Se quasi tutte le interpretazioni economiche dell’imperialismo non sono sufficienti a spiegare interamente il fenomeno, argomenta Fieldhouse, è neces- sario individuare ipotesi alternative o complementari. In effetti molti storici hanno spiegato l’imperialismo sulla base delle preoccupazioni politico-strategi- che degli Stati europei, dello sciovinismo dilagante dell’opinione pubblica, op- pure facendolo derivare dal sorgere e dall’acuirsi di problemi esterni all’Europa, nella periferia, in relazione ai quali l’imperialismo europeo fu una reazione.
Circa il primo tipo di approccio, quello che è stato chiamato «l’imperiali- smo degli statisti», è possibile spiegare l’imperialismo in termini di calcoli razio- nali dei ministri e degli apparati amministrativi delle grandi potenze. L’ipotesi si fonderebbe sull’analisi del nuovo carattere delle relazioni internazionali nel pe- riodo successivo al 1870 circa, quando si assistette a uno sviluppo di alleanze tra le grandi potenze che tuttavia, prima di assumere i caratteri rigidi della vigilia del 1914, attraversarono fasi di grande fluidità. In particolare, nel periodo critico dell’espansione coloniale, prima del 1890 circa, sussisteva una certa elasticità nel- le relazioni internazionali. Sotto questa luce, le colonie potevano acquisire nuo- va importanza come elemento di un delicato equilibrio delle forze internazio- nali. Già verso la metà del secolo le ancora poche potenze interessate in materia notevole alle colonie, la Gran Bretagna, la Francia e la Russia, tendevano ad as- sumere atteggiamenti minacciosi quando sospettavano che una delle concor- renti si stesse infiltrando nella propria sfera di interessi: da qui l’ostilità anglo-rus-
sa in Afghanistan e le rivalità anglo-francesi in Africa Occidentale e nel Pacifico Meridionale. Dopo il 1870, con un numero maggiore di grandi potenze – ba- sti considerare la novità rappresentata dall’unificazione della Germania e dell’Italia e dalla loro conversione all’imperialismo – e con contatti sempre cre- scenti tra i loro cittadini in aree extraeuropee, i problemi coloniali erano colle- gati sempre maggiormente all’equilibrio tra potenze in Europa.
I vantaggi che i governanti europei speravano di ottenere da nuovi pos- sedimenti coloniali potevano essere sia positivi – ottenere dei reali vantaggi – sia negativi – evitare svantaggi. Da un punto di vista positivo, le colonie po- tevano servire a scopi politici a seconda del carattere e della situazione delle varie potenze. Potevano sembrare attraenti per i nuovi Paesi come la Germania e l’Italia, come complemento indispensabile di status: sul piano pratico, per divenire potenze mondiali, i Paesi avevano bisogno di basi in tutti i continenti, altrimenti i propri cittadini si sarebbero trovati alla mercé dei governi delle altre potenze. A ciò, per le potenze navali, si aggiungevano fattori logistici. Se la Germania, l’Italia o gli Stati Uniti volevano diventare potenze mondiali, dovevano costruire flotte importanti e avevano bisogno di basi in tutto il mondo. Per essere considerate grandi potenze, inoltre, vi era la necessità di assicurarsi materie prime strategiche, dato che nessun grande Paese industriale accettava di dipendere da altri Paesi, che potevano diveni- re ostili, per le proprie necessità militari. Da qui le giustificazioni per assicu- rarsi territori che producevano rame, minerali di ferro, gomma, petrolio, ecc. Un altro problema era costituito dall’emigrazione. Se la potenza militare di- pendeva in parte dalla popolazione, che forniva coscritti e tasse, ogni emi- grante poteva rappresentare una seria perdita. Occorreva scegliere le colonie adatte: gli emigranti inglesi potevano mantenere la cittadinanza inglese quando si stabilivano in colonia, gli italiani e i tedeschi che emigravano era- no invece risorse umane definitivamente perse per la metropoli.
Vi era infine una utilizzazione diplomatica delle colonie. Le potenze coloniali entro certi limiti consideravano i propri possedimenti esteri come un elemento delle loro relazioni internazionali, nel senso che il loro speciale interesse per una zona poteva essere un elemento di negoziato in relazione a altre questioni. Così, ad esempio, quando tra il 1870 e il 1890 la Francia, l’Inghilterra e Leopoldo di Belgio avanzarono una serie di rivendicazioni in Africa e in Oriente, le altre potenze avanzarono la pretesa di influire diretta- mente su tali questioni, mettendosi in grado di richiedere vantaggi com- pensativi in problemi o regioni che le toccavano più da vicino. Se questi era- no alcuni dei vantaggi che i governi degli Stati non coloniali pensavano di potersi assicurare avanzando pretese per la formazione di nuove colonie, la
posizione degli Stati coloniali era influenzata entro certi limiti dagli stessi ele- menti: in sintesi un maggior numero di colonie poteva dare più prestigio, maggiore sicurezza ai propri cittadini, più basi per le flotte, nuove fonti di materiali strategici, più terreno per gli emigrati, aree maggiori per concen- trarvi carcerati, un maggior numero di elementi di negoziato.
Il problema appariva in modo molto diverso a seconda dell’osservato- rio. Vista dai grandi Paesi coloniali – Francia, Russia, Olanda e soprattutto Gran Bretagna –, l’espansione di qualsiasi altra potenza intaccava certamente gli interessi preesistenti, reali o potenziali che fossero. Virtualmente non vi era alcuna zona in cui la Gran Bretagna non avesse territori o forti interessi o in- fluenza. La Gran Bretagna poteva anche non voler effettuare nuove annessio- ni ma, se e quando qualche altra potenza si apprestava a effettuarne a proprio vantaggio – nell’Oceano Indiano, nel Pacifico Meridionale o nei Caraibi –, gli statisti inglesi prendevano precauzioni per proteggere i propri interessi. Il discorso, su scala diversa, era analogo per le altre potenze coloniali o navali. Da questo punto di vista l’imperialismo può esser considerato un processo cumulativo di interventi a scopi precauzionali. Dal momento in cui un qual- siasi Stato europeo o i suoi cittadini davano inizio a un processo di annessio- ne di un nuovo territorio, i governanti di altri Paesi erano costretti a reagire, bloccando il tentativo o chiedendo compensi sia perché si riteneva che fosse- ro toccati interessi nazionali, sia perché pareva inopportuno tralasciare occa- sioni preziose. L’imperialismo sarebbe, da questa prospettiva, un derivato del- la cautela, e non della bellicosità, dei governi, i quali puntavano soprattutto a proteggere gli interessi nazionali in un panorama in movimento.
L’imperialismo poteva anche assumere obiettivi negativi, essere cioè la reazione alla preoccupazione degli uomini di Stato di disinnescare le tensio- ni pericolosamente esplosive esistenti nelle relazioni internazionali alla fine dell’Ottocento. Le colonie potevano rappresentare falsi scopi per distrarre i cittadini da situazioni conflittuali in Patria e nel contesto europeo, fornendo nel contempo, una valvola di sicurezza per la bellicosità degli sciovinisti e de- gli ambienti militari. Così, la Francia poteva recuperare in Africa e in Asia almeno parte del prestigio perso a Sédan; l’Italia, troppo debole sul conti- nente, poteva acquisire uno status di grande potenza con conquiste che ap- parivano fino a un certo punto facili al di là del Mediterraneo.
Queste due spiegazioni, solo apparentemente alternative, se accettate, spiegano l’imperialismo come fenomeno politico piuttosto che economico. La spiegazione politica, nel suo complesso – afferma Fieldhouse –, presenta tuttavia alcune incertezze nella applicazione ai casi concreti. In generale e in primo luogo non ci sono prove che i politici o gli apparati amministrativi di
qualsiasi grande potenza formulassero piani dell’espansione coloniale negli anni 1870-90 sulla base di una teoria che privilegiasse i vantaggi politici del- la acquisizione di territori. Sembra piuttosto che l’opportunità di una valo- rizzazione politica dell’imperialismo fosse successiva e non precedente alla conquista delle colonie e quindi più effetto che causa di essa.
In secondo luogo sono rari i casi in cui i governi europei si impegna- rono in imprese coloniali a causa di pressioni irresistibili di forze interne o per calcoli elettorali. Il caso più evidente, da questo punto di vista, è la con- versione di Bismarck all’imperialismo dovuta alla necessità di acquisire l’ap- poggio politico dei nazional-liberali all’interno.
In terzo luogo le considerazioni strettamente politiche influenzarono probabilmente gli statisti europei in senso negativo, come preoccupazione di proteggere interessi extraeuropei di fronte a minacce, presenti o potenziali, di altri Paesi. Ciò era particolarmente vero in caso di grande potenze colo- niali, come la Gran Bretagna, i cui governanti, checché potessero essere con- trari all’imperialismo per considerazioni di costi e di difficoltà, ritenevano che esistessero settori di preminente interesse nazionale che dovevano essere protetti. Di fronte alle minacce della Francia o della Russia, in Africa o sul- la via delle Indie, l’Inghilterra avrebbe potuto fare ricorso ad annessioni pre- ventive non perché desiderasse annettere nuovi territori ma perché decisa a impedire che altri se ne impossessassero. Tale atteggiamento era comune a uomini di Stato e spiega come vada tenuta in seria considerazione l’ipotesi di considerare l’imperialismo come una forma passiva piuttosto che attiva nel periodo cruciale dell’imperialismo, i decenni successivi al 1880; come di- fesa degli interessi nazionali all’estero, una protezione che poteva giungere fi- no alla forma del controllo territoriale.
Un filone interpretativo dell’imperialismo riconduce il fenomeno all’e- voluzione degli orientamenti delle masse. Nella storiografia dell’imperialismo moderno vi sono molte tesi che tentano di spiegare la nascita del nazionalismo di massa che si concretizzò nelle pressioni imperialistiche nei cinquanta anni successivi al 1870 circa. Tali tesi propongono diverse interpretazioni del carat- tere della società europea del periodo. In primo luogo vi è la spiegazione che venne formulata dall’economista austriaco J.A. Schumpeter in un famoso sag- gio, Sociologia dell’imperialismo, pubblicato nel 1913. Secondo Schumpeter l’imperialismo non era il prodotto di nuovi sviluppi economici, sociali o poli- tici che si verificavano in Europa ma l’espressione di tendenze ataviche di uno Stato all’espansione. Questa disponibilità all’espansione non era, come soste- neva Lenin, il prodotto del capitalismo avanzato ma invece un residuo della sostanza feudale dell’Europa precapitalistica: in questo senso l’imperialismo sa-
rebbe scomparso solo con la scomparsa degli elementi precapitalistici della vi- ta sociale.
Schumpeter sostiene che la mentalità politica e sociale non può essere considerata un puro riflesso della struttura di produzione (come affermavano i marxisti) ma che anzi, vi è la «persistenza» dei modi abitudinari di pensare e sentirsi debitori a rapporti di produzione di epoche passate. Per Schumpeter, l’imperialismo è una forma di «atavismo», l’eredità consegnata alla società industriale da un mondo precapitalistico. Secondo Schumpeter tutti gli imperialismi, pur diversi nei particolari, hanno in comune tratti ge- nerali che permettono alla sociologia di interpretarli come manifestazioni di un unico fenomeno. Questi tratti risiedono in elementi di varia natura: «1. il fatto incontestabile che nella storia del genere umano svolgono un ruolo no- tevole tendenze prive di oggetto all’espansione violenta; 2. la spiegazione di questo bisogno risiede nelle necessità vitali di situazioni che hanno plasmato popoli e classi costringendoli, se non volevano estinguersi, a diventare belli- cose» e queste «disposizioni psichiche e strutture sociali acquisite in tali situa- zioni in un passato lontano tendono a perpetuarsi ed essere operanti molto tempo dopo che hanno perduto il loro senso e la loro funzione di preserva- zione della vita; 3. l’esistenza di fattori sussidiari che facilitano la sopravvi- venza di tali disposizioni e strutture, fattori che si possono suddividere in due gruppi: da un lato l’inclinazione alla guerra viene essenzialmente alimentata e promossa dagli interessi di politica interna dei ceti dominanti; dall’altro, rie- sce a mantenere viva l’influenza di tutti coloro che si attendono da una poli- tica bellicista vantaggi individuali sul piano economico o sociale».
Da queste premesse, Schumpeter definisce in questi termini l’impe- rialismo:
L’imperialismo è una forma di atavismo, esso rientra nel vasto gruppo di quelle sopravvivenze di epoche remote, che hanno una parte così im- portante in ogni situazione sociale concreta; di quegli elementi di ogni situazione sociale concreta che si spiegano con le condizioni di vita non già del presente ma del passato e con modi di produzione non attuale ma trascorsi. È un atavismo della struttura sociale e, insieme, delle abi- tudini psichiche e individuali di reazione emotiva. Poiché le esigenze vi- tali che lo hanno generato si sono per sempre esaurite, anch’esso deve a poco a poco scomparire. Deve scomparire come elemento strutturale, perché la struttura sulla quale si basava volge al declino cedendo il po- sto ad altre strutture che non le lasciano spazio e che eliminano i fatto- ri di potere sul cui fondamento essa si ergeva; deve scomparire come elemento di reazioni emotive abituali, a causa del moto di crescente ra-
zionalizzazione della vita e della psiche collettiva, per cui antiche esi- genze funzionali vengono assorbite da nuovi compiti.
In alti termini, secondo Schumpeter, la moderna società industriale sa- rebbe essenzialmente ostile al militarismo e alla guerra perché il capitalismo ha determinato «un’ostilità di principio alla guerra, all’espansione, alla di- plomazia segreta, agli armamenti» creando «metodi di prevenzione della guerra, di regolamento pacifico delle controversie fra Stati». «Inoltre l’affer- marsi del capitalismo ha dato vita sia a un tipo di operaio industriale che è apertamente antimperialistia, sia a partiti pacifisti molto forti».
Altri hanno sostenuto, su quest’ultimo punto, la tesi opposta. Hilferding, esponente del pensiero ortodosso neomarxista, riteneva che pro- prio dal capitalismo avanzato nasceva un nuovo entusiasmo per l’impero, specie nella borghesia mercantile. Di fronte agli ostacoli che il capitalismo fi- nanziario incontrava nella sua azione economica esterna, la borghesia ab- bandonava il suo pacifismo liberale e sollecitava il governo a sopraffare le re- sistenze frapposte ai suoi commerci dagli indigeni. La borghesia adottava quindi una ideologia razzista, sostenendo il diritto naturale delle società avanzate di dominare i popoli arretrati di altri continenti.
Anche Hobson e altri liberali inglesi del primo Novecento utilizzavano argomenti simili con la differenza tuttavia che, a loro avviso, l’opinione pub- blica era stata portata a sostenere e incoraggiare operazioni imperialiste con una campagna stampa volutamente distorta e, se invece adeguatamente educata, avrebbe negato qualsiasi appoggio a mire imperialiste. Come rileva Hobsbawm, «non c’è dubbio che in vari Paesi l’imperialismo era popolarissimo fra i nuovi ceti medi e impiegatizi. Molto più scarsi sono gli indizi di un entu- siasmo spontaneo dei lavoratori per le conquiste e tanto meno per le guerre co- loniali o di un loro grande interesse per le colonie nuove o vecchie [...]. Il suc- cesso dei tentativi di istituzionalizzare l’orgoglio imperialistico, per esempio in Inghilterra con l’istituzione (1902) di un Empire Day o giornata dell’impero, si fondava in gran parte sulla mobilitazione del pubblico coatto delle scolaresche».
La maggior parte delle altre interpretazioni dell’imperialismo come feno- meno ideologico possono essere grossolanamente ricondotte a due categorie: coloro che lo considerano come l’effetto di un intensificarsi del nazionalismo e quelle che lo percepiscono piuttosto come il risultato di nuove teorie razziali.
L’ipotesi più accreditata sostiene che, dopo il 1870 circa, il nazionali- smo popolare si volse verso l’Africa e l’Asia per ragioni che variavano da Paese a Paese. Se per la Germania e l’Italia, ad esempio, si trattava, una vol- ta compiuta l’unità nazionale, si acquisire uno status preciso di grande po-
tenza, gli Stati Uniti, una volta realizzato il «destino manifesto» con l’occu- pazione del territorio fra un oceano e l’altro, manifestarono ambizioni ana- loghe; in Francia, dopo la disfatta del 1870-71, si trattava di recuperare il prestigio nazionale e persino la Gran Bretagna, pur «antimperialista» alla metà dell’Ottocento, era spinta ad affermare la propria presenza all’estero per non lasciarsi scavalcare da altre potenze.
A questa ipotesi nazionalista si è affiancata una teoria che si basa sulla crescita del razzismo nel tardo Ottocento, motivata sia dalla considerazione oggettiva dei vantaggi di cui l’Europa godeva rispetto ad altre società con- temporanee in termini di tecnologia, forme di governo, organizzazione so- ciale, ecc., sia dal diffondersi di teorie neodarwiniste sulla evoluzione socia- le. Da qui discendevano ipotesi metascientifiche riguardo, da un lato, il prin- cipio della selezione naturale che rendeva necessario la conquista dei popoli «inferiori» per garantire l’evoluzione delle qualità delle razze «superiori», dal- l’altro, il dovere morale della razza superiore di svolgere una missione civi- lizzatrice. In questa prospettiva l’imperialismo appariva come un dettato del- le leggi naturali stabilite dalla moderna genetica.
In tutti i casi – avverte Fieldhouse –, ciò che è importante, nella ricer- ca di modelli esplicativi dell’imperialismo, non è tanto capire i motivi per i quali sul finire dell’Ottocento si siano sviluppati movimenti ideologici a fa- vore dell’imperialismo ma piuttosto cercare di stabilire se essi ebbero un’in- fluenza importante nel determinare gli eventi. Per questo sarebbe necessario dimostrare anzitutto che, al di là delle motivazioni originarie, la pressione imperialistica popolare era molto forte prima dell’espansione successiva al 1880 circa; in secondo luogo, che i governi furono sollecitati verso imprese imperialistiche perché trascinati soprattutto dall’entusiasmo popolare. Su questo secondo aspetto è difficile fare chiarezza perché è difficile provare che questa pressione esistette ma è parimenti difficile provare che non esistette. Più facile è verificare la credibilità di queste teorie con l’applicazione di due criteri: l’uno cronologico e l’altro causale. In altri termini: i movimenti im- perialisti popolari erano forti e influenti al momento che interessa? E anco- ra: è possibile esaminare le circostanze delle varie annessioni territoriali e de- terminare in termini specifici l’influenza dell’opinione pubblica? Se per ri- spondere alla seconda domanda non si può che analizzare ogni singolo caso, per sciogliere la prima, legata alla cronologia, è sufficiente ricordare che nel- la maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale trascorse un certo perio- do di tempo tra la formulazione e la diffusione di ideologie imperialistiche da parte di un numero ristretto di entusiasti e il momento in cui essi gua- dagnarono un appoggio consistente nell’opinione pubblica o politica. Ora,
dall’analisi dei casi più significativi – Germania, Gran Bretagna e Francia – appare chiaro che una piccola minoranza di intellettuali europei, nel ven- tennio 1870-90, furono attratti da temi legati all’imperialismo e crearono piccole associazioni per propagare le loro idee. Tra il 1880 e il 1890, però, queste associazioni erano ancora troppo poche e troppo poco efficaci politi- camente per costringere un governo altrimenti non disposto ad avviare una politica imperiale. Un genuino entusiasmo popolare per le colonie divenne evidente solo dopo il 1890 e anche allora rimase episodico e imprevedibile. Più che origine del moderno imperialismo, l’imperialismo delle masse ap- pare un derivato di esso, un effetto più che una causa.
3
L’interpretazione periferica
Tutte le spiegazioni dell’espansione europea considerate fino a ora han- no tre elementi in comune: sono tutte eurocentriche, nel senso che la loro attenzione è concentrata su problemi e idee interni all’Europa e al Nord America; tutte considerano l’imperialismo un fenomeno attivo: l’Europa, per ragioni diverse, acquisisce deliberatamente nuove colonie; il problema viene analizzato tenendo conto di un contesto temporale ristretto, quello degli ultimi venti-venticinque anni dell’Ottocento.
L’interpretazione periferica dell’imperialismo suggerita da Fieldhouse rovescia la prospettiva, basandosi sull’ipotesi che la colonizzazione può aver costituito la reazione dei poteri metropolitani a stimoli esterni derivati dalla periferia. In altri termini quando e solo quando una supremazia di fatto im- perialistica, legata a una supremazia economica e militare, era sufficiente a garantire la penetrazione europea, essa era sufficiente allo sviluppo della stes- sa. Ma, in presenza di problemi, gli interessi europei richiesero un controllo politico diretto per difendere i propri interessi, oppure, le cose nella perife- ria si deteriorano fino al punto da spingere i governi europei a stabilire il lo- ro controllo formale sul territorio. In termini diversi e analogamente gene- rali, le relazioni esistenti tra europei e non europei attraversarono, nel perio- do 1870-90, una fase di incertezza che rendeva necessario un riassetto. Contemporaneamente il proliferare delle attività europee nel mondo ester- no, specialmente nelle zone in cui le strutture politiche erano insufficienti a