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Altri nomi nella poesia dell’esilio

I NOMI NELLA POESIA DELL ’ ESILIO

3. Altri nomi nella poesia dell’esilio

Se nei Tristia i destinatari cui l’esule si rivolge sono costretti all’anonimato, ostinatamente perseguito dal poeta (non senza un certo sforzo, come abbiamo visto) in tutti e cinque i libri, la prima opera dell’esilio – in misura maggiore e certamente più significativa rispetto alle ex Ponto – è tuttavia ricca di altri nomi, inusitati ed esotici, senz’altro estranei alla gran parte del pubblico romano del tempo. L’esilio a Tomi conduce infatti Ovidio (e i suoi lettori) a stretto contatto con una realtà prima sconosciuta, un mondo lontano, volutamente presentato come selvaggio, inospitale e soprattutto straniero; la poesia dell’esule – di conseguenza – si vede costretta a

nominare tale nuova realtà, introducendo nei distici dell’elegia latina i nomi di genti,

paesi, città e luoghi assolutamente inediti.

Innanzitutto le genti: nel precedente capitolo, in riferimento al discorso intorno alla progressiva perdita di competenza del latino denunciata dall’esule, abbiamo citato il passo di Tr. III 14 in cui i nomi delle lingue parlate nei dintorni di Tomi vengono menzionate in un distico particolarmente ‘cacofonico’ (vv. 47 s.), che rende l’idea del suono davvero ‘barbaro’ – ovviamente, agli occhi (o meglio, alle orecchie) di Ovidio – caratterizzante quegli stessi idiomi. La crudezza delle parlate locali fa parte della generale feritas che il poeta attribuisce alle genti che abitano il Ponto; in Tr. III 10, la celebre elegia ‘dell’inverno’ a Tomi, che per la prima volta consegna al lettore una descrizione completa del lugubre paesaggio pontico, veniamo a conoscenza dei nomi dei popoli barbari che abitano le regioni circostanti: una serie di etnonimi «non degni» di Ovidio né del suo nome, menzionato nei versi immediatamente precedenti (vv. 5 s.; per i due distici precedenti, cfr. supra):

Sauromatae cingunt, fera gens, Bessique Getaeque: quam non ingenio nomina digna meo!

Non stupisce il fatto che questo riferimento (uno dei primi) ai nomi dei popoli barbari, così come quello alle lingue parlate in terra pontica, trovino posto entro il terzo libro dei

Tristia: dopo che in Tr. I Ovidio ha fornito il ‘resoconto’ del proprio viaggio in mare ed

in Tr. II ha rivolto ad Augusto la lunga autodifesa che occupa l’intero libro, in Tr. III il poeta – insieme con i suoi lettori – si trova infine, per la prima volta, a dover fare i conti con la dura realtà dell’esilio a Tomi;53 i nomi dei luoghi che ora circondano l’esule paiono in gran parte sinistramente sconosciuti (III 4b.47 ss.):

proxima sideribus tellus Erymanthidos Ursae me tenet, adstricto terra perusta gelu.

Bosporos et Tanais superant Scythiaeque paludes,

53 Cfr. S

CHUBERT 1990, p. 155: «[…] Tendenz des dritten Buches, die neue Existenz des Dichters an seinem Verbannungsort in düsteren Farben zu malen»; si veda parimenti quanto già osservato da EVANS

1975, p. 8: «in this book [scil. Tr. III], published during his first year of residence at Tomis, after a two- year absence from the capital, he chose as his principal theme the striking contrast between his former life in Rome and his present situation in exile».

vix satis et noti nomina pauca loci. ulterius nihil est nisi non habitabile frigus:

heu quam vicina est ultima terra mihi!

Quando invece sono conosciuti, non promettono nulla di buono: è il caso del nome della cittadina pontica dove Ovidio è costretto a risiedere, cui è dedicata addirittura un’intera elegia di carattere ‘eziologico’, Tr. III 9.54 All’apparente ‘conforto’ iniziale, derivato dalla consapevolezza che Tomi è città greca fondata dai Milesi e si distingue pertanto dalla barbaria pure così vicina, fa seguito l’inquietante presa di coscienza del fatto che il nome (per quanto greco) della città deriva da un mostruoso assassinio occorso proprio nei pressi del sito dove ora sorge il centro urbano: il nome di Tomi si ricollega al verbo greco per ‘tagliare’ (τέµνω, tradotto da Ovidio – all’ultimo verso del componimento – col latino consecuisse) e si rifà allo smembramento del corpo del fratello Absirto per mano di Medea in fuga dalla Colchide insieme con Giasone e gli Argonauti (vv. 1 ss.):

hic quoque sunt igitur Graiae (quis crederet?) urbes inter inhumanae nomina barbariae.

huc quoque Mileto missi venere coloni, inque Getis Graias constituere domos.55 sed vetus huic nomen, positaque antiquius urbe,

constat ab Absyrti caede fuisse loco.

Sempre nel terzo libro troviamo inoltre menzionato il ‘cognome’ del Ponto Eusino, il mare su cui si affaccia Tomi e che – soprattutto durante la stagione invernale – costituisce la gran parte dello ‘spettacolo’ derivato dal congelamento delle sue acque;56 rivolgendosi al proprio dies Natalis (il giorno del compleanno, accolto controvoglia dal poeta, che vorrebbe non poterne più festeggiare), Ovidio gli chiede di non tornare più a visitarlo in terra pontica (Tr. III 13.25 ss.):

54 Su cui si veda, dopo S

CHUBERT 1990, HINDS 2007.

55

Infelice la scelta, che si riscontra nell’edizione di Owen, di considerare questi primi due enunciati come altrettante domande, apponendo dunque i punti interrogativi al termine di ciascuno dei due pentametri.

56 Ci soffermeremo nel prossimo capitolo sull’elemento ‘spettacolare’ riscontrabile nella poesia dell’esilio

si tamen est aliquid nobis hac luce petendum, in loca ne redeas amplius ista, precor, dum me terrarum pars paene novissima, Pontus

Euxinus falso nomine dictus, habet.

Considerata l’inospitalità della regione, che l’esule sta direttamente sperimentando, pare davvero inopportuno – quasi ironicamente antifrastico – il beneaugurante nome ‘Eusino’ (Εὔξεινος, ‘benevolo verso gli ospiti’) conferito dai Greci a quello che prima si chiamava Ἄξενος, come del resto sa anche Ovidio (Tr. IV 4.55 s.):

frigida me cohibent Euxini litora Ponti: dictus ab antiquis Axenus ille fuit.57

Tipicamente ovidiana risulta l’attenzione, riscontrabile in particolare in questi passi, conferita al vero significato dei nomi, che abbiamo sopra rilevato a proposito delle

Metamorfosi: come non di rado avviene nel poema delle mutatae formae, il poeta ora

esule rintraccia la contraddizione che si annida nel nome del mare presso cui è costretto a vivere, nella misura in cui il ‘vocabolo’ Euxinus non corrisponde, nel suo significato proprio, alla realtà che pure vorrebbe definire.58 Dalla medesima attitudine alla riflessione sul significato dei nomina deriva la precisazione sul vero ‘nome’ della pena toccata al poeta (non l’exilium, bensì la più ‘mite’ relegatio) che troviamo in Tr. V 11, dove Ovidio – rivolgendosi alla moglie, che da un non meglio precisato nescioquis ha subito l’offesa di essere definita exulis uxor (v. 2) – individua il corretto termine giuridico qualificante la poena (vv. 9 s.; 19 ss.; 29 s.):

fallitur iste tamen, quo iudice nominor exul: mollior est culpam poena secuta meam. […]

57 Sull’origine del nome, cfr. Der Neue Pauly, s.v. ‘Pontos Euxeinos’: «die ant. Bez. dürfte auf die Iranier

zurückgehen, die das Meer als achshaenas, »dunkel«, bezeichneten; durch Transkription ins Griech. entstand daraus áxeinos »ungastlich« […], eine Bezeichnung, die von den Seeleuten euphemistisch zu

eúxeinos, »gastfreundlich« umgedeutet wurde».

58 Cfr. anche Tr. V 10.13 s., dove alla ‘falsità’ del nome Euxinus si affianca la ‘autenticità’ del referente

geografico sinistra («sinistra» nel senso di laeva, ma anche in quello di «malaugurata, inquietante») in riferimento alla terra dell’esilio, posta per l’appunto sulla riva sinistra del Ponto: quem tenet Euxini

utque aliis, quorum numerum comprendere non est Caesareum numen sic mihi mite fuit.

ipse relegati, non exulis utitur in me nomine: tuta suo iudice causa mea est. […]

at tu fortunam, cuius vocor exul ab ore, nomine mendaci parce gravare meam.59

Il medesimo discorso, infine, vale per quel che concerne – dopo quello della poena – il ‘nome’ della culpa. Dalle prime alle ultime raccolte dell’esilio, come abbiamo visto nel primo capitolo, Ovidio tiene a precisare che la colpa di cui si è macchiato consiste in un

error, una fatale disattenzione, e non si è certo trattato di uno scelus, di un crimine

premeditato; è bene pertanto che i lettori siano a conoscenza dei nomina vera di ciò che è capitato (Tr. III 6.35 s.; ex P. II 2.17 s.):

stultitiamque meum crimen debere vocari,

nomina si facto reddere vera velis.

nil nisi non sapiens possum timidusque vocari: haec duo sunt animi nomina vera mei.

Nonostante Ovidio si sia dimostrato attento ai nomi qualificanti gli ‘oggetti’ e agli ‘oggetti’ qualificati dai nomi anche in altre circostanze nel corso della sua vasta produzione, questa volta è davvero importante, per l’esule, specificare chiaramente il modo in cui è necessario che la propria culpa vada definita: nelle opere dell’esilio – per lo meno, nell’ultimo caso esaminato – la predilezione nutrita dal poeta nei confronti dei

59 Cfr. analogamente Tr. II 135 ss.: adde quod edictum, quamvis immite minaxque, / attamen in poenae nomine lene fuit: / quippe relegatus, non exul, dicor in illo, / privaque fortunae sunt ibi verba meae (sulla

‘ambiguità’ rintracciabile in questo passo, cfr. CICCARELLI 2001, pp. 30 ss.: «tale precisazione sul contenuto crudele dell’editto rende poco credibile l’elogio della sua mitezza, limitata al nomen, cioè alla mera definizione formale della pena; il vocabolo costituisce la spia lessicale dello scopo […] di dimostrare che l’indulgenza di Augusto è solo l’esito di un’accorta strategia retorica, che attraverso un uso misurato delle parole ‘falsifica’ la realtà. […] Il divario tra parole e fatti è tale da porre in secondo piano la stessa distinzione tra exilium e relegatio, che sembra offrire una prova decisiva della benevolenza dell’imperatore: nella situazione in cui si trova Ovidio, infatti, relegatus è solo un eufemismo che nasconde una pena dura e dolorosa al pari dell’exilium»); V 2b.57 s. (il poeta si rivolge ad Augusto): nec

nomina e dei loro ‘autentici’ significati, che altrove si manifesta nell’arguto gioco di

parole o nell’escogitazione del ‘concetto’,60 si combina alla spiacevole necessità di un condannato, che fino all’ultimo tenta di sostenere la propria causa attribuendo – da buon avvocato di se stesso – i «veri nomi» ai fatti accaduti.61

60 Sulla presenza – soprattutto nelle Metamorfosi – di alcuni elementi intrinsecamente ‘concettistici’, cfr.

ROSATI 1983, p. 117 n. 51 e pp. 156 s. (con la n. 118).

61 Sulla connotazione ‘giuridica’ rintracciabile nell’osservazione intorno ai vera nomina, cfr. G

ALASSO

1995 ad ex P. II 2.18: «nell’insistenza sul verum nomen è attuato il procedimento della definitio» (segue la citazione di CIC. Lig. 17, dove si tratta propriamente della distinzione tra scelus ed error: ac mihi

quidem, si proprium et verum nomen nostri mali quaeritur, fatalis quaedam calamitas incidisse videtur;

per un ulteriore confronto tra l’orazione ciceroniana e la situazione di Ovidio, cfr. FOCARDI 1975, pp. 93 s.); sulla definitio, cfr. LAUSBERG 1960, p. 66 (e p. 104 sulle definizioni di error, ignorantia, imprudentia,

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