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L’età dell’imperialismo

3.7 Stati Unit

All’indomani della guerra di Secessione, gli Stati Uniti dovevano anzi- tutto risollevarsi dalle rovine materiali e morali che essa aveva portato con sé. Si trattò di una ricostruzione che tuttavia non incise né condizionò la cre- scita demografica, le correnti di immigrazione o lo sviluppo economico. Tra il 1871 e il 1893, la popolazione passò da 39,5 milioni a 62 milioni, e in questo aumento l’immigrazione incise per il 31%. Il popolamento e la co- lonizzazione interna si estesero a tutta la zona compresa fra il Mississipi e le Montagne Rocciose, grazie alla costruzione di grandi ferrovie transconti- nentali e alla legislazione sull’appropriazione delle terre: le pianure centrali degli Stati Uniti divennero la regione maggiore produttrice di grano del mondo. Nello stesso periodo la produzione industriale conobbe uno svilup- po tale che, nel 1890, essa superava in valore la produzione agricola e, nel 1894, era la maggiore nel mondo.

Nonostante la rapidità della loro crescita, gli Stati Uniti non sentivano la necessità di puntare a una espansione al di là del loro territorio nazionale. Per il momento, la loro produzione agricola trovava sbocchi in Europa; l’in- dustria lavorava per il mercato interno: gli americani avevano, sul loro pro- prio territorio, un campo di azione abbastanza vasto per non avere ambizio- ni imperialiste. Essi non si presentavano come concorrenti degli europei né in America Centrale né nell’America del Sud. Nelle relazioni con l’Europa si limitarono a confermare la dottrina Monroe, cioè a mettere il continente al riparo da eventuali iniziative di colonizzazione da parte degli europei. Si trat-

tava del resto di un principio assai semplice da rispettare perché l’espansio- ne europea si indirizzava, al tempo, verso altri territori e altri continenti.

Negli ultimi anni del secolo, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, questo ripiegamento cominciò a suscitare critiche e si manifestaro- no preoccupazioni diverse. Nel 1885 John Fiske, nel suo libro Manifest

Destiny affermava che gli americani, dopo aver colonizzato l’America del

Nord, erano chiamati a diffondere l’influenza del loro commercio e delle lo- ro concezioni politiche in tutte le regioni del mondo dove non esistevano «vecchie civiltà»; Josiah Strong, in un libro che diventò ben presto un best

seller con 170.000 copie vendute, parlava della necessità per gli Stati Uniti di

«dominare l’America Latina e le isole del mare»; nel 1890 John Burgess, do- cente all’Università di Columbia, indicava come un dovere degli anglosasso- ni quello di «organizzare» i popoli non civilizzati; lo stesso anno venne evo- cata da Alfred Mahan «l’influenza della potenza navale nella storia». Non è un caso che il segretario di Stato James Blaine, tra il 1889 e il 1892, invo- casse la necessità di acquisire basi navali. Ma ancora i tempi non erano ma- turi per un cambiamento sostanziale. Coloro che facevano leva su conside- razioni di prestigio nazionale non trovavano ascolto nel Congresso e nell’o- pinione pubblica e non erano sorretti dalle categorie economiche le quali re- stavano indifferenti a progetti di espansione la cui immediata conseguenza sarebbe stata un aumento dei carichi fiscali. L’opinione pubblica rimaneva fedele a una tradizione per la quale il Paese, nato da una insurrezione contro il colonialismo britannico, non poteva immaginare di porre sotto controllo coloniale un altro Paese.

A partire dagli ultimi anni del secolo le cose cambiarono. Rimanevano intatti alcuni principi e atteggiamenti di base: il pacifismo, naturale per un Paese che disponeva di uno spazio vitale e, grazie alla geografia, provava nei confronti dei popoli stranieri un senso di sicurezza assoluta; l’isolazionismo, che prendeva origine da un certo disprezzo per l’Europa, terra di violenza, ma che era frutto anche di una ignoranza e di una incomprensione pressoché to- tale dei problemi europei; la convinzione di una superiorità morale, in base alla quale il popolo americano percepiva di avere il segreto del progresso uma- no. Se tali principi rimanevano solidi e inalterati, a partire dal 1898 a essi si aggiunsero nuove considerazioni e nuovi elementi che porteranno alla svolta dal disinteresse alla ricerca di un’espansione fuori dai confini nazionali. Riconducibili a questa svolta sono da un lato le condizioni sociali ed econo- miche che si erano modificate. La grande ondata di colonizzazione interna aveva ormai raggiunto tutti gli spazi disponibili e quindi il suo limite: la fron- tiera, in altri termini, era scomparsa. Contemporaneamente, la produzione

industriale crescente non poteva più accontentarsi del mercato interno: gli Stati Uniti, fino a allora esportatori di derrate alimentari e di materie prime, diventarono anche esportatori di prodotti finiti. I profitti realizzati grazie a questo sviluppo economico aumentavano i capitali disponibili che potevano essere investiti all’estero. Tutti questi argomenti erano evocati da coloro che chiedevano un’espansione. E saranno argomenti sempre più convincenti a mano a mano che il ritmo della produzione industriale subiva una accelera- zione: come ricorda Renouvin, tra il 1898 e il 1910 l’estrazione del rame au- mentò dell’80%, quella di ferro del 50%, la produzione dei giacimenti pe- troliferi del 350%, il valore dei prodotti manifatturieri raddoppiò. Certo, a questi interessi economici si aggiungevano altri argomenti: il desiderio di esportare ai popoli che erano incapaci di governarsi le concezioni liberali e de- mocratiche; la volontà di compiere un dovere di responsabilità morale, fa- cendo beneficiare i Paesi sottosviluppati dei vantaggi della civiltà americana.

L’originalità dell’imperialismo americano risiedeva principalmente nei suoi metodi e nei suoi strumenti. L’opinione pubblica e quella politica re- stavano legati alla tradizione secondo la quale gli Stati Uniti, che si erano co- stituiti rompendo i legami di dipendenza coloniale, non potevano pensare di imporre a altri popoli tale regime. Era necessario quindi evitare annessio- ni territoriali e procedere con lo stabilimento di zone di influenza, ciò che avrebbe permesso di conseguire risultati in molti casi equivalenti se non maggiori senza alcuna abiura dei principi di base.

Tale era l’obiettivo di quella che è stata chiamata diplomazia del dollaro, in cui erano strettamente associati gli interessi materiali degli ambienti econo- mici e gli interessi politici. Tale diplomazia aveva il suo principale campo di azione negli stati dell’America Centrale. Lo schema di azione generale, al di là delle specificità del caso per caso, è abbastanza semplice da indicare ed è stato ben sintetizzato da Renouvin. Inizialmente vi erano richieste di concessioni di lavori pubblici, di miniere o di sfruttamento agricolo presentati al governo di tali Paesi su iniziativa di cittadini americani, oppure offerte di concorso finan- ziario presentate dalle banche americane per aiutare un governo a organizzare l’amministrazione o a creare una moneta stabile. Queste due forme erano spes- so legate poiché la concessione era in molti casi la controparte del prestito. La diplomazia del governo di Washington interveniva per appoggiare queste ri- chieste o queste offerte. Il ruolo di tale diplomazia diventava più attivo quan- do si trattava di proteggere investimenti di capitali. Nelle Repubbliche dell’America Centrale, dove l’instabilità politica era la norma, i capitali stranieri investiti in imprese private erano esposti a molti rischi, dalle modifiche della legislazione mineraria e agraria a modifiche nei criteri di imposizione fiscale. In

caso di problemi per le aziende nazionali, il governo degli Stati Uniti interve- niva, talvolta spontaneamente, altre volte su richieste esplicite degli interessati, utilizzando i metodi del negoziato o con la minaccia di azioni di forza.

Il governo di Washington effettuò anche il passo successivo, con la di- chiarazione che il mantenimento dell’ordine, in Paesi dove vi erano cittadini americani o dove erano stati investiti capitali americani, era indispensabile al normale sviluppo degli affari e alla sicurezza degli investimenti. Era questo il senso del «corollario» che il presidente Theodore Roosevelt aggiunse alla dot- trina Monroe con un messaggio al Senato il 6 dicembre 1904: se uno Stato americano si mostrava incapace di assicurare agli stranieri «la giustizia», se commetteva o lasciava che si commettessero atti che nuocevano ai diritti e agli interessi dei cittadini americani, gli Stati Uniti avevano il diritto di esercitare un «potere di polizia internazionale». I mezzi potevano essere diversi: fornitu- ra di armi e di crediti a un governo minacciato da un movimento rivoluzio- nario o la decisione invece di abbandonarlo al suo destino; la possibilità di de- cidere l’esito di una rivoluzione, rifiutando di riconoscere il nuovo governo for- mato dagli insorti o concedendo il riconoscimento in cambio di vantaggi com- merciali o garanzie finanziarie. Il peso degli interessi privati, economici e fi- nanziari in questa «diplomazia del dollaro» era senza dubbio fondamentale. Senza contare che a essi si sommavano interessi politici e strategici di Washington: il governo degli Stati Uniti riusciva a stabilire un quasi-protetto- rato su territori ai quali, al di là di qualsiasi considerazione di ordine morale, sarebbe stato comunque molto più difficile imporre uno statuto coloniale.

Più complesso è stabilire, se non in termini molto generali, se gli obiet- tivi politici siano stati deliberati o se piuttosto l’azione politica avesse tratto un pretesto dall’influenza economica e finanziaria. Si verificarono l’una e l’altra di queste fattispecie: in alcuni casi furono gli ambienti economici che prese- ro l’iniziativa e in seguito sollecitarono il governo a una azione politica per proteggere i loro investimenti. In altri casi fu il governo che spinse sul pro- scenio gli uomini d’affari e le banche per preparare il terreno a un suo pro- prio intervento politico e militare. Da questo punto di vista non vi era nien- te di inedito nel metodo seguito dagli Stati Uniti, già sperimentato da tempo dagli Stati europei. La differenza risiedeva piuttosto nell’ampiezza, nella con- tinuità e nella perseveranza con cui esso venne applicato da Washington.

Alla fine del secolo il grande problema dell’America Centrale era la questione del Canale interoceanico: in questa occasione si manifestò l’inte- resse americano a eliminare gli interessi degli Stati europei nell’area. Ciò fu evidente nel 1895-96, in occasione del contrasto sorto con il governo di Londra in merito alla determinazione di confini tra la Guyana inglese e il

Venezuela. Gli Stati Uniti diedero una interpretazione attiva della dottrina Monroe e affermarono che essi dovevano partecipare, in quanto garanti del- la dottrina Monroe, alla delimitazione dei confini. Londra cedette e nel 1896 riconobbe agli Stati Uniti la preminenza politica nell’America Latina, ponendo le premesse per il corollario Roosevelt del 1904. Si trattava di un accordo che rappresentava l’aspetto diplomatico di un più ampio processo di riavvicinamento tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Entro pochi anni la Gran Bretagna avrebbe abbandonato a Washington l’egemonia politica sull’emisfero americano, si sarebbe tutelata in Estremo Oriente con l’allean- za giapponese e avrebbe concentrato i suoi sforzi contro la Germania. L’analogia culturale e politica tra i due Paesi e la vicinanza fra l’imperialismo prevalentemente informale degli Stati Uniti e quello inglese, ancora fedele al liberismo commerciale, rendevano possibile una intesa imperiale anglosas- sone nel quale gli Stati Uniti non puntavano tanto a minacciare l’egemonia mondiale della Gran Bretagna ma a integrarsi con essa.

Sul finire del secolo, e agli inizi di quello successivo, gli americani ri- portarono due successi. A Cuba anzitutto. I cubani erano impegnati da lungo tempo in una lotta armata per giungere all’indipendenza della Spagna (1868-78 e 1895-98). Fu sufficiente un pretesto perché l’opinio- ne pubblica americana sollecitasse il governo all’intervento nella guerra contro la Spagna. In tre mesi la Spagna fu sconfitta. In realtà esisteva or- mai da anni una presenza di fatto imperiale degli Stati Uniti sull’isola ca- raibica. In particolare da quando, nel 1890, era stata fondata la American Sugar Refining Company che in tempi molto brevi monopolizzò l’acqui- sto dello zucchero greggio cubano.

Le conseguenze della guerra del 1898 non si sentirono solo a Cuba: la Spagna perse Portorico e, nel Pacifico, le Filippine e l’isola di Guam. Le Filippine e le Hawaii furono annesse nel 1898 con lo scopo di assicurarsi ba- si avanzate per la conquista del mercato cinese. L’annessione delle Filippine fu considerata annessione temporanea, intesa come educazione all’autogo- verno e come preparazione all’indipendenza, concessa però solo nel 1946. Sul piano economico le Filippine furono sottoposte al regime coloniale del mercato protetto destinato a fornire quelle materie prime che, come lo zuc- chero, non facevano concorrenza ai prodotti nazionali americani.

Quanto a Cuba, nel 1903, nell’appendice alla prima Costituzione del- l’isola, formalmente divenuta indipendente, il cosiddetto «emendamento Platt» attribuì agli Stati Uniti il «diritto di intervento per la conservazione dell’indipendenza cubana» (art. 3) e quello (art. 4) di costruire sul territorio cubano una base militare (sarà la base di Guantanamo).

L’altra questione su cui gli Stati Uniti registrarono un successo fu la questione di Panama. Una volta preso piede sugli arcipelaghi del Pacifico, e in un momento in cui la Gran Bretagna era assorbita dalla guerra con i boe- ri, gli Stati Uniti si fecero riconoscere il diritto di costruire il canale, di eri- gervi fortificazioni e di inviarvi una forza di polizia militare.

Negli ultimi due decenni del XIX secolo, l’imperialismo europeo en- trò quindi in una nuova fase. Se era vero che gli imperi si erano ampliati no- tevolmente a partire dall’inizio del secolo, dopo il 1880 il ritmo e il caratte- re dell’espansione subirono una accelerazione. Si riteneva a ragione che l’im- perialismo, accettato da alcuni perché utile agli interessi nazionali, guardato con sospetto da altri, perché considerato un sintomo del decadimento del li- beralismo del XIX secolo, fosse uno dei fatti salienti dell’epoca. Da qui la ne- cessità di spiegarne i motivi. I tentativi di spiegare il fenomeno sono all’ori- gine di un vasto corpus di teorie dell’imperialismo. Fondamentalmente, co- me suggerisce Fieldhouse, queste teorie possono essere divise in due ampie categorie, a seconda della prospettiva adottata.

La prima e più ampia categoria può essere chiamata eurocentrica, per- ché le nuove tendenze dell’imperialismo sono spiegate sulla base delle mu- tate condizioni, atteggiamenti ed esigenze degli Stati europei. In altri termi- ni e in senso generale, le nuove caratteristiche dell’imperialismo derivarono da ciò che si verificava in Europa. All’interno di questo approccio generale, i vari tipi di spiegazioni possono essere divisi in economici e non economi- ci. Le teorie basate su fattori economici partono dalla premessa che sul fini- re dell’Ottocento l’imperialismo fu un prodotto dei mutamenti che si stava- no verificando nelle economie europee e in particolare della crescente indu- strializzazione. Per l’Europa era utile o necessario annettere ampi spazi di ter- ritori d’oltremare perché lo sviluppo economico lo esigeva. L’annessione po- teva portare diversi vantaggi: le colonie potevano favorire lo sviluppo del commercio e quindi la produzione, assicurando nuovi mercati e fornendo materie prime («imperialismo commerciale»). Le nuove colonie potevano costituire lo sbocco per investire in termini redditizi capitali che, in condi- zione di monopolio o sottoconsumo dell’Europa, non trovavano impieghi

Le interpretazioni