Le interpretazioni dell’imperialismo
1.2 L’imperialismo del capitale
La spiegazione più complessa e autorevole dell’imperialismo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento è quella che ne individua la causa principale nel bisogno dell’Europa e dell’America del Nord capita- liste di trovare nuovi settori in cui investire in modo redditizio il surplus di capitali. Questa tesi può essere grossolanamente riassunta, con Fieldhouse, come segue.
L’Europa capitalista e gli Stati Uniti erano, per loro natura, preoccupa- ti dalla necessità di garantire una continua accumulazione di capitale, per evitare, nell’assenza di un costante aumento dei capitali, una situazione di stagnazione. L’accumulazione era ottenuta principalmente con il re-investi- mento dei profitti in attività produttive e l’incentivo a reinvestire piuttosto che a consumare era dato dall’aspettativa di profitti adeguati degli aumenta- ti investimenti. Verso la fine dell’Ottocento, questo incentivo a investire al- l’interno del proprio Paese diminuì – e qui le ragioni variano a seconda del- le varie spiegazioni – perché il tasso di profitto tendeva a declinare. I capita- listi che avevano disponibilità di profitti da investire guardavano ad altre re- gioni del mondo nella ricerca di settori di investimento più remunerativi. E li trovarono, almeno in parte, in aree in cui le condizioni economiche erano diverse da quelle delle regioni economicamente avanzate d’Europa; in cui vi era abbondanza di materie prime da sfruttare e con un costo del lavoro infi- nitamente più basso che in Patria. L’investimento dei capitali sovrabbon- danti in queste regioni aveva la doppia funzione di ridurre la pressione dei capitali in cerca di impiego in Europa, mantenendo così artificialmente alto il tasso di profitto nel vecchio continente, e assicurare profitti superiori a quanto non fosse possibile fare in patria. Circa l’area degli investimenti este- ri, essi potevano essere effettuati in Paesi indipendenti e stabili, come la Russia e gli Stati Uniti. Dove però le condizioni politiche non erano ade- guate, si preferiva annettere il territorio formalmente e instaurarvi una si- tuazione propizia. Inoltre, dato che la necessità di colonie come aree in cui effettuare gli investimenti fu avvertita da molti Paesi europei simultanea- mente, perché la crescita economica investì i Paesi europei in tempi uguali, si verificò una corsa concorrenziale alla acquisizione di colonie, ciò che portò alla spartizione del globo. In seguito il possesso di queste colonie di investi- mento divenne sempre più necessario per gli Stati capitalisti che vennero in- dotti a mantenere le proprie colonie e a impadronirsi degli imperi dei rivali. La redistribuzione degli imperi coloniali, elemento di lotte, fu uno dei mo- tivi delle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo.
Gli esponenti più autorevoli della formulazione della «teoria dell’im- perialismo capitalistico», per usare l’espressione di Lenin, furono J.A. Hobson, Rudolf Hilferding e V.I. Lenin anche se essa fu poi sviluppata a lungo da molti teorici, ciascuno dei quali vi apportò un contributo origi- nale. Anche le tesi centrali dei tre autori citati variano notevolmente, pur mantenendo basi concettuali comuni. Si trattava di una critica del colonia- lismo che traeva le sue origini dal movimento socialista, nei suoi diversi fi- loni. La condanna era generata da due considerazioni generali condivise da estremisti, riformisti, marxisti ortodossi: il colonialismo è un male poiché rafforza il capitalismo; il diritto all’autogoverno non può essere negato a nessuno, nemmeno ai popoli delle colonie. Questo atteggiamento generico trova espressione, a partire dagli inizi del secolo, in una serie di tentativi di interpretazione critica che ebbero eccezionale influenza nei successivi svi- luppi politici e che condizionano ancora oggi l’interpretazione dell’impe- rialismo e del postcolonialismo.
Il primo autore, in ordine cronologico ma anche in ordine di interes- se, è l’inglese J.A. Hobson, il cui saggio, Imperialism: a Study, pubblicato nel 1902, costituisce l’espressione classica dell’atteggiamento dei liberali inglesi nei confronti dell’espansione coloniale ai Tropici. Il clima in cui il saggio vie- ne pubblicato è quello del trionfo dell’imperialismo inglese e, a un tempo, dell’avanzata del laburismo e del fabianesimo. Hobson, cercando la spiega- zione del colonialismo nelle cause economiche, cerca di dimostrare che l’im- perialismo, che si accompagnava alle ingiustizie sociali del capitalismo, non era storicamente inevitabile ed era riformabile. Su questo punto le sue ipo- tesi divergevano da quelle dei neomarxisti.
La spiegazione di Hobson del nuovo imperialismo può essere grosso- lanamente sintetizzata come segue. Egli partiva dall’osservazione che l’e- spansione coloniale britannica durante i trenta anni precedenti era stata pa- radossale nel senso che la maggior parte dei nuovi possedimenti coloniali non soddisfaceva ad alcuno dei criteri accettati nell’Ottocento per definire utile la colonizzazione: raramente tali territori erano adatti all’insediamen- to di bianchi; rappresentavano mercati poveri e fornivano poche esporta- zioni pregiate; costavano invece alla metropoli sostanziali importi di dena- ro. I motivi per i quali erano occupati risiedevano per Hobson nel fatto che il Paese era stato spinto all’espansione da quegli interessi settoriali che ne avrebbero guadagnato.
Nella analisi di Hobson, il colonialismo era «un pessimo affare» che ave- va provocato, con enormi spese e rischi, un modesto e malsicuro allargamen- to dei mercati. Un affare così insano era stato possibile solo perché gli interes-
si della nazione erano stati subordinati a quelli di certe categorie mosse da in- teressi particolari. Queste categorie sono categorie economiche diverse (can- tieristica navale; compagnie di navigazione; fabbriche di armi e di munizioni; industrie tessili, militari e metallurgiche; costruttori di strade e ferrovie; cate- gorie speciali delle classi medie direttamente interessate al fatto coloniale – mi- litari, burocrati, diplomatici, avvocati, ingegneri, insegnanti, missionari); l’in- tero mondo della finanza, che restava la categoria più interessata. Se altri ele- menti convergevano a spiegare il fatto coloniale (patriottismo, spirito di av- ventura, imprese militari, ambizione politica, genuina filantropia), le categorie economiche restavano le forze motrici e il combustibile della macchina impe- riale. Al timone del processo rimaneva poi la finanza che «manovra la forza che politici filantropi, soldati e commercianti generano. La finanza influenza i go- verni e dirige l’opinione pubblica attraverso i giornali da essa controllati». Queste forze e categorie, sostiene Hobson, hanno provocato effetti favorevoli ai loro interessi particolari, non a quelli generali. Sono gli interessi di gruppi particolari che trionfano su quelli generali.
A monte di tutto vi era la classe dei capitalisti. Scriveva Hobson:
L’imperialismo aggressivo, che costa così caro al contribuente, che ha tanto poco valore per il fabbricante e il commerciante, che è carico di gravi e incalcolabili pericoli per il cittadino, è una fonte di grossi guada- gni per l’investitore che non trova in patria l’utilizzo profittevole di cui è in cerca per il proprio capitale e che insiste che il suo governo ha il do- vere di aiutarlo ad effettuare all’estero investimenti fruttuosi e sicuri.
Cifre alla mano, Hobson dimostra che l’interscambio commerciale tra la Gran Bretagna e le colonie a dominio diretto dal 1853 al 1901 era cresciuto meno dell’interscambio con i Paesi esteri e i domini autonomi. La sua con- danna trae spunto da questa distorsione di risorse o minore rendimento e dal- la subordinazione degli interessi generali agli interessi di alcune categorie.
A sostegno della sua ipotesi, Hobson forniva statistiche che mostrava- no come le esportazioni di capitale e l’espansione imperialistica si ponessero chiaramente, pur entro certi limiti, in una relazione di causa e effetto.
La sovrapproduzione, vale a dire l’esistenza di impianti manifatturieri eccessivi da un lato, e il sovrappiù di capitale che non poteva trovare un investimento profittevole all’interno del Paese, dall’altro, forzarono la Gran Bretagna, la Germania, l’Olanda, la Francia a collocare porzioni sempre più grandi delle loro risorse economiche al di fuori dell’area del
loro attuale dominio politico e perciò spinsero ad intraprendere una po- litica di espansione per conquistare nuove aree.
Secondo Hobson la «radice economica dell’imperialismo» risiede nel fatto che, per gli uomini d’affari, «la crescita della capacità produttiva nei lo- ro Paese eccede l’aumento dei consumi, che si possono produrre più beni di quanti possono essere venduti ad un prezzo profittevole, che esiste più capi- tale di quanto può trovare un investimento remunerativo». Data questa pre- messa, «se i consumatori del nostro Paese aumentassero il loro livello di con- sumo in modo tale da mantenere il passo con l’aumento della nostra capa- cità produttiva, non vi sarebbe un eccesso di merci o di capitali così rilevan- te da farci usare l’imperialismo per trovare mercati di sbocco».
Il nodo del problema era quindi capire perché in un Paese «il consu- mo non sta al passo automaticamente con lo sviluppo della capacità pro- duttiva», perché, in altri termini, esiste il sottoconsumo o il «sovrarisparmio» e perché vi è la tendenza a sovrarisparmiare cioè perché «coloro che possie- dono la capacità di consumo dovrebbero risparmiare una quantità più gran- de di quella che potrebbe venir impiegata utilmente». Per Hobson il proble- ma diveniva allora quello più generale della distribuzione della ricchezza:
Se esistesse una tendenza a distribuire la ricchezza o la capacità di con- sumo secondo i bisogni, è evidente che i consumi crescerebbero con ogni aumento della capacità produttiva, poiché i bisogni umani sono il- limitati e non potrebbe esistere un eccesso di risparmio. Ma la situazio- ne è completamente diversa in un'economia dove la distribuzione non ha una relazione fissa con i bisogni ma è determinata da altre condizio- ni che attribuiscono ad alcune persone una capacità di consumo larga- mente superiore ai loro bisogni o ad ogni possibile uso, mentre altri so- no privati della possibilità di consumare perfino quello che serve a man- tenere la loro efficienza fisica.
In sostanza, afferma Hobson, «non è il progresso industriale che ri- chiede l’apertura di nuovi mercati e di nuove aree di investimento, ma la cat- tiva distribuzione della capacità di consumo che impedisce l’assorbimento di merci e di capitali all’interno del Paese».
Tuttavia Hobson, e con lui una corrente in cui confluivano molti li- berali e moderati inglesi e vari socialisti europei, credeva che se le esporta- zioni di capitali erano il sintomo di una economia debole all’interno e la cau- sa del nuovo imperialismo, questi due mali potevano essere curati con mi- sure riformistiche:
I sovrarisparmi, che sono la radice economica dell’imperialismo, consi- stono in rendite, profitti di monopolio ed altri redditi eccessivi o non guadagnati… Non avendo alcuna relazione naturale con lo sforzo pro- duttivo, essi non spingono il loro destinatario a una soddisfazione cor- rispondente al consumo: formano una ricchezza in sovrappiù la quale, non avendo un suo posto effettivo nella normale economia della pro- duzione e del consumo, tende ad accumularsi come risparmio ecce- dente. Se ogni nuova ondata delle forze economico-politiche sottraesse a questi proprietari il loro reddito in eccesso e lo facesse fluire verso gli operai sotto forma di più alti salari, o verso la comunità, sotto forma di tasse, in modo da venir speso anziché risparmiato, e in modo da servi- re in entrambi i casi a rafforzare lo sviluppo dei consumi, non ci sareb- be alcun bisogno di combattere per impossessarsi di mercati o di aree di investimento stranieri.
Nella analisi di Hobson l’imperialismo era condannato non come principio ma come fenomeno che favoriva la guerra, le speculazioni a van- taggio dei capitalisti e a danno di intere nazioni. Come tale era «una cosa meschina e sordida». Hobson pensava soprattutto a un controllo democra- tico del fenomeno. La sua è perciò una critica che resta all’interno del siste- ma, poiché implicitamente egli accetta il fatto coloniale proponendosi solo di riformarlo o regolamentarlo. In Inghilterra ciò che i laburisti rimprovera- vano ai conservatori non era dunque l’impero in sé ma il fatto di mantene- re nell’impero un clima di disagio e di svolgere una politica dominata dagli interessi di classe. A questa politica il rimedio non era tanto il nazionalismo coloniale, il cui risultato sarebbe stato la balcanizzazione del mondo, ma un internazionalismo che andasse oltre il nazionalismo.
Anche i socialisti francesi erano unanimi nella loro critica contro il co- lonialismo, ma con varie sfumature. Per loro il problema non era quello di emancipare ma quello di far progredire i Paesi colonizzati. Nel 1905 Paul Louis pubblicava uno scritto, Le colonialisme, che era il corrispondente fran- cese dell’opera di Hobson. Anche qui il colonialismo viene condannato poi- ché esso è stato confiscato a profitto dei ceti dominanti. Sono queste le stes- se posizioni alle quali approda Jean Jaurès nella sua opera Pour la paix, dove la politica coloniale viene presentata come il frutto della volontà dei capita- listi che moltiplicano in tal modo i rischi di guerra.
Molti neomarxisti confutarono le teorie di Hobson, più che sulla sua diagnosi sulle cause dell’imperialismo, sulla tesi della riformabilità del siste- ma. Finì infatti con il prevalere la tesi che il capitalismo sarebbe stato di- strutto dalle proprie contraddizioni interne e che l’importanza dell’imperia-
lismo risiedesse nel fatto di rappresentare una pietra miliare che indicava l’a- pice raggiunto dal capitalismo prima di un crollo ormai imminente.
La scuola marxista-leninista fornì le concezioni anticoloniali di matri- ce europea più efficaci. Marx non ha lasciato una sua teoria dell’imperiali- smo. D’altra parte, quando egli scriveva, l’imperialismo non aveva ancora raggiunto la sua fase più acuta. Tuttavia, nella prefazione a Per una critica
dell’economia politica del 1859 e nel Capitale, del 1867, egli pone i presup-
posti teorici che serviranno da base agli altri autori.
Il modello della struttura economica capitalista costruito da Marx è contenuto nella sua essenza entro la formula M-D-M (denaro-merce-dena- ro). I possessori di denaro (capitale) lo trasformano in merce allo scopo di ottenere più denaro. Questa è la sostanza della proprietà privata capitalisti- ca. Nel capitalismo industriale il denaro non viene tesaurizzato o dissipato in consumi di lusso: viene impiegato per produrre, mediante lavoro, merci de- stinate a essere vendute con profitto (il problema del realizzo delle merci e del plusvalore). In questo modello occupa un posto essenziale l’elemento della pluralità dei soggetti che porta alla concorrenza delle imprese private per accumulare nuovi capitali. Ne consegue che le imprese devono massi- mizzare i loro profitti per produrre nuovo capitale o per attrarre capitale dai profitti degli altri. Per questo devono continuamente investire in nuovi im- pianti e allargare i loro mercati per ottenere le economie di scala.
In questo ambito si colloca l’espansione coloniale. L’ascesa del capita- lismo, con la conseguente industrializzazione dei Paesi arretrati, portò alla creazione di un mercato mondiale, nel quale forze capitalistiche e forze na- zionali combinate imposero una suddivisione del mondo secondo la formu- la della divisione internazionale del lavoro. La pressione della concorrenza verso la massimizzazione dei profitti creava una eccedenza di capitali in cer- ca di investimento favorevole. Da qui la spinta a una struttura di commer- cio estero come espressione della duplice esigenza di allargare il mercato per sviluppare il capitalismo nazionale e creare una struttura di scambio stabile in virtù della quale – come Marx scrive nel Libro I del Capitale a proposito del commercio di cotone – «si crea una nuova divisione internazionale del lavoro in corrispondenza alle sedi principali del sistema delle macchine ed essa trasforma una parte del globo terrestre in campo di produzione preva- lentemente agricolo per l’altra parte quale campo di produzione prevalente- mente industriale». L’accumulazione di capitali crescenti da reinvestire in in- frastrutture o miniere gettava le basi materiali della società occidentale nei Paesi arretrati. Infatti «il Paese industrialmente più avanzato non fa che mo- strare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire».
Marx non poteva vedere la trasformazione del colonialismo in impe- rialismo. Tuttavia la sua analisi costituiva il presupposto per sviluppi correla- ti al mutamento storico. Fu Hilferding a riprendere per primo le tesi di Marx e a collegarle direttamente al fenomeno imperialista, ponendo le basi di quella riflessione che la Luxemburg prima e Lenin poi avrebbero sviluppato. Nel 1910, Hilferding pubblicò il volume Das Finanzkapital in cui studiò il rapporto tra capitale industriale e sistema bancario, contribuendo al dibatti- to di ispirazione neomarxista con il concetto di «capitale finanziario». Con questo l’autore indicava la concentrazione del capitale nelle mani di un nu- mero ristretto di banchieri e industriali. Come aveva sostenuto Marx, la ten- denza del capitalismo era la concentrazione dei mezzi di produzione in un numero sempre più ristretto di mani e ciò conduceva alla nascita di cartelli e di trust, fino al vero e proprio monopolio in particolari settori produttivi. Il processo era favorito dall’azione delle banche che, oltre a finanziare fusio- ni e cartelli, tendevano esse stesse a fondersi in organizzazioni più ampie ma- no a mano che aumentava la portata delle operazioni, e a divenire stretta- mente interessate alla produzione industriale fino alla compartecipazione o la proprietà di capitali industriali. Nella trasformazione da organizzazioni creditizie in proprietari di capitali industriali delle banche risiedeva ciò che Hilferding chiamava capitale finanziario, cioè la concentrazione di potere in- dustriale nelle mani delle banche – ciò che, a suo parere, costituiva la forma più avanzata del capitalismo. Alla fine del processo, l’economia della nazio- ne sarebbe stata controllata da un numero esiguo di banche, trust e cartelli industriali. Particolarmente alti sarebbero stati i profitti se i capitali fossero stati esportati in Paesi a modesto sviluppo industriale.
La tesi di Hilferding non riguarda specificamente l’imperialismo nel senso che, analizzando le esportazioni di capitali nei Paesi sottosviluppati, non poneva il problema che questi divenissero giuridicamente delle colonie. L’acquisizione di colonie in senso tecnico non era necessaria nella misura in cui gli Stati europei riuscivano a trovare condizioni adatte a investire capitali anche in Stati indipendenti ma con determinate caratteristiche. Hilferding non faceva distinzioni tra colonie vere e proprie e quelle che altri hanno chia- mato colonie «informali» o «seminformali». Le colonie vere e proprie veniva- no create solo quando si presentava la necessità che il potere politico dello Stato intervenisse per appoggiare gli interessi del capitale finanziario, in quan- to il processo di investimento del capitale produttivo all’estero trovava osta- coli politici oppure quando vi si opponeva la resistenza delle istituzioni socia- li tradizionali. Le colonie in senso proprio erano quindi soprattutto la prova della capacità del capitale finanziario di ottenere l’appoggio del governo. Da
questo intreccio discendeva che la politica coloniale e l’imperialismo erano il prodotto delle necessità economiche del capitalismo finanziario.
In altri termini la tesi di Hilferding era che si formassero concentra- zioni monopolistiche di capitale, grazie alla protezione statale, nei mercati nazionali e che queste posizioni evolvessero poi nell’espansione verso l’ester- no. I dazi protettivi avevano la funzione di protezione di un sistema indu- striale debole. Ma, una volta sviluppatosi, questo sistema protezionistico si trasformava nel suo opposto. «Da mezzo di difesa contro lo sfruttamento del mercato interno da parte dell’industria esterna – scriveva –, esso divenne strumento per la conquista dei mercati stranieri, da arma difensiva dei de- boli, arma offensiva dei forti». Su questa conclusione Hilferding innestava la sua tesi che l’espansione coloniale era la risposta alla necessità dei capitalisti monopolistici di ciascuno Stato nazionale di mettere sotto la propria giuri- sdizione politica nuova aree, per svilupparvi la produzione di materie prime, salvaguardarvi gli investimenti di capitale e garantirsi mercati di sbocco per la propria produzione. Il libero scambio, sul quale gli inglesi avevano co- struito il loro impero, dovette essere messo da parte e anche gli inglesi do-