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Illusione, metamorfosi e spettacolo nelle opere ovidiane dell'esilio

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Academic year: 2021

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(1)

Università di Pisa

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea in Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di Laurea Magistrale

I

LLUSIONE

,

METAMORFOSI E SPETTACOLO

NELLE OPERE OVIDIANE DELL

ESILIO

Relatore:

Correlatore:

prof. Rolando Ferri

prof. Gianpiero Rosati

Controrelatore:

dott.ssa Francesca Lechi

Candidato:

Edoardo Galfré

(2)

I

NDICE

INTRODUZIONE p. 2

CAPITOLO I–L’ESULE E L’ERROR

1. Un’esperienza (problematicamente) trasfigurata nel mito p. 8

2. Un paradigma ‘positivo’: Atteone p. 15

CAPITOLO II–LA METAMORFOSI DI OVIDIO

1. Fabula e intreccio p. 23

2. Un testo, tanti modelli p. 27

3. I segni di una metamorfosi p. 29

4. Metamorfosi poetica, metamorfosi fisica: la trasformazione dell’esule p. 39

CAPITOLO III–I NOMI NELLA POESIA DELL’ESILIO

1. L’importanza di chiamarsi Biblide (e Mirra) p. 59

2. Il nome di Ovidio, i nomi degli altri p. 67

3. Altri nomi nella poesia dell’esilio p. 84

CAPITOLO IV–LO ‘SPETTACOLO’ DELL’ESILIO

1. L’incredibile e spettacolare mondo dell’esilio p. 90

2. Una questione di credibilità p. 104

(3)

I

NTRODUZIONE

Le opere dell’esilio di Ovidio (Tristia, Ibis, Epistulae ex Ponto) hanno ultimamente cominciato a ricevere nuovo interesse da parte della critica. La più frequente ‘accusa’ che fino a tempi recenti veniva loro abitualmente mossa si rifaceva alla monotonia, alla ripetitività, all’assenza di ispirazione caratterizzanti quelle raccolte – difetti che Ovidio stesso, com’è noto, non evita di riconoscere alle elegie inviate da Tomi, la remota località pontica dove Augusto decise di bandirlo nell’8 d.C. La bibliografia più recente è invece stata in grado di mettere da parte questo tipo di giudizio estetico e ha individuato più oggettivi criteri attraverso i quali valutare l’ultima produzione ovidiana. In particolare, un’interessante linea di ricerca tenta di rintracciare quegli elementi di

continuità che disegnano un percorso dalle opere erotiche giovanili (soprattutto Amores, Ars amatoria, Heroides), attraverso i poemi della ‘maturità’ artistica (le Metamorfosi e i Fasti), per giungere infine alle elegie dell’esilio. La trasformazione dell’elegia – un

genere che Ovidio praticò in tutte le sue forme, al punto da ‘esaurirlo’ – costituisce ormai l’oggetto di numerosi e validi studi, che si concentrano in particolare sul passaggio – esaminabile, naturalmente, sotto diversi aspetti – dall’elegia lieta degli anni giovanili all’elegia triste dell’esilio.1 Considerate talune caratteristiche tipiche della poetica e dell’estetica ovidiane, è d’altro canto possibile individuare un primo tipo di ‘continuità’ fin dalla valutazione del modo in cui Ovidio stesso ‘parla’ delle proprie precedenti opere: in alcuni componimenti dell’esilio, il poeta arriva infatti al punto di ‘riscrivere’ (o quantomeno ‘rivisitare’) parti della propria passata produzione;2 come la critica ha giustamente notato, quella di riflettere su se stesso in quanto autore di altri testi costituisce una tendenza, un’attitudine tipicamente ovidiana.3

1 Per un quadro generale, cfr. H

ARRISON 2002 e WILLIAMS 2002b, pp. 378 ss.; per il passaggio dall’elegia ‘lieta’ all’elegia ‘triste’, lo studio di riferimento è costituito da LABATE 1987.

2 H

INDS 1985 mostra in che modo in Tr. I 7 Ovidio fornisca una ‘reinterpretazione’ della propria opera principale, le Metamorfosi; ma si tenga a mente che in Tr. II, la lunga elegia di autodifesa indirizzata ad Augusto, il poeta tacitamente modifica e obliquamente rivisita alcuni versi dell’Ars: cfr. BARCHIESI 1993 (pp. 165 ss.; ripreso in BARCHIESI 1994,pp. 22 s.) e GIBSON 1999 (p. 23).

3 Molto utili da questo punto di vista R

(4)

L’intero corpus ovidiano è stato fatto oggetto, una decina di anni fa, dell’importante lavoro di Philip Hardie Ovid’s poetics of illusion.4 Lo studio di Hardie, che include ampie sezioni di ricezione (vi si trovano, ad esempio, pagine su Petrarca, su Shakespeare, sui romanzi di Malouf e di Ransmayr), coglie un aspetto centrale della poetica e soprattutto del linguaggio di Ovidio: partendo dal presupposto che qualsiasi testo possiede la capacità di evocare la presenza di un determinato oggetto lontano nel tempo e nello spazio, Hardie esamina la particolare rilevanza che questa facoltà assume nel caso del testo di Ovidio, dagli Amores alle ex Ponto; il nostro poeta pare in effetti affascinato dalle potenzialità del linguaggio, che si rivela in grado di generare una profonda ambiguità fra ‘presenza’ e ‘assenza’: «the duplicity which is the subject of this book is one which equivocates between absence and presence and which delights in conjuring up illusions of presence».5 Nel capitolo specificamente dedicato alle opere dell’esilio, lo studioso prende in considerazione alcuni aspetti assai interessanti – e allo stesso tempo fondamentali – di Tristia ed ex Ponto: l’auto-identificazione dell’esule con il liber inviato a Roma, lo sfruttamento della possibilità di ‘essere’ a Roma attraverso ‘l’occhio della mente’, la presenza-assenza del poeta autore delle epistole, la riflessione sull’importanza dei nomi.6

Vent’anni prima del lavoro di Hardie, il carattere ‘illusionistico’ e ‘autoriflessivo’ del linguaggio ovidiano (quello delle Metamorfosi, in particolare) era già stato studiato da Gianpiero Rosati nel libro intitolato Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle

Metamorfosi di Ovidio.7 Esaminando nel dettaglio i due episodi cui il titolo allude, ma allargando successivamente il discorso, Rosati illustra alcune peculiarità che caratterizzano le scelte tanto narrative quanto stilistiche del poema metamorfico. Dal punto di vista tematico, notevole risulta l’importanza che nelle vicende narrate rivestono elementi quali il caso, l’errore, l’illusione, di cui l’autore non si stanca (anzi, si compiace) di rendere vittime i protagonisti: «la realtà delle Metamorfosi è labirintica, inafferrabile, sfuggente: sotto il velo dell’apparenza può sempre emergere un’altra diversa realtà, e i personaggi si aggirano come smarriti in questo universo degli errori»;8

4 H

ARDIE 2002b.

5

HARDIE 2002b, p. 3.

6 Una rivalutazione dei temi presi in esame da Hardie si trova in S

PENTZOU 2009, pp. 388 ss.

7 R

OSATI 1983.

8 R

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è in effetti possibile rintracciare, nelle Metamorfosi, una sorta di ‘lessico dell’illusione’, riscontrando l’alta frequenza di sostantivi come error e imago, di verbi come fallere,

decipere, simulare. Allo stesso tempo, dal punto di vista formale, Rosati mette a fuoco i

tratti distintivi dello stile e del linguaggio ovidiani: all’illusione di cui sono preda i personaggi delle storie mitiche corrisponde l’‘illusionismo’ del linguaggio poetico, che ama indugiare sul paradosso, sul gioco di parole, sull’ardito accostamento verbale (una sorta di ‘retorica dell’illusione’; particolarmente sfruttata dal poeta risulta per esempio la figura della sillessi, «che ha come propria caratteristica quella di proporre una prospettiva inconsueta, originale»9). Lo smarrimento dei personaggi e il virtuosismo dell’espressione contribuiscono a generare lo ‘spettacolo’ delle forme mutevoli che il poeta propone al lettore.

Partendo soprattutto dalle osservazioni di Rosati e Hardie, il presente lavoro si propone di studiare la continuità rintracciabile tra le Metamorfosi e le opere ovidiane dell’esilio: un tema non ancora molto praticato dalla critica, che – come si accennava – si è piuttosto concentrata sul ‘mutamento di segno’ subito dall’elegia ovidiana, dalla fase ‘lieta’ alla fase ‘triste’. Alcune caratteristiche tipiche e taluni aspetti centrali della poesia dell’esilio, tuttavia, risultano a mio parere a tal punto legati all’esperienza maturata dal poeta delle Metamorfosi che stupisce l’assenza, finora, di contributi specifici e più dettagliati intorno al rapporto rintracciabile tra il poema delle mutatae formae e i carmi composti a Tomi. Le ragioni di una tale assenza probabilmente derivano dal fatto – incontestabile – che i componimenti dei Tristia e le epistole delle ex Ponto segnano il ritorno, da parte del poeta ora esule, all’elegia cosiddetta soggettiva, stabilendo pertanto un collegamento più esplicito, e dunque maggiormente individuabile, con opere quali gli Amores (il poeta amans si trasforma nel poeta relegatus, che anziché cantare l’amore per la domina lamenta la propria triste condizione esistenziale, sfruttando tuttavia molti dei temi e dei moduli già impiegati in quell’altra occasione)10 o le Heroides, l’opus

ignotum aliis (Ars III 346) attraverso cui Ovidio ‘inventa’ un’elegia erotica soggettiva

‘al femminile’ (in questo caso, è la natura epistolare di quei componimenti a costituire l’elemento più immediatamente accostabile ad una raccolta come quella delle ex

9 R

OSATI 1983, p. 154.

10 Molto materiale è raccolto da N

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Ponto).11 Meno scontati potranno forse apparire, a prima vista, gli eventuali rapporti istituibili tra le elegie dell’esilio e l’opera ‘maggiore’, il poema delle forme mutevoli che nemmeno l’annoso (eppure prolifico) dibattito intorno al suo genere può impedire di considerare appartenente all’epica mitologica – un’epica, per l’appunto, quantomeno

sui generis.

Il nostro esame di questi rapporti prenderà l’avvio dalla valorizzazione di un paradigma mitico, quello di Atteone, cui l’esule associa se stesso e il proprio caso ‘biografico’ nel corso della lunga elegia di autodifesa rivolta ad Augusto ed occupante l’intero secondo libro dei Tristia (capitolo I): tra le numerose figure mitiche menzionate e portate ad esempio nel corso dei libri composti a Tomi, a quella di Atteone – per quanto esplicitamente citata soltanto nel passo di Tr. II – va senz’altro attribuita un’importanza particolare, non fosse altro perché il ‘parallelo’ gioca un ruolo decisivo nell’affermazione, da parte dell’esule, della propria relativa innocenza; a questo proposito non possono in alcun modo essere trascurati né l’ideale rimando alla trattazione che della vicenda di Atteone lo stesso Ovidio propone nelle Metamorfosi né la ‘tipologia paradigmatica’ entro cui si colloca l’esempio fornito dal mitico cacciatore involontario testimone della nudità di Diana. Una volta illustrata – per l’appunto – la rilevanza che tanto nel caso di Atteone (e non solo) quanto in quello di Ovidio possiede l’elemento del caso generatore di un error inconsapevole, passeremo all’analisi di un altro aspetto, evidentemente legato al primo, che accomuna il destino dell’esule a quello della (quasi) totalità dei personaggi protagonisti delle Metamorfosi (capitolo II): nel corso degli anni dell’esilio, infatti, anche il poeta relegato dichiara di aver subito, successivamente alla condanna, una sorta di metamorfosi; la critica ha giustamente notato che la ‘trasformazione’ subita dall’esule riguarda in primo luogo la sua poesia (si tratta della trasformazione dell’elegia cui abbiamo già accennato), ma a mio parere non va sottovalutato un altro tipo di ‘mutamento’ di cui l’esule si percepisce vittima – ed è un mutamento propriamente corporeo, che coinvolge la persona fisica del poeta: dopo una lettura ‘orientata’ di Tr. I 3, la celebre elegia dell’addio a Roma, saranno esaminati in questo senso alcuni passi piuttosto significativi, nei quali l’esule lamenta il deperimento del proprio corpo, oltre che la perdita della propria facoltà locutiva.

11 Sulle Heroides in quanto elegia erotica soggettiva ‘al femminile’, cfr. R

OSATI 1992; sui rapporti tra

(7)

Come si sarà notato, gli elementi considerati finora individuano – fra le Metamorfosi e le opere dell’esilio – una continuità di tipo ‘tematico-narrativo’: il tema dell’error e quello della metamorfosi (che nel poema ovidiano si rivelano spesso l’uno conseguenza dell’altro) occupano una posizione di discreto rilievo anche nelle raccolte dell’esilio, dove si ‘narra’ dell’errore fatale commesso dal poeta e della trasformazione fisica cui, dal momento della condanna, risulta soggetto il suo corpo. È possibile tuttavia rintracciare, fra l’una e le altre opere, un secondo tipo di continuità, che potremmo questa volta definire ‘linguistico-retorica’: mi riferisco non tanto allo stile delle opere in questione, quanto piuttosto alla particolare considerazione entro cui Ovidio continua a tenere il linguaggio e le potenzialità espressive di cui esso si rivela capace. Colpisce, a questo proposito, la riflessione che il poeta non cessa di rivolgere ai nomi, tanto propri quanto comuni (capitolo III): all’assoluto rilievo conferito ai nomi propri, la cui possibile ‘separazione’ dal soggetto qualificatone rappresenta un elemento centrale sia nelle Metamorfosi sia nei Tristia (limitatamente al nome del poeta, dal momento che – com’è noto – nella prima opera dell’esilio gli amici di Ovidio non vengono nominati) sia – a maggior ragione – nelle ex Ponto (dove invece i destinatari vengono esplicitamente menzionati), si unisce il frequente sfruttamento dei vari significati attribuibili ai nomi comuni, di cui spesso il nostro autore segnala l’ambiguità o l’inappropriatezza in relazione all’oggetto che essi definiscono. La ricercata associazione di nomi e vocaboli abitualmente incompatibili, d’altro canto, costituisce uno dei mezzi attraverso cui Ovidio – tanto nel poema delle forme mutevoli quanto nelle elegie dell’esilio – si impegna a presentare al lettore l’immagine di una realtà ‘spettacolare’ (capitolo IV): la valorizzazione del mirum, dell’aspetto ‘meraviglioso’ e senz’altro inatteso, che nelle Metamorfosi caratterizza la narrazione delle innumerevoli vicende mitiche che il poeta propone ai vari ‘strati’ del suo pubblico, rappresenta un elemento senza dubbio tipico anche dei carmi dell’esilio, nei quali l’esule non si stanca di illustrare ai lettori gli svariati aspetti paradossali, innaturali e poco credibili che qualificano la ‘realtà’ di Tomi e dei suoi dintorni; la volontà di meravigliare i destinatari al fine di colpirne l’attenzione e di esortarne il soccorso si scontra con la necessità di risultare in ogni caso credibile, un’urgenza che continua ad essere percepita dal poeta esule fino all’ultima raccolta inviata dal Ponto.

(8)

A voler trovare un termine in grado di sintetizzare e di riassumere i vari aspetti che si cercherà di illustrare nel corso del presente lavoro, la definizione di poetica dell’illusione già suggerita da Rosati e poi proposta da Hardie sembra cogliere senz’altro nel segno: mentre infatti gli elementi ‘tematico-narrativi’ sopra menzionati raccontano l’illusione di cui il poeta si dichiara vittima (l’error commesso e la ‘conseguente’ metamorfosi subita), la continuità di tipo ‘linguistico-retorico’ risalta piuttosto la mai stanca tendenza, manifestata dal poeta, ad ‘illudere’ il lettore, sottoponendo alla sua considerazione il risvolto mutevole ed ambiguo della realtà e del linguaggio che la definisce.

(9)

I

L’

ESULE E L

ERROR

1. Un’esperienza (problematicamente) trasfigurata nel mito

Fra i poeti latini dell’età augustea (e non solo), Ovidio è senz’altro l’autore più ‘autobiografico’ di tutti.1 Il lusor amorum – nato nel centro peligno di Sulmona (Tr. IV 10.3: Sulmo mihi patria est), vissuto nell’aurea Roma (Ars III 113) in una delle epoche più floride della sua storia millenaria, esiliato infine negli ultimi anni di vita a Tomi, la cittadina pontica ai margini dell’impero di Augusto – ci trasmette effettivamente, più di quanto facciano altri autori, un buon numero di dettagli circa la propria biografia; in particolare, di Ovidio possediamo un’elegia, Tr. IV 10, comunemente definita ‘autobiografica’, in quanto espressamente pensata e scritta allo scopo di trasmettere ai posteri «chi io sia stato» (vv. 1 s.: ille ego qui fuerim … accipe, posteritas).2

Non è un caso se l’elegia ‘autobiografica’ trova posto all’interno di un’opera, i Tristia, che nasce e prende spunto da un evento propriamente biografico, la condanna all’esilio subita dall’autore. Questo dato, che a prima vista sembra qualificare una tipologia di letteratura di cui l’antichità non ci offre molti altri esempi, viene regolarmente rilevato dallo stesso Ovidio, che nelle opere dell’esilio spesso notifica al lettore la stretta connessione esistente fra la propria poesia ‘triste’ e la propria vita di esule (Tr. V 1.1 ss.):

hunc quoque de Getico, nostri studiose, libellum litore praemissis quattuor adde meis.

hic quoque talis erit, qualis fortuna poetae: invenies toto carmine dulce nihil.

1 Cfr. K

NOX 2009a, p. 4: «Ovid is himself the source for most of what we think we know about his life; indeed, he provides more information about himself than most ancient poets».

2 Su Tr. IV 10, bibliografia citata infra, p. 68 n. 23; per il testo dei Tristia e delle ex Ponto, l’edizione

critica di riferimento nel corso del presente lavoro sarà quella di Owen, da cui tuttavia spesso ci discostiamo nell’interpunzione; eventuali divergenze di maggiore rilievo saranno segnalate in nota.

(10)

flebilis ut noster status est, ita flebile carmen, materiae scripto conveniente suae.

integer et laetus laeta et iuvenalia lusi: illa tamen nunc me composuisse piget. ut cecidi, subiti perago praeconia casus,

sumque argumenti conditor ipse mei.

In questo passo, appartenente all’elegia proemiale dell’ultimo libro dei Tristia (siamo dunque circa alla metà nell’arco della produzione dell’esilio), troviamo una delle più compiute formulazioni di un aspetto centrale di questa stessa produzione: la corrispondenza, proclamata dall’autore, fra poesia e vita, il fatto cioè che la poesia ora praticata dall’esule risulta il «rispecchiamento di una triste condizione esistenziale»,3 quella per l’appunto vissuta dal poeta stesso. La ‘correlazione’ fra le due dimensioni, ben rilevata nel brano appena riportato (talis … qualis, ut … ita), sembra a tutti gli effetti designare un tipo di letteratura che si fa espressione diretta della voce dell’autore, oltrepassando pertanto i ‘vincoli’ abitualmente imposti dalle leggi del genere letterario: come si può notare dal passo di Tr. V 1, l’elegia viene ricondotta alle sue (presunte) origini di canto lamentoso (flebile carmen), il cui argumentum è costituito dalle sventure realmente occorse al suo conditor; nessun ‘filtro’ sembra dunque compromettere, o comunque influenzare, il passaggio dall’evento reale (l’esperienza biografica dell’esilio) al testo scritto.4

Alla critica non è tuttavia sfuggita l’autentica portata dell’operazione svolta da Ovidio nei carmi dell’esilio: se infatti da un passo come quello sopra citato il lettore può forse ricavare l’impressione di trovarsi di fronte ad una poesia veramente autobiografica, alla prova dei fatti le elegie ovidiane dell’esilio si rivelano tanto dipendenti da determinati

3 L

ECHI 1993, p. 12; cfr. parimenti la formulazione di ex P. III 9.35 s.: laeta fere laetus cecini, cano tristia

tristis: / conveniens operi tempus utrumque suo est.

4 Sulla ‘novità’ dell’operazione svolta da Ovidio nelle elegie dell’esilio si soffermava già utilmente L ECHI

1978, pp. 3 s.: «se per il poeta elegiaco l’autobiografia era letterariamente rappresentabile grazie ad un sistema formale preciso, per Ovidio esiliato a Tomi la scelta di un’elegia «soggettiva» circoscritta alla situazione attuale comporta l’adozione di un patrimonio formale messo a brusco contatto con una realtà priva ancora di una struttura letteraria. […] L’orientamento della sua attività poetica a Tomi è condizionato dalla sua situazione di vita: ed è a questa che Ovidio vuol dare realtà letteraria»; cfr. quanto successivamente osservato, in uno studio fondamentale, da LABATE 1987, pp. 92 s.: «[…] la poetica dell’esilio rispetta l’‘ortodossia’ elegiaca più di quella del lusor amorum. Una delle novità programmatiche degli Amores era stata proprio il rovesciamento giocoso nei termini del legame poesia-vita […]. Ora invece, sottolinea Ovidio, la poesia-vita sembra quasi prendersi la sua vendetta sulla letteratura e riafferma il suo sostanziale primato».

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‘schemi’ retorico-letterari quanto la gran parte delle opere antiche; la rappresentazione dei ‘fatti’ dell’esilio – a cominciare dalla narrazione del viaggio in mare da Roma a Tomi, oggetto di Tr. I, per proseguire quindi con le numerose descrizioni dei luoghi dell’esilio, del paesaggio pontico e delle genti che vi risiedono – si realizza, per l’appunto, attraverso il ricorso a ben individuabili modelli costituiti da altri testi, altre opere di letteratura, che il poeta esule dimostra di rielaborare e di ‘riadattare’ al proprio caso biografico.5 La stessa affermazione intorno alla puntuale corrispondenza fra poesia e vita trova, di per se stessa, la propria origine nell’assunto fondamentale qualificante il genere dell’elegia erotica latina: anche i poeti elegiaci, innamorati della propria domina, al medesimo amore per la domina dedicavano i propri versi, che soltanto in apparenza si facevano espressione del reale sentimento del poeta, costituendo al contrario un tipo di poesia che si collocava sotto il segno della convenzionalità e della letterarietà.6 Allo stesso modo, nelle opere dell’esilio Ovidio ripercorre e rivisita determinate ‘situazioni’ ricavate da una tradizione poetica e letteraria che il lettore – tanto antico quanto moderno – facilmente riconosce, notando che il ‘protagonista’ delle opere in questione (il poeta esule) sta rivivendo un’esperienza assai simile a quella vissuta dai protagonisti di altri testi: soprattutto, i principali ‘attori’ dei massimi poemi epici della tradizione (Ulisse, Enea, Giasone) o – in altre circostanze – il soggetto parlante nei testi dell’elegia erotica (il cosiddetto poeta amans). A questo proposito, la critica ovidiana ha saputo utilmente operare, relativamente alle elegie dell’esilio, una netta distinzione (che andrà tenuta costantemente presente, pena il fraintendimento di molta parte dell’ultima produzione ovidiana) tra l’effettivo autore dei carmi raccolti nei Tristia e nelle ex Ponto

5

Fra i contributi più recenti sulla questione del rapporto tra realtà e finzione nelle opere ovidiane dell’esilio, si distingue WILLIAMS 1994 (così come i successivi WILLIAMS 2002a e 2002b, passim): da vedere in particolare, alle pp. 3 ss., la sezione intitolata ‘The ‘unreality’ of Ovid’s exile poetry’; in generale, sul tema della ‘esistenza letteraria’ che caratterizza la produzione ovidiana nel suo complesso, sempre utile ROSATI 1979 (sulle opere dell’esilio si vedano in particolare le pp. 109 ss.), ripreso in CASALI 2009, pp. 343 ss.; fra gli studi precedenti, cfr. soprattutto NICOLAI 1973.

6

Cfr., da ultimo, THORSEN 2013, p. 5: «Latin love elegy is profoundly literary in a way that facilitates meta-generic reflection. […] Making love and making poetry are thus the only two modes of existence in the world of Latin love elegy. The fiction of Latin love elegy is consequently that there is no fiction»; sulla dipendenza della poetica ovidiana dell’esilio da questo assunto di base dell’elegia erotica, cfr. GALASSO 2008a, p. XV: «il poeta, come Tibullo e Properzio, vive un’esperienza di tormentosa infelicità nella sua dedizione totale e illimitata alla donna che ama, e questo dato esistenziale si rispecchia senza mediazioni nell’opera poetica. Sulla base del medesimo assunto, anche ora, in esilio, la poesia è un riflesso della vita»; interamente dedicato a questo aspetto è lo studio di CHWALEK 1996, che offre in apertura (pp. 14 ss.) un’utile e ragionata rassegna della bibliografia precedente; sul riutilizzo del lessico e dell’immaginario proprio del ‘corteggiamento’ elegiaco nelle opere dell’esilio, cfr. ROSATI 2003.

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(l’Ovidio poeta e personaggio storico, realmente esiliato a Tomi su ordine di Augusto nell’8 d.C.)7 e il personaggio protagonista di questi stessi carmi (l’Ovidio ‘attore’, o più propriamente la persona del poeta relegato).8

Considerata questa fondamentale distinzione, non stupisce – a questo punto – il fatto che al mito venga attribuita una particolare rilevanza nelle opere dell’esilio di Ovidio: come si accennava, l’esule tende a rappresentare – potremmo dire, a ‘trasfigurare’ – la propria vicenda biografica rifacendosi ai paradigmi mitici consacrati dalla tradizione poetica e letteraria.9 Ciò risulta evidente fin dalla prima raccolta inviata dall’esule a Roma: in Tr. I, il libro in cui l’autore ci propone il ‘resoconto’ del proprio viaggio verso Tomi, il lettore si trova di fronte – in successione – alla descrizione della terribile tempesta che colpisce la nave dell’esule (Tr. I 2), alla narrazione delle ultime ore trascorse dal poeta a Roma (Tr. I 3) e, nuovamente, alla descrizione della tempesta (Tr. I 4), riproposta ancora nell’ultimo componimento del liber (Tr. I 11).10 La lettura di queste elegie ci permette di comprendere le modalità attraverso le quali il poeta intende rappresentare il proprio caso biografico, oltre che il rapporto che egli intende istituire fra ‘realtà’ dei fatti e ‘trasfigurazione’ nel mito: gli evidenti richiami a testi quali l’Odissea (le numerose tempeste che colpiscono Ulisse), l’Eneide (la tempesta che colpisce i Troiani in Aen. I e le ultime ore trascorse da Enea in patria in Aen. II) e le stesse

Metamorfosi (la tempesta che colpisce Ceice in Met. XI) rendono palese la volontà da

7 Ormai archiviata la questione (tanto inopportuna quanto rivelatrice del carattere ‘irrealistico’ della

produzione ovidiana dell’esilio) intorno alla falsità tout court dell’esilio di Ovidio, notoriamente sollevata da FITTON BROWN 1985.

8 Sulla distinzione, cfr. già M

ARIOTTI 1957, p. 633: «Ovidio diventa un ‘personaggio’ della propria poesia come le dolenti eroine delle epistole amorose»; ma da vedere è soprattutto HOLZBERG 1997a, pp. 4 s. (unitamente a HOLZBERG 1997b, pp. 31 ss., 181 s.): «we must, I think, now acknowledge that Ovid actually takes on a different rôle in each of his works […]. In the Amores he is the poeta/amator, in the

Epistulae Heroidum he embodies each of the mythical female (and male) letter-writers, in the Ars Amatoria and the Remedia Amoris he is the experienced praeceptor amoris, in the Metamorphoses a mythologus, in the Fasti an antiquarius, and in the exile poems the relegatus. Yes, the banished poet is a persona too […]»; cfr. anche CLAASSEN 1999a, pp. 111 s.

9 Su questo aspetto della produzione ovidiana dell’esilio si sofferma in particolare C

LAASSEN 2008, pp. 160 ss. (che ripropone i precedenti CLAASSEN 1988 e CLAASSEN 2001); in appendice (pp. 265 ss.), la studiosa fornisce alcune utili e ragionate ‘myth tables’, dove vengono raccolti ed elencati tutti i riferimenti mitologici rintracciabili in Tristia ed ex Ponto (unitamente ai passi in cui Ovidio si riferisce ai medesimi miti nel resto della sua produzione); in precedenza, già RAHN 1958 (p. 115) parlava della «Modell-funktion» di cui sono dotati gli exempla mitici nella produzione ovidiana dell’esilio; cfr. inoltre DOBLHOFER 1980a (pp. 73 ss.) e lo studio complessivo di SCHUBERT 1992; GAERTNER 2007 (p. 159) annovera «the pathetic, mythological colour with which Ovid describes his experience in exile» entro la serie di temi e motivi tipici della Exilliteratur.

10 Sulle ragioni dell’ordine conferito dal poeta ai componimenti di Tr. I ci soffermiamo infra, pp. 25 ss.

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parte dell’esule di «interpretare quella letteratura che lui stesso aveva contribuito a creare, un po’ come un burattinaio che ‘fa’ anche uno dei suoi burattini, e però vuole essere riconosciuto nella sua duplice funzione».11 Del resto, se nelle elegie di Tr. I ora menzionate tocca in qualche modo al lettore – lettore di Omero, di Virgilio e delle

Metamorfosi, prima che dei Tristia – riconoscere i modelli attivi in quei contesti, il

confronto con il mito viene esplicitamente istituito ed elaborato dal poeta già in Tr. I 5, dove troviamo la prima, puntualissima synkrisis fra il caso dell’esule e quello dell’eroe ‘sventurato’ per eccellenza, Ulisse (vv. 57 ss.: pro duce Neritio, docti, mala nostra,

poetae, / scribite: Neritio nam mala plura tuli).12

Fin da questo primo confronto, tuttavia, risulta evidente la volontà, manifestata in questo caso dall’esule, di ‘problematizzare’ il rapporto con il mito e di ‘comprometterne’ – in qualche modo – l’effettiva funzione paradigmatica: se infatti, nelle elegie di Tr. I e in altre, la persona dell’esule ‘rivive’ le stesse esperienze già capitate ai personaggi del mito, va parimenti notato che il poeta ripetutamente rivendica lo scarto esistente fra il proprio destino e quello degli eroi dell’epica, uno scarto che si manifesta nell’affermazione della superiorità – in termini sia di qualità sia di quantità – dei propri mala rispetto a quelli patiti da quegli eroi (Neritio nam mala plura tuli);13 se si ripensa a quanto osservavamo prima, il cerchio si chiude – e l’esegesi si complica – tenendo conto del fatto che questa proclamata superiorità delle disgrazie subite dall’esule dipende propriamente dalla circostanza per cui tali disgrazie (come il poeta afferma) risultano reali, veramente patite e vissute da Ovidio, la cui vicenda biografica non appartiene certo al regno della fabula. A proposito della synkrisis di Tr. I 5, così si conclude il confronto tra i mala di Ovidio e quelli di Ulisse (vv. 79 s.):

adde quod illius pars maxima ficta laborum; ponitur in nostris fabula nulla malis.

11 L

ECHI 1993, p. 18.

12 Molto studiata, soprattutto in passato, l’auto-associazione dell’esule alla figura di Ulisse, la cosiddetta Odysseus-Rolle: cfr. soprattutto RAHN 1958 (pp. 115 ss.), DRUCKER 1977 (pp. 87 ss.), DOBLHOFER 1987 (pp. 273 ss.) e – da ultimo – MCGOWAN 2009 (pp. 177 ss.); per un’analisi complessiva di Tr. I 5, attenta alla distinzione tra ‘verità’ e ‘finzione’, si veda WILLIAMS 1994, pp. 104 ss.; cfr. anche DAVISSON 1993 (pp. 225 ss.) e le analisi proposte da TOLA 2004, pp. 261 ss.

13 Sull’origine del topos della sofferenza ‘pari (e superiore) a quella di Ulisse’, cfr. C

ITRONI MARCHETTI

(14)

In questo modo – come si anticipava – viene dunque problematizzato il rapporto tra finzione e realtà: le disgrazie occorse all’esule, che ricalcano da vicino quelle subite dagli eroi del mito, finiscono per risultare superiori a queste proprio in virtù della loro effettiva (proclamata) autenticità. La tendenza, ora individuata, ad istituire il confronto con una certa situazione mitica, salvo poi ‘compromettere’ questo stesso confronto, risulta bene anche dai primi versi della prima elegia sulla tempesta, Tr. I 2;14 nel bel mezzo della burrasca, l’esule esordisce invocando gli dèi del mare e del cielo: se infatti è vero che un dio (Augusto) sta scatenando la sua ira contro di lui, la tradizione epico-mitologica parimenti prevede che vi sia un altro dio a favorire l’eroe in difficoltà (vv. 1 ss.):

di maris et caeli (quid enim nisi vota supersunt?) solvere quassatae parcite membra ratis, neve, precor, magni subscribite Caesaris irae:

saepe premente deo fert deus alter opem. Mulciber in Troiam, pro Troia stabat Apollo;

aequa Venus Teucris, Pallas iniqua fuit. oderat Aenean propior Saturnia Turno;

ille tamen Veneris numine tutus erat. saepe ferox cautum petiit Neptunus Ulixem;

eripuit patruo saepe Minerva suo.

et nobis aliquod, quamvis distamus ab illis,

quis vetat irato numen adesse deo? verba miser frustra non proficientia perdo;

ipsa graves spargunt ora loquentis aquae.

Nonostante la ‘consuetudine’ epica, del cui soccorso l’esule vorrebbe approfittare ricordando – nell’ordine – i casi dell’Iliade (Vulcano e Minerva contro i Troiani, Apollo e Venere a favore), dell’Eneide (Giunone adirata, Venere benevola nei confronti di Enea) e dell’Odissea (Nettuno nemico, Minerva amica di Ulisse),15 il poeta – seppur

14

Sulle elegie della tempesta (Tr. I 2, 4 e 11), cfr. soprattutto KRÖNER 1970a e 1970b, GRIFFIN 1985, KLODT 1996, BATE 2004 (pp. 306 ss.), TOLA 2004 (pp. 159 ss.), INGLEHEART 2006a; sul significato ‘allegorico-metaforico’ del tema della tempesta nella produzione ovidiana dell’esilio, cfr. le utili osservazioni di CUCCHIARELLI 1997.

15 Per una minuziosa analisi dei vv. 5-10 si veda K

(15)

‘perseguitato’ dal nume di Augusto – non può contare sull’aiuto di alcuna divinità, come viene ribadito nella synkrisis di Tr. I 5 (vv. 75 s.: me deus oppressit, nullo mala

nostra levante; / bellatrix illi diva ferebat opem):16 le parole attraverso le quali l’esule intende legittimare la propria richiesta di aiuto vengono al contrario ‘soffocate’ dai (reali?) flutti marini, che pure assomigliano – lo si ricava dalla vera e propria descrizione della tempesta nei versi immediatamente seguenti alla sezione citata – a quelli di tante tempeste narrate e descritte in altri testi e in altre opere letterarie (soprattutto epiche). Soltanto in seguito ad un’apologia più circostanziata (indirizzata, prima che ai superi viridesque dei, all’autore della condanna), che occupa l’intera seconda parte di Tr. I 2 (vv. 59 ss.), nella quale l’esule cerca di convincere gli dèi a risparmiargli la vita (del resto, è stato Augusto stesso a concedergliela) e a permettergli di raggiungere la terra dell’esilio, la tempesta – che rivela infine tutto il suo carattere di

fiction – sembra finalmente cessare (vv. 107 s.: fallor, an incipiunt gravidae vanescere nubes, / victaque mutati frangitur unda maris?).

Nel caso dunque del confronto con gli eroi dell’epica – sia che si realizzi ‘implicitamente’ attraverso la citazione dei testi-modello, sia che venga impostato entro lo schema di un’esplicita synkrisis – la ‘trasfigurazione’ della vicenda biografica dell’esule tende ad attuarsi in negativo:17 la situazione che il poeta si trova a (ri-)vivere, pur ricalcando l’analoga vicenda di quegli eroi, allo stesso tempo si distingue da essa;18 i mala dell’esule vengono presentati come più gravi – non da ultimo, in quanto disgrazie effettivamente vissute, appartenenti al dominio della ‘realtà’ e non a quello della fabula, di cui invece sono parte le storie di Ulisse, Enea, Giasone. Così facendo, l’esule non intende semplicemente creare il mito – superiore ai precedenti – di se stesso, «the

16 I

NGLEHEART 2006a, p. 76: «Ovid acknowledges the gap between his own situation and the epic

exempla of lines 4-10 at lines 11-12: […]. The primary sense is that Ovid – an elegiac poet of Augustan

Rome – is no epic hero, but this couplet also invites us to look for further differences between Ovid and his models».

17 La synkrisis di Tr. I 5 viene ripresa ed estesamente riproposta altre due volte nelle ex Ponto: in ex P. I 4

(vv. 23 ss.), un’epistola indirizzata alla moglie, il confronto è con Giasone e si conclude con la constatazione della maggiore difficoltà dell’opus intrapreso dall’esule (vv. 45 s.: durius est igitur

nostrum, fidissima coniunx, / illo, quod subiit Aesone natus, opus); in ex P. IV 10, rivolgendosi ad

Albinovano Pedone, Ovidio nuovamente paragona il proprio caso a quello di Ulisse, l’exemplum … animi

nimium patientis (vv. 9 ss.), e ancora una volta dimostra l’inferiorità delle pene dell’eroe rispetto alle

proprie.

18 T

OLA 2004, p. 199: «dans cette alliance apparemment impossible d’un vécu et d’une fiction littéraire, le ‘je’ ose aller jusqu’à se comparer aux personnages de l’épopée, notamment Ulysse et Jason […]. Ovide se place au niveau de ces grandes figures mythiques en vue tout à la fois de s’assimiler à elles et de s’en distinguer».

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superhuman survivor of the supernatural onslaughts of both a vindictive god and malevolent nature»;19 il fine più immediato non potrà che risultare quello di accrescere il pathos delle proprie descrizioni (rifacendosi ai modelli, universalmente noti, rappresentati dagli ‘sventurati’ del mito, il cui esempio viene ora addirittura sopravanzato) e di ‘sensibilizzare’ il pubblico romano – non da ultimo, naturalmente, Augusto – alla propria causa.20

2. Un paradigma ‘positivo’: Atteone

Non sempre, tuttavia, le associazioni proposte dall’esule fra il proprio e l’altrui destino si risolvono in una differenziazione, come abbiamo visto accadere nel caso del confronto con gli eroi dell’epica; vi sono al contrario numerosi passi in cui le figure del mito vengono chiamate in causa dall’esule proprio al fine di rendere più perspicua la propria situazione o di trasmettere con più chiarezza un determinato messaggio rivolto ai destinatari (direi anzi che si tratta della circostanza più frequente): è il caso, ad esempio, delle più volte menzionate coppie di amici consacrate dal mito (Oreste e Pilade, Teseo e Piritoo, Achille e Patroclo, Eurialo e Niso), che l’esule nomina ai propri amici rimasti a Roma invitandoli ad uniformarsi quanto più possibile al paradigma da essi rappresentato;21 allo stesso modo, le figure delle eroine ‘fedeli’ per eccellenza (Penelope, Andromaca, Laodamia, Evadne, Alcesti ed altre) devono fungere da ‘incentivo’ nei confronti della coniunx, anch’essa chiamata a seguire l’esempio di quelle eroine e a conservare la fedeltà verso il marito esiliato.

Per rimanere però alle figure mitiche cui l’esule ‘positivamente’ associa se stesso e la propria vicenda biografica, nella prima produzione dell’esilio compare un altro paradigma, che non verrà più menzionato da parte del poeta, ma che si impone in virtù della posizione assolutamente rilevata in cui si trova. Nel corso della lunga elegia di

19 C

LAASSEN 2008, p. 181 (= CLAASSEN 2001, p. 40).

20 B

ATE 2004, p. 309: «Ovid exploits both the epic and the elegiac associations of storms in order to render the presentation of his own exilic fate more sublime, pathetic, and ultimately, more persuasive».

21

Sull’impiego delle «klassische Freundschaftspaare» nella poesia dell’esilio, cfr. quanto rilevato da GREBE 1999, p. 746: ad esse sarebbe attribuibile una doppia funzione, nella misura in cui «einerseits setzt Ovid seine eigene Person und seine Freunde mit den griechischen Helden gleich, um die Gefährten durch die Parallelisierung zu rühmen und zur Treue ihm gegenüber anzuspornen. […] Anderseits dient der Mythos als Beweis dafür, daß die auch in der Not geübte pietas nicht nur ungestraft bleibt, sondern sogar die lobende Anerkennung durch den Feind findet».

(17)

autodifesa, rivolta ad Augusto, che costituisce l’intero libro secondo dei Tristia, l’esule ritorna con la mente al fatale momento in cui – a causa di un’inconsapevole disattenzione – i suoi occhi si sono resi «colpevoli» di aver visto «qualcosa» (Tr. II 103 ss.):

cur aliquid vidi? cur noxia lumina feci? cur imprudenti cognita culpa mihi?

inscius Actaeon vidit sine veste Dianam:

praeda fuit canibus non minus ille suis. scilicet in superis etiam fortuna luenda est,

nec veniam laeso numine casus habet. illa nostra die, qua me malus abstulit error,

parva quidem periit, sed sine labe domus.

In questi versi, notissimi, Ovidio paragona il momento in cui inavvertitamente ha assistito ad una non meglio precisata culpa (si deduce, commessa da altri) e si è pertanto ‘guadagnato’ la condanna all’esilio all’analoga circostanza in cui, ancora una volta senza intenzione, il cacciatore Atteone ha visto Diana mentre faceva il bagno e si è pertanto attirato la collera della dea, che – per punirlo – lo ha trasformato in cervo e ne ha fatto la preda dei suoi stessi cani. Com’è prevedibile, le criptiche allusioni contenute in questo passo – così come negli altri versi di Tr. II, parimenti celebri, in cui Ovidio distingue i duo crimina causa della relegazione, il carmen e l’error (vv. 207 ss.) – hanno stimolato la fantasia dei lettori, che dall’età medievale ai giorni nostri hanno prodotto una nutrita schiera di ipotesi intorno alla reale natura della culpa di Ovidio, cercando soprattutto di capire quale personaggio storico si possa nascondere dietro la figura della dea Diana, autrice della punizione inflitta ad Atteone-Ovidio.22 Pur

22 Per una raccolta di tutte le ipotesi avanzate dall’antichità all’anno di pubblicazione del saggio si veda il

classico THIBAULT 1964 (cfr. in particolare, per le ipotesi antiche e medievali, pp. 24 ss.; per le ipotesi moderne, l’appendix I alle pp. 125 ss.); fra i contributi più recenti, dopo GREEN 1982 (p. 203: «on our available evidence, only a political solution to the problem is acceptable», che lo studioso individua nella simpatia nutrita da Ovidio nei confronti della «Julian faction», autrice di una sorta di cospirazione allo scopo di guadagnarsi la successione ad Augusto), si distinguono WILLIAMS 1994, pp. 174 ss. (che, dopo aver notato le «erotic nuances» ravvisabili nel passo di Tr. II, non si sbilancia a favore di alcuna ipotesi); LUISI –BERRINO 2002 (che, riprendendo le conclusioni già raggiunte da LUISI 2001, individuano la natura dell’error nell’appartenenza di Ovidio alla cosiddetta corrente ‘filoantoniana’, raccolta intorno a Germanico e alle due Giulie, la quale «proponeva, in alternativa ad Augusto, la figura di un imperatore di tipo orientalizzante e divinizzato» [p. 5]); HINDS 2007 (che, senza effettivamente schierarsi a favore delle

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nell’incertezza di fondo, destinata a rimanere tale in quanto volontariamente perseguita dall’esule, sembra effettivamente che una certa responsabilità debba essere assegnata agli «occhi» del poeta; in altre parole, pare che il misterioso error che l’esule così spesso nomina senza tuttavia mai precisarne la natura vada ricollegato ad una circostanza nella quale il poeta si trovò a ‘vedere’ (in quanto testimone oculare?) qualcosa che non avrebbe dovuto conoscere (cur imprudenti cognita culpa mihi?); nel brano citato e altrove, per l’appunto, il lessico della ‘vista’ sembra distinguersi in misura quantomeno significativa (vidi … lumina … vidit).23

Ciò che dell’associazione alla figura di Atteone a noi interessa, in ogni caso, risulta il rapporto che proprio attraverso la citazione – in Tr. II – del caso occorso al mitico cacciatore si instaura fra i Tristia e le Metamorfosi, il testo in cui Ovidio aveva narrato, per esteso, la vicenda del nipote di Cadmo (Met. III 138 ss.). Nel passo di Tr. II, infatti, l’esule si rifà palesemente alla versione del mito già impiegata nel poema maggiore, una versione niente affatto ‘scontata’, bensì minoritaria: a fare di Atteone l’involontario testimone della nudità di Diana era stato, prima di Ovidio, soltanto Callimaco, che nel quinto inno (I lavacri di Pallade) aveva presentato la colpa del cacciatore come frutto del caso (vv. 113 s.: ὁππότα κ’οὐκ ἐθέλων περ ἴδῃ χαρίεντα λοετρὰ / δαίµονος).24

«conspiracy theories», nota come si debba attribuire ad Ovidio stesso la volontà di rendere «us, the readers of the Tristia and Epistulae ex Ponto, as obsessives too […]. […] Ovid has made conspiracy theorists of us all» [p. 218]; un’osservazione simile già in BARCHIESI 1993, pp. 178 s.); assolutamente gratuita ed insostenibile la pur recente tesi di WHITE 2005, secondo cui l’error di Ovidio consisterebbe nell’aver involontariamente violato un rito misterico; per un ulteriore bilancio delle varie proposte, cfr. ancora il comm. di INGLEHEART al nostro passo di Tr. II.

23 Cfr. ancora soprattutto Tr. III 5.49 s. (inscia quod crimen viderunt lumina, plector, / peccatumque oculos est habuisse meum) e 6.27 s. (nec breve nec tutum, quo sint mea, dicere, casu / lumina funesti conscia facta mali); sull’importanza del lessico della vista in Tr. II si sofferma in particolare INGLEHEART

2006b: dopo aver riconosciuto che l’unico aspetto non discutibile dell’error commesso da Ovidio risulta proprio la sua natura ‘visiva’, la studiosa analizza l’impiego – sempre in Tr. II – del medesimo campo semantico in relazione alla figura di Augusto; cfr. in particolare i vv. 213 ss. (dove si dice che l’imperatore, impegnato nell’osservazione del mondo assoggettato, non ha avuto il tempo di guardare e quindi valutare correttamente l’Ars amatoria) e i vv. 497 ss. (dove si parla dei mimi, spettacoli osceni, che pure Augusto guarda e permette al popolo di guardare); in Tr. II, pertanto, il lessico della vista «is used to set up a damning contrast between the poet and the princeps: Ovid has inadvertently seen something that led to his distruction, whereas Augustus has both failed to see everything that he should have done, despite his claims to oversee the whole world, and also corrupted others with inappropriate sights» (p. 83).

24 Cfr. il comm. di B

ULLOCH ad CALL. Hymn. 5.107-18: «this passage is the first indication that Actaeon’s punishment was for intruding on Artemis (earlier accounts recorded that he had lusted for Semele, or Artemis herself, or that he boasted of being a better hunter than Artemis) and some editors have suggested that the Actaeon myth was adapted by C. to parallel the Tiresias story [scil. l’altro mito narrato nell’inno (vv. 57 ss.), la storia di Tiresia involontario testimone dei bagni di Atena]»; per un’utile rassegna delle fonti greche del mito si veda LACY 1990; sulla dipendenza della versione impiegata in Tr. II da quella già sfruttata in Met. III, cfr. ancora WILLIAMS 1994, p. 175; sul confronto fra la versione

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Anche in Met. III l’involontarietà del gesto di Atteone, che ne implicherebbe dunque l’innocenza, viene introdotta con una certa enfasi in apertura di episodio (vv. 141 s.):

at bene si quaeras, fortunae crimen in illo,

non scelus invenies: quod enim scelus error habebat?25

Ancora, nel corso della narrazione, il ruolo decisivo giocato dai fata risulta ben rilevato nel momento in cui si descrive l’ingresso dell’eroe nel bosco sacro (vv. 175 s.: per

nemus ignotum non certis passibus errans / pervenit in lucum: sic illum fata ferebant);

infine, l’episodio metamorfico si conclude con una sorta di ‘sospensione del giudizio’, da parte del narratore, circa la legittimità della crudele punizione inflitta dalla dea (vv. 253 ss.: rumor in ambiguo est: aliis violentior aequo / visa dea est, alii laudant

dignamque severa / virginitate vocant; pars invenit utraque causas). Per venire quindi

al passo di Tr. II, è piuttosto notevole il fatto che in soli dieci versi si concentrino ben cinque termini qualificanti, ancora una volta, il carattere involontario – non premeditato – dell’atto compiuto tanto da Atteone quanto da Ovidio (imprudenti; inscius; fortuna;

casus; error).

L’insistenza attraverso cui, in Met. III, il narratore tiene a precisare il carattere fortuito del gesto di Atteone – elemento che, come si è detto, distingue e rende peculiare la versione mitica seguita da Ovidio – ha indotto alcuni studiosi a sospettare una sorta di ‘rimaneggiamento’ del testo delle Metamorfosi da parte del poeta ormai esule: soprattutto, i vv. 141 s. sopra citati sono talvolta parsi troppo ‘espliciti’ (oltre che troppo ‘indebitati’ nei confronti del passo di Tr. II) per non essere considerati frutto di un’aggiunta da parte di chi, in un brano tanto decisivo, paragona il proprio caso a quello dell’eroe punito da Diana, rimandando dunque idealmente i lettori alla trattazione che di quella storia mitica egli stesso ha fornito nel precedente poema.26 Nonostante i pareri

ovidiana e le altre fonti del mito si soffermano anche SCHMITZER 2001 (pp. 304 ss.) e BERRINO 2007 (pp. 17 ss.).

25 Per il testo delle Metamorfosi, l’edizione critica di riferimento nel corso del presente lavoro sarà quella

di Anderson; eventuali divergenze saranno segnalate in nota.

26 Cfr. in particolare B

ÖMER ad Met. III 141 s.: «diese Apologie […] erinnert deutlich an Ovids Verteidigung seines eigenen error, der ihm seine Relegation eingebracht hat. […] Doch werden von der Met.-Stelle aus chronologische Schlüsse (Abfassung von met. III 141f. erst nach der Relegation) nicht möglich sein» (segue la citazione della bibliografia precedente); fra coloro che rifiutano l’idea dell’aggiunta posteriore, si distinguono GALINSKY 1975(p. 77 n. 86: «the polemic against this version [scil. quella fornita da APOLLOD. III 4.4] also is the point of lines 141-2, which some scholars have

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per lo più negativi riscontrabili nei contributi più recenti, a mio avviso la decisione al proposito non può considerarsi definitivamente archiviata, dal momento che – soprattutto – non è ancora stata sufficientemente chiarita la questione della ‘zweite

Auflage’ che delle Metamorfosi (così come dei Fasti, su cui tuttavia esiste ormai un

buon numero di studi specifici, propriamente dedicati al problema della seconda redazione di quell’opera) Ovidio avrebbe prodotto dopo la condanna all’esilio.27 Nel momento in cui fossero rintracciati – con una sicurezza maggiore dell’attuale – i segnali di una revisione del poema, i due versi che in Met. III introducono l’episodio di Atteone ed enfaticamente ne rimarcano l’inconsapevolezza del gesto non sfuggirebbero – forse – al sospetto dell’aggiunta.28

Lasciando però da parte una questione tanto delicata quanto incerta, vorrei giungere al punto che più ci interessa segnalare. Se infatti abbiamo notato la rilevanza che nell’episodio di Atteone narrato in Met. III viene conferita all’elemento del caso, quella del cacciatore resosi involontariamente colpevole non è, nelle Metamorfosi, l’unica storia nella quale il tema dell’illusione, dell’inganno e dell’errore risulta giocare un ruolo fondamentale: i plessi tematici ora menzionati rappresentano infatti una parte «cospicua e direi emblematica del sistema dei significati del poema. Vittime di questa confusione tra la realtà e l’apparenza, molti dei personaggi che abitano il poema delle forme mutevoli sembrano agire come inseguendo parvenze illusorie, fantasmi

erroneously interpreted as a protest of Ovid from exile») e WILLIAMS 1994 (p. 175 n. 51: «the structure of Ovid’s Actaeon narrative has a consistent emphasis which the presence of 141-2 is necessary to explain»); a chi – come Galinsky e Williams – sostiene la ‘necessità’ dei due versi introduttivi, che servirebbero ad individuare la versione mitica seguita da Ovidio (quella che per l’appunto prevede la relativa ‘innocenza’ di Atteone), si potrebbe tuttavia obiettare che l’involontarietà del gesto compiuto dal protagonista risulta di per sé sufficientemente rilevata nel corso dell’episodio (cfr. i vv. 175 s. citati

supra); l’intervento del narratore ai vv. 141 s. costituisce del resto una tipologia di ‘intromissione’

piuttosto singolare (così BARCHIESI 2007 ad loc.: «il destino di Atteone […] provoca nel narratore una forte reazione morale, abbastanza insolita nelle Metamorfosi»); per un’ulteriore valutazione delle posizioni critiche rimando al comm. di INGLEHEART ad Tr. II 105.

27 Sulla zweite Auflage delle Met. si veda l’abbondante materiale raccolto da E

MONDS 1941, pp. 188 ss. (viene esaminata soprattutto la doppia ‘versione’ degli episodi di Dafne in Met. I, di Filemone e Bauci e di Perimele in Met. VIII); sull’«‘exilic’ status of both the Metamorphoses and the Fasti», cfr. CLAASSEN

2008, p. 161 (= CLAASSEN 2001, p. 14), che rimanda soprattutto a HINDS 1999a; sulla revisione dei Fasti durante gli anni dell’esilio, cfr. soprattutto (oltre a Der neue Pauly, s.v. ‘Auflage, Zweite’) FANTHAM

1995 e GREEN 2004.

28 A favorire il sospetto, del resto, contribuirebbe anche la cronologia di Tr. II, opera risalente ai primi

mesi dell’esilio (cfr. INGLEHEART 2010, p. 5: «Tristia 2 seems to have been written soon after Ovid’s arrival in Tomi: […] allusions to the need for the ‘Pannonian revolt’ of AD 6-9 to be quelled […] suggest

AD 9 as the date of composition») e dunque verosimilmente precedente (o comunque contemporanea) all’eventuale revisione delle Metamorfosi.

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ingannevoli»;29 in molti episodi, per l’appunto, il narratore – vero protagonista del poema30 – si sofferma sull’illusione di cui sono preda i vari personaggi, spesso vittime (proprio come Atteone) di un involontario e tuttavia fatale error, derivato talvolta dall’ignoranza di una determinata circostanza (è il caso di Piramo e Tisbe: il tragico epilogo della loro storia dipende dall’errata supposizione di Piramo alla vista del velo insanguinato dell’amata),31 talaltra dal compimento di un gesto che genera disgrazia (come nel caso di Deianira, che – senza conoscere la vera natura del dono – invia ad Ercole, parimenti ignaro, la veste imbevuta del sangue di Nesso),32 spesso dalla scorretta interpretazione di un messaggio (è ciò che capita a Procri, che male intende il senso delle parole pronunciate da Cefalo).33 La serie infinita di errori e di sviste, che spesso e volentieri costituiscono il nucleo delle vicende narrate, è parte del ‘gioco’ attraverso cui il testo delle Metamorfosi sfrutta la «consapevolezza di narratore e lettore di fronte all’ignoranza del personaggio, al quale fa come balenare ogni tanto la verità […] senza tuttavia farlo uscire dalla sua ottica erronea, dalla sua prospettiva ingannevole».34

A questo proposito, mi pare piuttosto significativo il fatto che Ovidio, dalla prima all’ultima raccolta dell’esilio, presenti per lo meno una (quella autentica?) causa della propria disgrazia in termini di error;35 in questo senso, il destino toccato in sorte al poeta ricorda da vicino i ‘casi’ occorsi a molti personaggi delle Metamorfosi – e la valorizzazione dell’elemento ‘fortuito’ caratterizzante la propria culpa costituisce

29 R

OSATI 1983, p. 121; sui temi qui presi in considerazione, da vedere l’intera sezione intitolata ‘Intrigo delle illusioni’ (pp. 95 ss.), dove lo studioso analizza i numerosi episodi del poema «accomunati da motivi affini, quali quello dell’illusione, dell’inganno, del travestimento» (p. 97); cfr. comunque quanto abbiamo già anticipato nell’Introduzione.

30 S

OLODOW 1988, p. 2: «he [scil. Ovid] calls attention to himself so that we are ever aware of his mediating presence. In the end it is he himself more than anything who holds together the world of the poem».

31 Cfr. la domanda rivolta da Tisbe all’amato ormai morente (IV 142): quis te mihi casus ademit?

32 Cfr. IX 155 ss.: ignaroque Lichae, quid tradat, nescia luctus / ipsa suos tradit blandisque miserrima verbis, / dona det illa viro, mandat; capit inscius heros / induiturque umeris Lernaeae virus echidnae. 33 Cfr. VII 826 ss. (su cui si sofferma nello specifico R

OSATI 1983, pp. 97 ss.): credula res amor est:

subito conlapsa dolore, / […] deque fide questa est et crimine concita vano, / quod nihil est, metuit, metuit sine corpore nomen / et dolet infelix veluti de paelice vera.

34 R

OSATI 1983, p. 107.

35 Cfr. e.g. Tr. I 2.99 (si me meus abstulit error) ed ex P. IV 8.20 (errorem misero detrahe); per una

raccolta di tutti i passi in cui l’esule si riferisce all’error si veda il comm. di INGLEHEART ad Tr. II 103-10; ROSIELLO 2002 studia tutte le sfumature di significato che il termine error assume nell’intero corpus ovidiano (sulla poesia dell’esilio, cfr. in particolare le pp. 452 ss.); cfr. inoltre FOCARDI 1975 (pp. 108 s.), che esamina la connotazione giuridica del vocabolo.

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naturalmente uno dei principali argomenti addotti dall’esule a sostegno della propria innocenza, non soltanto in Tr. II. Anche Ovidio, come i protagonisti del suo poema, ha dovuto sperimentare l’inesorabilità dei fata, che lo hanno ‘trascinato’ alla rovina (Tr. II 339 ss.; III 6.13 ss.):

ad leve rursus opus, iuvenalia carmina, veni, et falso movi pectus amore meum.

non equidem vellem, sed me mea fata trahebant, inque meas poenas ingeniosus eram.

id quoque si scisses, salvo fruerere sodali, consilioque forem sospes, amice, tuo. sed mea me in poenam nimirum Parca trahebat

omne bonae claudens utilitatis iter.36

Da questo punto di vista è pertanto ravvisabile un primo, importante elemento di continuità ‘tematica’ tra il poema delle forme mutevoli e le opere dell’esilio; a proposito di questa continuità vale la pena di notare che, nella generale tendenza – sopra illustrata – a ‘trasfigurare’ nel mito la propria esperienza biografica, l’esule sceglie di conferire un’importanza non certo trascurabile – direi anzi fondamentale – al paradigma ‘positivo’ rappresentato da quello che potremmo definire il tipico ‘personaggio metamorfico’ (il tipico personaggio, cioè, di cui nelle Metamorfosi si narrano errori ed illusioni), laddove l’esplicita menzione di Atteone in Tr. II (figura che costituisce per l’appunto un esempio, una ‘ipostasi’ di questo tipico personaggio metamorfico) andrà ricollegata al ruolo decisivo che, nella pur criptica rievocazione dell’error motivo della condanna, Ovidio sembra attribuire al senso della ‘vista’.37 Il nostro tentativo di

36 Sui problemi testuali di quest’ultimo distico (fata trahebant codd. plerique : Parca trahebat Palmer, Postgate), cfr. la n. di LUCK ad loc. e l’apparato di Hall (che tuttavia stampa sed mala me … fama

trahebat); per l’espressione utilizzata da Ovidio nei due passi riportati, cfr. in particolare Met. III 176

(Atteone: verso già citato supra) e VII 816 (Cefalo: sic me mea fata trahebant); sull’associazione fra il destino dell’esule e quello di tanti personaggi mitici, cfr. il comm. di INGLEHEART ad Tr. II 341-2, che – dopo aver citato il lavoro di KAJANTO 1961 – conclude: «Ovid’s self-presentation is thus heroic and pathetic».

37

Il paradigma rappresentato dal tipico ‘personaggio metamorfico’ non è del resto incompatibile con quello incarnato dal tipico ‘personaggio tragico’, vittima di una ἁµαρτία (ARIST. Poet. 1453a8 ss.; cfr. FAIRWEATHER 1987, p. 185), cui la critica non ha mancato di associare il caso dell’esule: cfr. CICCARELLI

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rintracciare una continuità tra le Metamorfosi e le opere dell’esilio comincia dunque dalla valorizzazione del paradigma mitico ora individuato, la cui rilevanza – per quanto spesso implicita – nell’ambito della generale strategia ‘difensiva’ dell’esule non diminuisce nel corso delle raccolte composte a Tomi e non dev’essere pertanto assolutamente trascurata.38

nella poesia ovidiana dell’esilio sono da vedere soprattutto l’utile messa a punto di GALASSO 1987 e la ricca rassegna proposta da CITRONI MARCHETTI 1999(ripreso in CITRONI MARCHETTI 2000a, pp. 217 ss.), che studia gli elementi di contatto tra l’esule e le figure di Prometeo, Polinice, Ippolito; sulla presenza della ‘tragedia’ (in quanto genere letterario) nelle Metamorfosi, cfr. da ultimo lo studio di CURLEY 2013, che si conclude proprio con la citazione del passo di Tr. II 105 s. (p. 234): «the mention of Actaeon associates the poet’s own error with tragedy. In particular, it recalls Met. 3, where Actaeon’s story is recounted in full as tragic epic».

38 Sull’importanza della figura di Atteone nelle opere ovidiane dell’esilio, cfr. anche D

I GIOVINE 2007, p. 31: «ma per le circostanze dell’error e delle conseguenze che ne derivarono è la figura di Atteone quella che meglio si presta a livello paradigmatico: Atteone infatti nella sua drammatica vicenda raffigura il discrimine, nell’ambito di una culpa (o crimen) oggettiva, tra l’involontario error e il consapevole scelus (o facinus)».

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II

L

A METAMORFOSI DI

O

VIDIO

1. Fabula e intreccio

Qual è il primo episodio del ‘romanzo’ di cui è protagonista Ovidio esule? La risposta non pare così immediata: abbiamo infatti bisogno, per rispondere, di scomodare la narratologia e di chiamare in causa i noti concetti di ‘fabula’ e di ‘intreccio’. Potrà forse stupire il brusco riferimento ai criteri di analisi di un testo narrativo (così come l’utilizzo del termine ‘romanzo’, evidentemente inappropriato, in riferimento alla produzione ovidiana dell’esilio), dal momento che ‘testo narrativo’ non costituisce propriamente la categoria cui d’istinto ricondurremmo un’opera come i Tristia; ma proprio da qui conviene cominciare, se si intende fornire una precisa descrizione della disposizione delle elegie iniziali di Tr. I.

L’elegia proemiale (Tr. I 1) possiede, nell’organizzazione del liber, uno statuto particolare, fungendo da prologo all’intera raccolta: in questo componimento Ovidio si pone il delicato problema del contatto col pubblico di Roma (e in particolare con Augusto), curioso di conoscere quale sviluppo abbia seguito la poesia ovidiana dopo la condanna subita dall’autore; «Ovidio sa di avere a Roma un pubblico affezionato: ma dopo la condanna, i suoi lettori avranno il coraggio di manifestargli simpatia e solidarietà? […] Il poeta più celebre e amato si ripresentava al suo pubblico dopo l’impressionante sconvolgimento delle sue fortune, dopo una condanna che era stata intesa anche ad imporgli il silenzio».1 In Tr. I 1 Ovidio si rivolge al liber ormai completo (parve – nec invideo – sine me, liber, ibis in urbem, v. 1), apostrofandolo come se si trattasse di un puer;2 nell’ultimo distico troviamo inoltre il vero e proprio commiato del poeta nei confronti del libro, che viene spronato a partire (vv. 127 s.):

1 C

ITRONI 1986, p. 124; sulla nuova tipologia di rapporto con il pubblico ravvisabile nell’opera di Ovidio, da vedere il successivo CITRONI 1995, pp. 431 ss.

2 Il modello è costituito da H

OR. Epist. I 20, dove l’autore si rivolge – questa volta però al termine della raccolta – al liber come ad uno schiavetto smanioso di libertà (per il confronto fra i due componimenti si veda ancora l’illuminante analisi di CITRONI 1986, pp. 121 ss.); mentre tuttavia nel caso di Orazio risulta

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longa via est, propera: nobis habitabitur orbis ultimus, a terra terra remota mea.

Il futuro habitabitur si spiega tenendo conto del fatto che, nella finzione poetica di Tr. I, Ovidio afferma di aver composto la raccolta nel corso del viaggio da Roma al Ponto, come si ricava in particolare dai primi versi dell’ultima elegia (Tr. I 11.1 s.):

littera quaecumque est toto tibi lecta libello est mihi sollicito tempore facta viae.

È riscontrabile pertanto un coerente disegno dal primo all’ultimo componimento del

liber, che viene dotato di una ‘cornice narrativa’ (il viaggio) entro la quale si svolgono

gli eventi di cui si parla nelle altre elegie della raccolta.3

Dopo il ‘prologo’ costituito dalla prima elegia, il lettore si trova di fronte alla descrizione della terribile tempesta che l’esule è costretto ad affrontare nel corso del suo viaggio per mare (Tr. I 2). La narrazione delle vicende dell’esule comincia – per venire all’utilizzo del lessico narratologico – in medias res: i primi versi di Tr. I 2 danno voce allo sventurato protagonista preda dei venti e dei flutti, che indirizza un accorato appello alle divinità del mare e del cielo (vv. 1 s.):

Di maris et caeli (quid enim nisi vota supersunt?), solvere quassatae parcite membra ratis.

Segue l’elegia dell’addio a Roma (Tr. I 3), la celebre rievocazione delle ultime ore trascorse dal poeta nella capitale e della sua definitiva partenza – che molto assomiglia ad un trapasso – per l’esilio (vv. 1 ss.):

evidente la caratterizzazione del liber come giovane schiavo, nel caso di Ovidio ci si potrebbe chiedere se l’autore immagini il proprio libro come uno schiavo o piuttosto come un figlio: ai vv. 2 e 97 Ovidio si definisce dominus del liber, ma ai vv. 107 ss. l’autore sembra caratterizzare i propri libri (tanto Tr. I quanto le altre opere, suoi fratres, che il nuovo libretto raggiungerà sullo scaffale una volta giunto presso la dimora del poeta a Roma) come figli: cfr. in particolare i vv. 114 (dove, in riferimento ai libri dell’Ars, si parla di Oedipodas e Telegonos) e 115 (dove il poeta si dichiara espressamente parens del libro).

3 Sulla struttura di Tr. I, sempre utile il quadro generale proposto da E

VANS 1983, pp. 45 ss.; nessun apporto significativo si ricava da ZIMMERMANN 2005; cfr. anche DICKINSON 1973 (p. 161), FROESCH

1976 (pp. 23 ss.), KLODT 1996 (pp. 273 ss.) e il comm. di POSCH (pp. 17 ss.); per il tema del viaggio in

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