La colonizzazione non è stata un’esperienza vissuta sperimentalmente, in vitro, ma una serie di eventi effettivamente accaduti, ciascuno con sue proprie caratteristiche e in determinate epoche. Fu un fenomeno che pro- vocò una vera rivoluzione nelle società colonizzate, sia prima del 1870 sia e soprattutto nell’età moderna-contemporanea. Fu una rivoluzione lenta, ignorata e non spettacolare, ma essa fu certo il fenomeno di più profonda trasformazione e di più esteso cambiamento che abbia investito il pianeta. Alla fine del XV secolo, l’uomo non aveva ancora preso le misure esatte del globo. Se Colombo, Vasco de Gama, Magellano hanno avvicinato e saldato gli angoli del mondo, fu la colonizzazione a fare saltare le barriere, mesco- lando uomini, prodotti, civiltà. Nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, tutto il globo era investito dal cambiamento. Il progresso scienti- fico, quello tecnologico, quello nei trasporti, amplificarono e ampliarono la portata di tali cambiamenti poiché resero i contatti tra coloni e colonizzati da sporadici in sistematici. La rete che si stendeva sulle cosiddette società in- digene si faceva, mano a mano, a maglie sempre più fitte.
Le società indigene con cui il rapporto coloniale si attuò erano profon- damente eterogenee, ma un tipo di esperienze spesso le accomunava. Erano società protette, isolate, mondi politici separati o autonomi, nei quali, im- provvisamente, irrompeva, con il mondo industrializzato, qualcosa di total- mente nuovo e sconosciuto. Si trattava di società a stadio diverso di svilup- po: dal Marocco, governato da una monarchia feudale, alla Nuova Guinea che viveva come all’età della pietra, a un’India divisa socialmente in caste. Dal punto di vista religioso si andava dall’idolatria a forme di monoteismo pre-cristiano, dall’animale-totem, all’imperatore-Dio, da Buddha a Confucio a Maometto. I pigmei non conoscevano l’agricoltura, forse non avevano neanche una lingua; la religione islamica possedeva una forza e una coeren- za che proprio allora rinascevano. Se è impossibile generalizzare per descri- vere in modo uniforme una realtà che uniforme non era, è tuttavia utile sem- plificare. Se si considerano le società più remote o arretrate, come le tribù negro-africane o oceaniche, la società era caratterizzata da un poderoso sen-
so comunitario; dalla considerazione della famiglia come cellula base; dal la- voro fatto per la comunità; dall’obbligo di rispetto verso culti ancestrali e tabù; da matrimoni combinati tra famiglie.
Dal punto di vista politico, il tratto più caratteristico di queste comu- nità era la parcellizzazione e l’insicurezza: le famiglie estese si raggruppavano in clan e in tribù che si richiamavano a una origine comune; una tribù for- te ne aggregava talvolta altre diverse per formare un regno. Tra questo regno e le tribù indipendenti lotte e contrasti per motivi elementari erano fre- quenti. Di qui l’insediamento sulle alture e la costruzione di fortilizi, di qui l’assenza di strade, la povertà della circolazione di persone e cose. L’economia era chiusa, non specializzata, con una terribile arretratezza dell’industrializ- zazione, con un peso incombente delle calamità naturali. Era un po’ come la città antica e mitica, prima che i romani costruissero le strade.
Su questo mondo neolitico (o su altri meno arretrati ma «diversi») si abbatte lo Stato industrializzato del XIX-XX secolo provocando l’effetto di un terremoto.
Anzitutto l’effetto è politico. L’insicurezza politica, diviene, in un cer- to ambito, sicurezza e soppressione delle guerre locali. Un certo tipo di strut- tura organizzativa e logistica saltò; le fortificazioni o le palizzate, di fronte a una pacificazione imposta dall’alto, diventavano inutili. A ciò si aggiunge che re, capi-tribù e patriarchi perdevano il loro potere e la loro autorità a me- no che non accettassero di divenire collaboratori o strumenti dei colonizza- tori; la coesione sociale, prima necessaria per far fronte alle necessità di dife- sa, si allentava e l’individualismo iniziava a prendere il sopravvento sul sen- so di appartenenza alla famiglia, o alla tribù, o al clan.
L’altra grande novità riguarda le comunicazioni. L’arrivo degli europei portò con sé lo sviluppo delle comunicazioni interne ed esterne e dei com- merci. Se l’anima dell’imperialismo – o una delle sue anime – è il commer- cio, le merci locali acquistavano un valore diverso. Molti prodotti locali era- no sostituiti da merci occidentali. Ma per acquistarle era necessario il dena- ro: da cui la necessità di vendere i prodotti locali. E questi erano o risorse mi- nerarie o risorse agricole. Si poneva così la questione dei termini di scambio. I colonizzatori insegnavano con l’esempio quali fossero le culture più reddi- tizie o il modo più redditizio per coltivare prodotti tradizionali (cacao, caffè, arachidi, banane, ecc.) o sfruttare le risorse.
Alcuni indigeni impararono a lavorare per sé, cioè a migliorare la pro- duttività di ciò che possedevano, dovendo confrontarsi in termini moderni con la questione della disponibilità di capitali e di manodopera. Altri diven- tavano lavoratori nell’ambito delle piantagioni che i colonizzatori costituiro-
no. Le comunicazioni più facili permettevano di importare il fabbisogno. Alla coltivazione per la sussistenza si sostituiva quella per l’esportazione. Allo sfrut- tamento delle risorse minerarie per la costruzione degli utensili si sostituiva quello per il minerale da esportare in quantità massicce. Gli uomini della tribù, del clan, della città primitiva, divenivano così salariati e proletari. Il lo- ro capo non era più l’autorità tradizionale ma il padrone dell’impianto, il di- rettore dello stabilimento, il padrone delle piantagioni. L’influenza dell’auto- rità tradizionale quasi sempre conosceva un declino. Le autorità nuove non erano certo generose di concessioni ai lavoratori indigeni – come del resto non lo erano in patria – ma erano i nuovi padroni locali.
Il sistema tradizionale di amministrazione della giustizia veniva sosti- tuito dalle norme imposte dagli occidentali. Queste, rivolgendosi al singolo prima che al gruppo, alimentavano l’individualismo. Le missioni religiose, appoggiate dal potere politico, distruggevano le convinzioni fideistiche tra- dizionali o si intrecciavano con queste, contribuendo così a modificare le concezioni tradizionali, i tabù sociali e i culti su cui si fondava la società. L’insegnamento scolastico, per quanto primordiale, creava un ceto evoluto e capace di evolvere, non subalterno alle tradizioni, che rifiutava il principio di obbedienza all’autorità degli anziani. Nasceva un ceto di lavoratori (operai, funzionari, commercianti, impiegati) il cui ideale diveniva l’imitazione degli europei. L’obiettivo era vivere come gli europei, desiderio in cui conviveva- no l’esotismo ma soprattutto l’emulazione, perché l’europeo appariva supe- riore e si voleva imitarlo.
Un fenomeno di grande rilievo è l’urbanizzazione o la concentrazione in luoghi diversi da quelli tradizionali, vicini ai luoghi di lavoro. Eman- cipazione e destabilizzazione, decadenza delle istituzioni tradizionali, fine dell’eguaglianza sociale, formazione di nuove classi: erano gli effetti più ap- pariscenti della trasformazione di una società nel passaggio da una società comunitaria su basi mistiche a una società capitalistica su base strutturata da uno Stato – lo Stato colonizzatore. Rimaneva però un sottofondo mistico, di valori dilapidati o distrutti, in attesa di essere occupato o sostituito da al- tri valori, religioni o ideologie.
L’arrivo degli europei sconvolgeva così un equilibrio millenario. La concezione della felicità degli indigeni era un ideale frutto di abitudini ve- nerate. Era una difesa, una fragile barriera che i conquistatori infransero in breve. Gli europei «color di cadavere» (alcune tribù dell’Oceania e del Gabon ritenevano che i bianchi fossero morti che venivano dal fondo del mare) distrussero un equilibrio che pareva eterno: gli dei e gli antenati non erano più rispettati; non si osservavano più i tabù prima indiscutibili; i vec-
chi non facevano più timore ai giovani che spesso andavano a lavorare lon- tano per proprio conto; i capi di un tempo perdevano la loro autorità, bru- talmente o gradualmente, a seconda del tipo di amministrazione imposta dallo Stato colonizzatore. Era una perdita di autorità, dei vecchi sui giovani; dei capi tradizionali rispetto ai nuovi padroni.
Di fronte a questo rovesciamento di valori e a questo radicale cambia- mento erano possibili due reazioni: il rifiuto o l’accettazione; una battaglia di retroguardia o l’inserimento nel cambiamento. Tutti coloro che perdeva- no quote sempre più consistenti di potere dal cambiamento ebbero una rea- zione negativa di natura xenofoba. Era questa la prima, più immediata e più elementare risposta al cambiamento: xenofobia alimentata dalle vecchie clas- si dirigenti che detenevano un residuo di autorità. Furono loro a promuo- vere le prime rivolte, alimentate dalla rievocazione della tradizione precolo- niale, vista come l’età dell’oro infranta: si trattava di un genere di nazionali- smo xenofobo e conservatore. Il nazionalismo extraeuropeo si afferma con quattro esempi che ebbero un’eco immensa presso tutti i popoli colonizzati o almeno là dove si stavano formando gli orientamenti che dovevano con- durre al nazionalismo. Il movimento anticoloniale ha queste basi remote. E viene alimentato da casi epici, per quanto di carattere e natura molto diver- si: 1896 Adua; 1905 Giappone; 1911 Cina; 1922 Turchia.
Nel 1896, a Adua, l’imperatore d’Etiopia Menelik, distrusse l’esercito italiano, grazie alle armi a tiro rapido che aveva avuto l’intuizione di acqui- stare dai commercianti europei. Dimostrava così che la superiorità tecnica poteva essere utilizzata anche da popoli non europei per combattere – e vin- cere – gli europei nella loro sete di conquista.
Il Giappone d’altronde lo aveva già mostrato dal 1867, con la moder- nizzazione completa delle sue istituzioni e del suo esercito, con la creazione di una industria e di una marina. Nel 1905, ne mostrava l’efficacia schiaccian- do i Russi su terra e su mare, prendendo così posto tra le grandi potenze e sta- bilendo che l’uomo – giallo stavolta – poteva vincere contro l’uomo bianco.
A sua volta la Cina, minacciata dalla penetrazione europea, compiva la sua rivoluzione nel 1911, grazie all’ideale nazionale e democratico che Sun Yat-Sen importò dagli Stati Uniti. I tempi erano prematuri e il Paese cadde nell’anarchia ma si trattava di gemi gettati che non avrebbero potu- to che germogliare.
La Turchia di Abdul Hamid fu scossa per la prima volta dalla rivolu- zione dei «Giovani turchi» nel 1908 anche se fu necessario aspettare il 1922 e l’azione risoluta di Mustafa Kemal per l’avvio di una evoluzione fonda- mentale del Paese.
Vi è poi la reazione delle classi nuove dallo spirito nuovo. In altri ter- mini a un anticolonialismo di carattere conservatore, ripiegato sul passato, si affianca un anticolonialismo rivoluzionario, che assimila le critiche contro il sistema imperialista che si erano diffuse in Europa. Avendo assunto gli eu- ropei come modelli, le nuove classi, create dall’irrompere dello Stato euro- peo, erano costrette a constatare di non essere accolte nella società occiden- tale, quella dei coloni, come eguali. Spesso, anche quando conquistavano il successo economico e sociale, si trovavano legati e condizionati dal loro pas- sato. Un fossato li separava dai bianchi, anche quando questi sembravano cordiali e amichevoli. Era una sorta di apartheid generalizzato. Peggio anco- ra, il colonizzatore spesso non era né cordiale, né amichevole. L’indigeno evoluto si scontrava così con l’europeo che lo considerava un inferiore, lo in- giuriava o lo maltrattava. In ogni caso viveva a un livello di vita infinita- mente più elevato – specie se era un funzionario e un commerciante. Da qui nasceva una rivalità, un senso di inferiorità, un sentimento di ingiustizia, l’o- dio. E il desiderio di cambiamento e di riconoscimento della propria iden- tità sul proprio Paese. Respinti verso l’ambiente di origine, questi gruppi più evoluti vi ritrovavano la mistica dell’età dell’oro e la trasferivano in due obiet- tivi: il progresso – materiale e morale –; il nazionalismo – come recupero di identità. Come sottolinea Calchi Novati, la reazione, cioè, da istintiva di- venta politica quando giungono a maturazione quei processi che permetto- no di acquisire coscienza dell’identità nazionale e della libertà come valore.
Uno dei grandi temi che agita il dibattito sulla decolonizzazione è pro- prio la ricerca di questo nesso, cioè la ricerca delle origini del nazionalismo afro-asiatico. Secondo alcuni, l’origine è esclusivamente europea; secondo al- tri il nazionalismo afro-asiatico ha componenti proprie che, pur tenendo con- to dell’elaborazione teorica cui esso era andato incontro in Europa, calando- si in una realtà molto diversa da quella del vecchio continente e in tempi mol- to successivi, si caricò di significati precipui che lo resero di fatto molto di- verso da quello europeo, troppo diverso per rendere legittimi parallelismi.
Ora, e sul piano non solo cronologico, l’idea del nazionalismo è un’i- dea europea. L’idea di popolo sovrano e di nazione a base territoriale proli- fera in Europa fra l’età della Rivoluzione francese e i processi di unificazio- ne nazionale. Nelle aree extraeuropee, questa idea viene assunta dall’Europa e viene provocata dalle nuove suddivisioni politiche, basate spesso su un ar- bitrio geografico, decise dai conquistatori. L’idea di nazione è portata in Africa e in Asia dalla scuola, dall’esempio europeo, ma anche dalla sempli- ficazione politica voluta dagli europei. Alle tribù e ai regni originari erano sostituite unità amministrative più vaste, con frontiere definite e precise che
mai erano esistite fino ad allora. La Nigeria del Nord era fatta da ottanta re- gni e nel sud ve ne erano una infinità. Si creavano, con la spartizione colo- niale, nuove frontiere, che spesso racchiudevano entità artificiali. Algeria è il nome che i francesi dettero a un territorio da un porto-città; il Senegal era il nome di una tribù; il Camerun è il nome di un monte; Indonesia è una parola greca. L’idea di patria e quella di nazione, per gli intellettuali, ar- rivano a coincidere.
La maggior parte delle ideologie anticolonialiste sono di origine euro- pea nel senso che le idee diffuse con la stessa presenza degli europei, calan- dosi in un ambiente come quello prodotto dalla colonizzazione (caratteriz- zato da tradizioni messe a dura prova, società sconvolte, emergere della que- stione sociale) contribuiscono, pur nella loro varietà, a spiegare la genesi del nazionalismo.
Un primo elemento da ricordare sè riconducibile alle religioni cristiane che furono largamente diffuse nelle colonie. Il cristianesimo predica la frater- nità degli uomini sottintendendo la loro uguaglianza. Il cristianesimo è per sua stessa essenza universale. La dominazione coloniale, per le autorità cri- stiane, non è che uno stadio transitorio, che deve facilitare la predicazione nel mondo non cristiano. Ma si tratta di una fase, appunto, il cui superamento è quindi apertamente previsto. La Chiesa cattolica, specie sotto l’ispirazione di Pio XI, si mostrò audace in questo ambito. Formò dappertutto preti indige- ni e il numero dei vescovi cattolici asiatici e africani crebbe a dismisura. I qua- dri erano preparati a dissociare il cristianesimo dalla dominazione bianca per permettere al primo di sopravvivere quando la dominazione bianca fosse ter- minata. Uguali ai bianchi davanti a Dio, gli indigeni potevano legittima- mente chiedersi perché erano trattati in modo diverso nella società civile.
Sul piano politico, è impossibile rispondere in modo perentorio alla questione se le chiese, con le loro dichiarazioni e la loro pratica, abbiano in seguito semplicemente accompagnato il movimento di decolonizzazione, ponendosi in una sorta di retroguardia e di atteggiamento di difesa, o se, al contrario, e nonostante serie contraddizioni interne, abbiano favorito la dif- fusione di idee e incoraggiato atteggiamenti di sostegno alla guerra naziona- lista per l’indipendenza. In effetti occorre considerare da un lato le posizio- ni degli organi dirigenti e distinguerle dalle iniziative assunte a un grado de- cisionale inferiore; è necessario distinguere inoltre i campi di applicazione della dottrina, sui territori metropolitani da un lato e attraverso l’attività mis- sionaria nelle regioni colonizzate dall’altro. Se fu chiaro, nella fase di eman- cipazione dei territori indipendenti, il tentativo di dissociare l’evangelizza- zione dalla colonizzazione, altrettanto evidente fu l’impronta del cristianesi-
mo sulla formazione delle élites nazionaliste, anche solo per la circostanza che quasi tutti i dirigenti dei movimenti nazionalisti, soprattutto in Africa, ave- vano studiato nelle scuole delle missioni.
Una diversa considerazione riguarda i principi della Rivoluzione americana e di quella francese, esportati insieme alla colonizzazione. «Tutti gli uomini nascono e rimangono liberi e hanno eguali diritti», si diceva nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’89, che all’articolo III sostie- ne che il principio di qualsiasi sovranità risiede nella nazione. Da questo principio della sovranità del popolo scaturiva il diritto dei popoli di go- vernarsi da soli, base di tutti i nazionalismi. Né è possibile dimenticare l’importanza del liberalismo di origine anglosassone, dove si mescolavano ideologia cristiana e un’acuta analisi dei costi-benefici. Il liberalismo ingle- se vedeva con favore l’evoluzione verso il self-government che poteva alleg- gerire i costi dell’amministrazione, pur salvaguardando gli interessi britan- nici. Gli inglesi quindi facilitarono il processo di istruzione delle élites in- digene, favorendo il loro ingresso nelle università britanniche. Quanto agli americani, anticolonialisti per storia, lo erano anche per interesse, poiché la loro espansione economica supponeva una attenuazione del regime co- loniale e delle barriere doganali.
Una costruzione teorica, anch’essa di origine europea, che contribuì, pur in modo particolare, all’emergere del nazionalismo afro-asiatico fu il marxismo, che considerava l’imperialismo coloniale come l’ultimo stadio di un capitalismo in declino che lottava per ottenere sbocchi e materie prime, e quindi come un fondamentale elemento di appoggio del capitalismo eu- ropeo. Il comunismo aveva almeno due ordini di motivi per lottare contro il colonialismo: indebolire le basi del capitalismo europeo, da un lato; pre- parare l’ingresso dei popoli coloniali alla comunità comunista mondiale, dall’altro. Poco importava se di questo sommovimento avrebbero profitta- to inizialmente non i partiti comunisti ma i partiti nazionalisti autoctoni: la rivoluzione comunista, nelle colonie, si sarebbe fatta in un secondo mo- mento e sarebbe stato ancora più semplice lottare contro una metropoli in- debolita perché privata della sua struttura politico-economica di sostegno. La propaganda comunista denunciava gli effetti negativi del colonialismo: gli abusi dell’amministrazione, lo sfruttamento delle masse indigene da par- te del capitalismo europeo, l’assenza di libertà individuale e di rappresenta- zione politica, il basso livello di vita, il basso livello di istruzione. Si impe- gnava a additare agli indigeni la loro condizione miserabile, per acuire il lo- ro spirito di rivolta, e prometteva loro, una volta raggiunta l’indipendenza nazionale, l’uguaglianza e l’abbondanza. Questa sorta di messianismo ri-
spondeva bene alle aspirazioni degli indigeni, disorientati dal crollo del lo- ro mondo tradizionale e dalle nuove condizioni di vita. Il marxismo venne utilizzato talvolta in modo strumentale dalle élites nazionaliste che, dopo aver invocato il marxismo o il socialismo per attaccare il colonialismo, escludevano la lotta di classe nel futuro Stato indipendente; da altri fu in- vece utilizzato in modo più sistematico, mediante una identificazione fra colonialismo e capitalismo. Che si rifacessero alla dottrina cattolica, al libe- ralismo europeo, ai principi dell’89, agli insegnamenti marxisti, per i na- zionalisti afro-asiatici le fonti erano i classici del nazionalismo europeo, da Hegel a Mazzini.
Il rapporto tra penetrazione occidentale e sviluppo del nazionalismo, se non altro come motivo acceleratore del processo, è riconosciuto dalla let- teratura in materia, pur con sfumature non irrilevanti. Molti ricusano ogni analogia tra nazionalismi europei e nazionalismi afro-asiatici, sottolineando- ne piuttosto le differenze: per i secondi il motivo dominante è l’anticolonia- lismo (tema ovviamente sconosciuto per i nazionalisti europei); in Europa fu la nazione a costruire lo Stato mentre, in Asia e in Africa, fu spesso lo Stato a costruire la nazione. Altri invece insistono sui motivi di affinità sostenen- do che, in definitiva, è stata l’Europa a preparare la decolonizzazione perché ha addestrato i popoli colonizzati agli ideali della libertà e del nazionalismo, salvo poi perdere il controllo del meccanismo che da ciò prendeva avvio.
Ciò consente di passare a un altro tema caldo del dibattito sulla deco-