica». Al punto 5 si affermava: «desiderano sta- bilire la collaborazione più completa fra tutte le nazioni del campo econo- mico, con lo scopo di assicurare a tutte miglioramenti nelle condizioni dei lavoratori, avanzamento economico e sicurezza sociale». Al punto 6 era pre- cisato che «dopo la distruzione definitiva della tirannide nazista, auspicano di vedere stabilirsi una pace che permetta ad ogni nazione i mezzi di esiste- re con sicurezza entro i propri confini, tale da consentire che tutti gli uomi- ni in tutti i Paesi possano vivere liberi dal terrore e dalla miseria». «Una pa-

ce siffatta», si indicava al punto 7, «dovrebbe consentire a tutti gli uomini di traversare i mari e gli oceani senza impedimenti». Infine, al punto 8, si dice- va: «Essi ritengono che tutte le nazioni del mondo, tanto per ragioni reali- stiche, quanto per ragioni spirituali, debbano addivenire all’abbandono del- l’uso di forze armate, dato che alcuna pace non potrà venir mantenuta, qua- lora armamenti di terra, mare o cielo continuino a venire impiegati da na- zioni che minaccino o possano minacciare aggressioni al di là delle frontie- re». Per questo era essenziale «il disarmo di tali nazioni e lo stabilimento di un sistema più largo e permanente di sicurezza generale».

Era in nome di questi propositi libertari che fu richiesta la partecipa- zione dei popoli coloniali alla lotta contro la tirannia. A guerra finita, era im- possibile o comunque difficile rinnegare gli ideali per i quali si era combat- tuto e, in concreto, mettere in discussione l’art. 3 della Carta Atlantica che stabiliva che ogni popolo aveva diritto di scegliere la forma di governo sotto la quale voleva vivere. In realtà il primo ministro Churchill, alfiere dell’im- pero nel periodo fra le due guerre, intendeva far valere l’articolo 3 della Carta Atlantica solo nei confronti dei territori europei liberati dall’occupazione delle potenze dell’Asse, nel timore che una sua applicazione integrale com- portasse la dislocazione dei domini britannici. Roosevelt, al contrario, sotto- lineò con energia che il diritto di autodeterminazione valeva su scala mon- diale, pur riconoscendo che la maggior parte delle colonie non erano anco- ra mature per l’indipendenza e quindi dovevano essere adeguatamente pre- parate con l’applicazione di formule analoghe a quelle del mandato. Ma, al di là di queste sfumature, che pure sarebbero state, negli anni successivi, al- l’origine di serie incomprensioni, la guerra era stata presentata dagli Alleati come una guerra per la democrazia e per la libertà ed i sacrifici ai domini era- no stati chiesti e giustificati in nome di questi valori: e i popoli coloniali ap- plicarono questa componente ideale al loro caso nazionale.

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L’Africa e l’Asia in guerra

Il continente africano divenne rapidamente una posta in gioco im- portante nel conflitto, molto più che durante la guerra del 1914-18. Fu an- che teatro di operazioni militari, le più importanti delle quali si sviluppa- rono nel novembre 1942, al momento dello sbarco anglo-americano in Marocco e in Algeria.

La posta in gioco aveva natura inizialmente strategica, poiché l’Africa era al crocevia di numerosi assi marittimi di importanza fondamentale per

i belligeranti. Al Nord, la costa mediterranea – la Libia e i confini dell’Egitto – si trovavano al cuore della lotta della Gran Bretagna contro l’Asse. Gli attacchi tedeschi rimisero in questione il controllo britannico su Suez e sulla via per le Indie. Il Maghreb, inizialmente «neutralizzato» come il resto dell’impero francese, diventò l’oggetto di accese rivalità per la sua vi- cinanza alla Sicilia e a Gibilterra. Nell’Africa Occidentale, il porto di Dakar, testa di ponte per l’oceano, rappresentava un pericolo per gli anglo-ameri- cani perché, se fosse caduto in mano nemica, i tedeschi avrebbero avuto a disposizione un asso nella manica nella battaglia dell’Atlantico. Al Sud, la rotta del Capo era troppo lontana per essere minacciata dalla marina tede- sca ma esisteva sempre una minaccia giapponese. A Est, la presenza di co- lonie italiane nel Corno d’Africa, fra il mar Rosso e l’Oceano Indiano, co- stituiva un altro pericolo sulla via delle Indie. Non è un caso che i britan- nici (con l’aiuto di francesi della Francia Libera, di sudafricani bianchi e di truppe indiane) non avessero tardato ad attaccare questa regione. Tra il feb- braio e l’aprile 1941, la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia furono poste sotto con- trollo degli Alleati. Quanto all’isola di Madagascar, la conquista da parte de- gli Alleati era conclusa alla fine del 1942.

L’Africa non era importante solo in una prospettiva strategica, lo era anche da un punto di vista politico. Se Hitler, malgrado qualche velleità, non si interessava davvero all’Africa, diverso era il caso dei Paesi belligeranti con impegni coloniali. La Gran Bretagna e l’Italia combattevano in Africa non solo perché la strategia di guerra lo imponeva ma anche per garantire, per il dopoguerra, il mantenimento dei loro possedimenti. Quanto alla Francia di Vichy, che non era in guerra, non aveva preoccupazioni strategiche ma con- divideva con Londra e Roma l’obiettivo politico di conservare l’impero.

Dal punto di vista dei popoli colonizzati, il problema politico diventa- va un dilemma e quasi una scommessa. Essi potevano profittare delle diffi- coltà della Gran Bretagna e della sconfitta della Francia per avviare il loro cammino verso l’indipendenza: ma in tal caso si sarebbero schierate con le potenze dell’Asse e tale scelta avrebbe potuto essere rischiosa. O, al contra- rio, avrebbero potuto aderire alla causa delle democrazie, preparandone la vittoria e anzi collaborando concretamente al successo finale, con la speran- za di essere ricompensati per la loro fedeltà all’indomani della guerra – ma si trattava solo di una speranza, anche se corroborata da una serie di promesse di avanzamento costituzionale fatte dalle metropoli, e quindi, anche in que- sto caso, era implicita l’accettazione di un rischio.

Di fronte a questo dilemma, alcuni nazionalisti marocchini, algerini e tunisini guardavano con simpatia dalla parte dell’Asse; altri invece non dis-

simulavano la loro ostilità verso la Germania e l’Italia. L’Egitto era in una si- tuazione ambigua: il trattato concluso con la Gran Bretagna nel 1936 con- fermava e riconosceva l’indipendenza concessa unilateralmente da Londra nel 1922 ma autorizzava le forze militari inglesi a garantire la difesa del ca- nale di Suez. Da questa ambiguità sortiva un paradosso: il Paese era la prin- cipale base britannica in Africa del Nord e del Medio Oriente (con 500 000 soldati) ma il re Faruk dichiarava che il suo Paese era fuori dal conflitto e, davanti ai successi tedeschi, non nascose la sua simpatia per Berlino. Nel febbraio 1942 gli inglesi ruppero gli indugi e costrinsero il re a scegliere co- me primo ministro il filobritannico Nahas Pascia: un’operazione, quest’ulti- ma, che fu percepita come un’umiliazione da parte di alcuni ufficiali nazio- nalisti come Neguib e Nasser, che dieci anni dopo guideranno la defene- strazione di Faruk.

Se in Africa Subsahariana l’eco della propaganda dell’Asse restava assai remota, nell’Unione Sudafricana il generale Smuts dette un concreto aiuto alla causa britannica, mobilitando 345.000 uomini (ciò che rappresentava, nel 1942, un esercito cinque volte quello delle forze della Francia Libera), ot- tenendo in cambio della politica filobritannica l’accettazione da parte di Londra di una politica di segregazione razziale contro la maggioranza nera.

La svolta per il continente africano fu rappresentata dagli eventi della fine del 1942, con l’operazione Torch (cioè lo sbarco anglo-americano in Africa del Nord) e la vittoria di El Alamein. Nello stesso periodo l’Africa Oc- cidentale francese che, contrariamente all’Africa Equatoriale francese, era ri- masta fedele a Vichy, si allineava alla causa degli Alleati.

Dopo di allora, l’Africa cessò di essere un teatro di operazioni, ma la guerra non era finita per gli africani perché furono in molti a combattere in Europa fino alla vittoria finale degli Alleati. Un sacrificio, il loro, che con- terà molto sul futuro processo di decolonizzazione. Perché, se la prima guerra mondiale aveva messo in movimento la situazione nel Medio e nell’Estremo Oriente, la seconda fece di fatto entrare l’Africa in una fase di cambiamento. I tempi per il pieno sviluppo di un processo ancora in gran parte solo accennato erano percepiti, sia dalle potenze coloniali, sia dai ca- pi locali, come estremamente lunghi ma il primo, fondamentale, passaggio era stato superato.

Quanto all’Asia, il Medio Oriente, che era stato un teatro di guerra im- portante durante la grande guerra (a causa della presenza dell’impero otto- mano nell’alleanza degli imperi centrali, della rivolta araba, degli interventi militari della Gran Bretagna che aveva fatto di Londra la prima potenza del- la regione), nel secondo conflitto fu un campo di battaglie assai meno nu-

merose, perché gli Alleati riuscirono a contenere la pressione tedesca dall’al- tra parte del canale di Suez, nel deserto nord-africano. Ciò nonostante, co- me si vedrà, i contraccolpi politici della guerra non furono irrilevanti nean- che in questa regione.

Molto più a Oriente, l’India britannica era stata toccata non margi- nalmente dal conflitto mondiale. Non solo numerosi erano gli indiani pre- senti nell’esercito inglese su tutti i fronti ma, a partire dal 1942, i Giapponesi fecero pesare una pericolosa minaccia militare sul Paese. I capi del partito del Congresso si trovarono di fronte a una scelta e presero posizioni diverse: co- me ricordato, Subhas Chandra Bose optò per una collaborazione con la Germania e il Giappone e sollecitò gli indiani a combattere a fianco delle po- tenze del patto Tripartito; Gandhi e Nehru rifiutarono questa politica e ten- tarono di ottenere da Londra l’indipendenza immediata in cambio di un im- pegno massiccio allo sforzo di guerra. Di fronte alla chiusura delle autorità inglesi, il partito del Congresso votò, l’8 agosto 1942, la mozione Quit India che chiedeva ai britannici di lasciare l’India immediatamente, minacciando, in caso di risposta negativa di Londra, un movimento di disobbedienza ci- vile. La reazione inglese fu immediata. Gandhi, Nehru e i capi del Congresso furono arrestati, ciò che provocò scioperi e rivolte repressi violentemente dai britannici. La Lega Musulmana, più prudente nei suoi rapporti con la Gran Bretagna, chiedeva invece a Londra, per il dopoguerra, la costituzione di uno Stato musulmano, separato dall’India, ipotesi rigettata da Gandhi e Nehru. In questo senso la seconda guerra mondiale preparò sì il terreno per l’indi- pendenza ma anche per la partizione del Paese.

L’Asia del Sud-Est, l’Estremo Oriente e molti arcipelaghi del Pacifico costituirono l’immenso impero conquistato dai giapponesi che inflissero duri colpi ai britannici. In particolare la caduta di Singapore, potente pun- to di appoggio per la flotta inglese, simbolo dell’interesse economico, della presenza militare e della volontà di potenza di Londra nel continente, fu un evento carico di conseguenze, «il peggior disastro e la più grossa capitola- zione della storia inglese», l’avrebbe definita Winston Churchill. Fu un av- venimento di primo piano per gli eventi bellici, perché rese possibile la per- dita della Malesia, della Birmania e la conquista giapponese delle Indie olandesi. Rappresentò inoltre una pietra miliare nella storia della decolo- nizzazione, perché segnò la disfatta, ritenuta fino lì impossibile, di un siste- ma di predominio considerato eterno ed esercitò sotto questa luce una profonda influenza, costituendo per i popoli delle colonie una sorta di choc psicologico, tanto maggiore in quanto la Gran Bretagna era stata sconfitta da una potenza asiatica.

Nei territori occupati, Tokyo da un lato impose il terrore e dall’altro sollecitò l’anticolonialismo contro la Gran Bretagna, la Francia, i Paesi Bassi e più in generale evocò la solidarietà asiatica contro tutti i bianchi, compresi gli americani, con la parola d’ordine «L’Asia agli Asiatici». Per le popolazioni conquistate le scelte furono difficili. Alcuni nazionalisti che lottavano per l’indipendenza del loro Paese accettarono la politica di col- laborazione, come Sukarno e Hatta nelle Indie Olandesi o Ba Maw in