• Non ci sono risultati.

L A METAMORFOSI DI O VIDIO

3. I segni di una metamorfos

Si diceva sopra di come i primi quattro versi di Tr. I 3 segnalino fin da subito la natura ‘evocativa’ del componimento, il fatto cioè che il suo contenuto coincida con un ricordo: lo dimostra l’utilizzo, da parte del poeta, dei verbi subit e repeto, oltre che naturalmente del sostantivo imago, che introduce il resoconto di quella che assomiglia ad una visione, quasi ad un sogno.19 Alla creazione di questa cornice ‘evocativa’

18

La discussione intorno al tema dei generi letterari in Ovidio ha prodotto e produce una sterminata quantità di contributi, di cui naturalmente non si potrà rendere conto in questa sede; il lavoro ‘capostipite’ della serie, molto apprezzato e discusso, incentrato sul ‘carattere’ dell’epica e dell’elegia ovidiane (l’Episches e l’Elegisches), è HEINZE 1919; fra le varie rivalutazioni – anche molto critiche: cfr. soprattutto LITTLE 1970 – delle conclusioni heinziane, si distingue il benemerito lavoro di HINDS 1987a, che riesamina la questione ‘generica’ secondo una prospettiva meno rigida e senz’altro convincente; per la bibliografia più recente, si vedano i contributi – essi stessi molto utili – di HARRISON 2002 e FARRELL

2009.

19 H

ARDIE 2002b, pp. 286 s.; cfr. anche il comm. di POSCH ad loc. (pp. 127 s.): «die Verse 1-4 erweisen sich als der erste Teil eines Rahmens, in dem Ovid mitteilt, daß das Gedicht nicht unmittelbar nach dem

contribuisce – come già si notava – il nesso nunc quoque (v. 4), che funge da segnalatore dello scarto temporale fra l’evento rievocato e il presente ‘narrativo’: anche ora, come allora, il poeta non riesce a smettere di piangere, e le lacrime scivolano inesorabili dai suoi occhi (labitur ex oculis nunc quoque gutta meis).

Com’è noto, il nesso nunc quoque risulta ampiamente utilizzato da Ovidio nelle

Metamorfosi: si tratta di un’espressione ricorrente (assieme ad altre semanticamente

analoghe) nel momento in cui il poeta, di solito al termine del racconto di una metamorfosi, vuole segnalare al lettore la persistenza di alcuni caratteri dell’antica nella nuova e tuttora esistente forma che ha assunto il personaggio trasformato;20 si parla anzi di ‘motivo del nunc quoque’,21 un tratto stilistico che testimonia della predilezione del poeta delle Metamorfosi nei confronti dell’elemento eziologico di matrice ellenistica.22 La riproposizione del nesso all’inizio di Tr. I 3 può cominciare a suggerire la presenza, nell’elegia dell’addio a Roma, di qualche richiamo al ‘vocabolario’ della metamorfosi, così come costruito e fissato da Ovidio nel suo precedente poema; l’immagine del poeta esule che, a partire dall’evento che ha radicalmente mutato la propria esistenza, non cessa di piangere, può effettivamente ricordare l’esito di certe metamorfosi narrate nel poema, prima fra tutte quella di Niobe (VI 301 ss.):

orba resedit exanimes inter natos natasque virumque deriguitque malis: nullos movet aura capillos, in vultu color est sine sanguine, lumina maestis stant immota genis; nihil est in imagine vivum. ipsa quoque interius cum duro lingua palato congelat, et venae desistunt posse moveri;

Ereignis als ein ‘Erlebnisgedicht’ geschaffen wurde, sondern zu einer Zeit, in der alles längst vorbei war (cum – cum, nunc quoque), an einem Ort, der sehr weit vom Schauplatz der Handlung entfernt ist (in

urbe, reliqui), nicht auf einmal, sondern gleichsam als Ergebnis dauernden Gedenkens und unablässiger

Rückerinnerung (subit, repeto)».

20 Cfr. E

SPOSITO 2003 (pp. 12 ss.), che segnala il ricorrere dell’espressione fin dalla prima metamorfosi del poema, quella di Licaone (I 235); per altri paralleli si veda il comm. di BÖMER ad II 706, dove viene citato anche il nostro verso dei Tristia.

21 R

OSATI 1994, p. 23; cfr. già DÖSCHER 1971, pp. 264 s.: «dieser ‘Griff’ ist natürlich beliebt am Ende der Geschichten, um den Leser von dem bisherigen Stoff zu lösen»; il motivo è registrato anche da ANDERSON 1963 nel contesto di quello che lo studioso definisce ‘vocabulary of continuity’ (pp. 4 s.); ulteriore bibliografia in PIANEZZOLA 1999, p. 34 n. 3.

22 M

nec flecti cervix nec bracchia reddere motus nec pes ire potest; intra quoque viscera saxum est.

flet tamen et validi circumdata turbine venti

in patriam rapta est; ibi fixa cacumine montis liquitur, et lacrimas etiam nunc marmora manant.

Assai significativo risulta il ricorrere, anche in questo passo, del motivo cui si accennava (l’etiam nunc del v. 312 corrisponde evidentemente al più frequente nunc

quoque). C’è tuttavia un altro aspetto che rende interessante l’accostamento fra il caso

dell’esule e la metamorfosi di Niobe: mi riferisco alla ‘pietrificazione’ di cui in Tr. I 3 il poeta sembra cadere vittima. La prima sezione ‘narrativa’ dell’elegia si apre, per l’appunto, con la descrizione dello stato di vera e propria paralisi in cui versa il poeta la sera precedente la partenza;23 l’esule non riesce a portare a termine i preparativi per il viaggio, dal momento che il suo cuore (pectora nostra) è gravato da una sorta di torpore, che lo immobilizza e ne impedisce l’azione (vv. 7-12):

nec spatium nec mens fuerat satis apta parandi: torpuerant longa pectora nostra mora. non mihi servorum, comites non cura legendi,

non aptae profugo vestis opisve fuit. non aliter stupui, quam qui Iovis ignibus ictus

vivit et est vitae nescius ipse suae.

Vorrei innanzitutto segnalare il ricorrere, in questi versi, di un procedimento retorico molto diffuso in Ovidio e in altri autori, che mi pare debba essere senz’altro rilevato: mi riferisco alla cosiddetta ‘negazione per antitesi’,24 attraverso la quale il poeta descrive la situazione in negativo, negando cioè quegli elementi della descrizione che dovrebbero esserci, ma non ci sono (nec spatium nec mens … / non mihi servorum, comites non

cura legendi, / non aptae profugo vestis opisve fuit). Mi pare interessante il fatto che,

23 D

OBLHOFER 1980b (p. 86) parla di «Betäubung» e di «Lähmung».

24 Il procedimento della ‘negazione per antitesi’ è stato innanzitutto rintracciato – e conseguentemente

studiato – nell’opera di Lucano; la formulazione originaria risale a NOWAK 1955 (cfr. in particolare le pp. 133 ss.), cui sono seguiti altri contributi che ne hanno precisato le caratteristiche: cfr. soprattutto ESPOSITO 2004, che analizza anche alcuni esempi dell’uso da parte di autori precedenti, fra cui Ovidio (pp. 59 ss.); per ulteriore bibliografia, cfr. KENNEY 2002, p. 71 n. 259.

ancora una volta, il procedimento costituisca un elemento ricorrente nelle scene metamorfiche del poema ovidiano: la successione di varie negazioni, che segnalano la progressiva scomparsa delle caratteristiche e dei tratti distintivi del personaggio in corso di trasformazione, serve infatti a ribadire «la differenziazione da un ‘prima’ che presentava condizioni diverse».25 Per quanto l’utilizzo del procedimento nei versi sopra citati risulti comunque differente (il lettore, nella fattispecie, non coglie alcuna ‘differenziazione da un prima’, visto che la descrizione della scena comincia proprio da questi versi),26 va quantomeno notata la riproposizione di uno stilema tipico delle

Metamorfosi.

Assolutamente marcati in senso ‘metamorfico’ sono invece due verbi che troviamo nella sezione appena riportata. Come già si diceva, la ‘paralisi’ del poeta in partenza è dovuta ad un senso di torpore che stringe il suo petto e gli impedisce di portare a termine i preparativi per il viaggio: il verbo utilizzato al v. 8, torpuerant, descrive uno stato psicofisico che richiama alla mente l’analoga fase di ‘intorpidimento’ che colpisce alcuni personaggi delle Metamorfosi e ne preannuncia l’imminente trasformazione. Si può citare, ad esempio, il caso di Dafne (I 548 ss.):

vix prece finita torpor gravis occupat artus: mollia cinguntur tenui praecordia libro, in frondem crines, in ramos bracchia crescunt; pes modo tam velox pigris radicibus haeret, ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.

Ancora, il verbo torpeo ricorre altrove nel poema ad indicare specificamente la trasformazione in pietra, che abbiamo visto addirsi al caso dell’esule. Nel corso dell’aristia di Perseo, uno dei rivali, sottovalutando i poteri della testa di Medusa,

25 E

SPOSITO 2003, p. 17.

26

A meno che non si voglia valorizzare il distico precedente ai vv. citati (iam prope lux aderat, qua me

discedere Caesar / finibus extremae iusserat Ausoniae) e ritenere che, prima dell’approssimarsi

dell’ultima sera, lo stato d’animo del poeta fosse in parte diverso (ma il longa … mora del v. 8 induce a pensare altrimenti). Conviene piuttosto segnalare, al v. 5, l’uso di iam, che torna puntualmente nel corso di tutto il componimento a scandire i vari momenti dell’addio (per i quali cfr. supra, p. 27 n. 13): nelle

Metamorfosi la particella iam viene regolarmente utilizzata nel momento in cui il poeta vuole indicare il

passaggio temporale da una forma all’altra (‘ciò che era risulta ormai altro’); per alcuni paralleli cfr. BÖMER ad II 585; ESPOSITO 2003 mette bene in luce la volontà, dimostrata da Ovidio nelle Met., di «proporre in una sequenza, cioè secondo una successione temporale, quello che invece […] non può essere temporalmente distinto e misurato» (p. 28).

rimprovera la viltà dei compagni ormai pietrificati, salvo poi incorrere nel medesimo destino (V 195 ss.):

increpat hos ‘vitio’que ‘animi, non viribus’ inquit ‘Gorgoneis torpetis’ Eryx, ‘incurrite mecum

et prosternite humi iuvenem magica arma moventem!’ incursurus erat: tenuit vestigia tellus,

inmotusque silex armataque mansit imago.27

Scorrendo i versi immediatamente seguenti a questi, si scopre che anche Aconteo, uno dei compagni di Perseo, avendo accidentalmente posato lo sguardo su Medusa (Gorgone conspecta), subisce la litomorfosi; il nemico Astiage, credendo che Aconteo sia ancora in vita, cerca di colpirlo con la spada: lo stupore di Astiage di fronte ai

tinnitus prodotti dal colpo inferto al marmo è premessa dell’altrettanto inesorabile

metamorfosi del suo corpo (vv. 203 ss.):

quem ratus Astyages etiamnum vivere, longo ense ferit: sonuit tinnitibus ensis acutis; dum stupet Astyages, naturam traxit eandem marmoreoque manet vultus mirantis in ore.

L’elemento dello stupore che genera – ancora una volta – paralisi costituisce un ulteriore tratto che accomuna la reazione dell’esule di fronte alla condanna di Augusto a quella di molti personaggi delle Metamorfosi di fronte ai prodigi e ai fenomeni spettacolari che, il più delle volte, ne causeranno la trasformazione.28 Come abbiamo visto, il verbo stupeo ricorre in Tr. I 3 al v. 11 (non aliter stupui…); il collegamento fra stupore e ‘pietrificazione’ viene proposto, in senso metaforico, nell’episodio di Narciso,

27 Cfr. anche XIII 540 s., dove il verbo è utilizzato ad indicare la pietrificazione, questa volta però

metaforica, di Ecuba di fronte al cadavere di Polidoro (duroque simillima saxo / torpet); per l’uso del verbo in altri contesti, in particolare quello moralistico, cfr. la n. di ROSATI 2009 ad V 195-9; altri paralleli ovidiani in BÖMER ad XIII 540-1.

28 Di ‘vocabulary of surprise’ parla A

NDERSON 1963, p. 4: «Ovid regularly associates with his descriptions of metamorphosis dramatic directions, by which he represents the amazement caused by the change in the individual and/or his companions, or through which he announces a story of change»; su questo aspetto del poema metamorfico ci soffermiamo più specificamente infra, pp. 106 ss.

quando il giovane per la prima volta vede la propria immagine riflessa nell’acqua (Met. III 418 s.):

adstupet ipse sibi vultuque inmotus eodem

haeret ut e Pario formatum marmore signum.29

Preludio alla metamorfosi in pietra è invece lo stupore che colpisce un anonimo personaggio, la cui vicenda viene cursoriamente accennata dal narratore in quanto termine di paragone per la reazione di Orfeo di fronte alla seconda e definitiva dipartita della consorte (X 64 ss.):

non aliter stupuit gemina nece coniugis Orpheus,

quam tria qui timidus, medio portante catenas, colla canis vidit; quem non pavor ante reliquit, quam natura prior, saxo per corpus oborto.30

Oltre al verbo stupeo, ricorre in questo passo la medesima ‘formula’ (non aliter …

quam) impiegata in Tr. I 3 per ben due volte (vv. 11 e 73), una transizione che nelle Metamorfosi serve – nel brano citato e altrove – ad operare il passaggio fra due episodi

contigui.31

In Tr. I 3.11 s. viene così istituito il parallelo fra lo stupore dell’esule e quello di colui

qui Iovis ignibus ictus / vivit et est vitae nescius ipse suae. L’associazione del principe

alla figura di Giove e la conseguente rappresentazione della punizione come fulmine scagliato contro il poeta costituiscono, com’è noto, una costante nella poesia dell’esilio;32 fin dalla prima elegia dei Tristia il lettore si trova di fronte

29 Cfr. anche V 509 (Cerere: mater ad auditas stupuit ceu saxea voces). 30 Per una possibile identificazione del personaggio, cfr. il comm. di R

EED ad loc.

31

FRÉCAUT 1968 (p. 249) parla di «formule passe-partout»; cfr. la serie di episodi, introdotti dal sintagma (haud aliter stupuit quam…), di Met. XV 553 ss.

32 Alcuni passi raccolti in F

ANTHAM 2009, p. 42; sull’associazione, cfr. quanto osservato da CICCARELLI

2001, p. 23 n. 2: «il parallelo tra Giove e il principe risente di una serie di concetti ereditati da diverse correnti filosofiche greche (platonismo, pitagorismo, stoicismo) e legati ad una concezione organica dell’universo, inteso come unità dominata da un dio supremo, a cui corrisponde la terra unita nell’impero e retta da un sovrano ‘ecumenico’»; sulle problematiche connesse a questa associazione, cfr. soprattutto BRETZIGHEIMER 1991 (pp. 47 ss.) e CLAASSEN 2001 (pp. 35 s.); sul trattamento della figura di Augusto nella poesia dell’esilio, tema naturalmente dibattutissimo, buone panoramiche in CLAASSEN 1987, WILLIAMS 2002b (pp. 366 ss.), LÜTKEMEYER 2005 (pp. 118 ss.), GALASSO 2009 (pp. 202 s.), MCGOWAN

all’accostamento, operato dal poeta, non soltanto fra Augusto e Giove, ma anche fra l’esule e il più noto personaggio mitico vittima del fulmine divino, Fetonte (I 1.79 ss.):

vitaret caelum Phaethon, si viveret, et quos optarat stulte, tangere nollet equos.

me quoque, quae sensi, fateor Iovis arma timere: me reor infesto, cum tonat, igne peti.

Il riferimento al mito di Fetonte nella poesia dell’esilio costituisce un altro richiamo importante alle Metamorfosi;33 in Tr. I 3.11 s., tuttavia, c’è da notare il fatto che Ovidio rappresenta il proprio caso in termini parzialmente divergenti rispetto a quello del personaggio mitico. A differenza del figlio del Sole, infatti, il poeta rimane in vita (vivit), pur in una condizione nella quale non riesce a rendersi conto di essere ancora vivo (vitae nescius). Questa condizione ‘intermedia’, a metà strada fra la vita e la morte, ricorda l’essenza stessa della metamorfosi in quanto fenomeno ambiguo, una forma di morte che pure è in grado di conservare, sotto altra specie, la vita del personaggio trasformato;34 è piuttosto notevole il fatto che nelle opere dell’esilio Ovidio continui regolarmente a presentare in questi termini il proprio stato, tanto fisico quanto mentale. Per raccogliere dunque quanto visto finora, mi pare abbastanza evidente il richiamo da parte dell’esule, all’inizio del racconto della sua ultima notte trascorsa a Roma, ad una serie di elementi – tematici e stilistici insieme – che si ritrovano nelle Metamorfosi:

2009 (pp. 63 ss.); da vedere anche LECHI 1988, che informa sui tratti ‘apollinei’ conferiti alla figura dell’imperatore nelle ex Ponto (pp. 130 ss.); cfr. inoltre la bibliografia citata infra, p. 75 n. 37.

33 G

RAF 2002, p. 114: «the first exempla in the collection of the Tristia are Phaëthon, victim of Jupiter’s wrath, and Icarus […] – excellent images for the poet who had envisioned himself, in the sphragis of his

Metamorphoses, flying high and wide, and having left a work that would survive the wrath of Jupiter».

Segnalo, di passaggio, una curiosa coincidenza fra l’epilogo della vicenda di Fetonte – così come narrata nelle Met. – e il destino toccato all’esule (per la quale cfr. PUTNAM 2001, pp. 185 s.): una volta colpito dal fulmine di Giove, Fetonte precipita «come a volte una stella dal cielo sereno, anche se non cade, può tuttavia sembrare che cada» (Met. II 321 s.); infine, il giovane viene accolto in seno al fiume Eridano (vv. 323 s.): quem procul a patria diverso maximus orbe / excipit Eridanus… Dopo aver subito il colpo inferto dal fulmine, anche Fetonte, come Ovidio, deve dunque patire (post mortem) la pena dell’esilio.

34 A proposito di Tr. I 3.12, già D

OBLHOFER 1980b (p. 87) notava: «diese Ich-Spaltung ist ein Vorgang und ein Zustand, der schon den Dichter der Metamorphosen, in deren Wesen er begründet liegt, aufs stärkste angezogen und für den uns H. Fraenkel in seinem bekannten Ovidbuch [FRÄNKEL 1945] die Augen geöffnet hat»; sulla metamorfosi in quanto fenomeno a metà fra la vita e la morte e che «lascia ambiguo lo statuto dell’io» (REED ad Met. X 485-7), la bibliografia è naturalmente cospicua: cfr. già FRIEDRICH 1953, pp. 97 s.; fra le formulazioni più recenti si impone quella di HARDIE 2002b, pp. 81 ss.: «any and every instance of metamorphosis results in a state that is neither life nor death, but something in between»; cfr. anche VIAL 2010, p. 203.

soprattutto, la descrizione della ‘paralisi’ di cui l’esule si dice vittima si realizza attraverso il ricorso ad alcuni vocaboli ed espressioni (i verbi torpeo e stupeo, la condizione ‘intermedia’ fra morte e vita) che ricordano analoghe situazioni ‘metamorfiche’ descritte nel precedente poema.

Dalla scena iniziale dell’elegia, in cui il poeta illustra quale fosse il proprio stato d’animo la sera precedente la partenza, passiamo ora al momento del definitivo distacco. Ovidio sta ancora rivolgendo le ultime parole ai familiari, quand’ecco che Lucifero, la stella che annuncia il giorno, sorge ad imporre la partenza (vv. 69 ss.):

nec mora, sermonis verba imperfecta relinquo, complectens animo proxima quaeque meo. dum loquor et flemus, caelo nitidissimus alto,

stella gravis nobis, Lucifer ortus erat.

dividor haud aliter, quam si mea membra relinquam, et pars abrumpi corpore visa suo est.

Com’è stato notato dalla critica, il dettaglio delle parole lasciate a metà dal poeta (verba

imperfecta relinquo) trova una precisa corrispondenza nell’epistola di Laodamia a

Protesilao:35 al momento del distacco, la sposa vorrebbe indirizzare altre parole di raccomandazione al marito in partenza, ma l’emozione la costringe a lasciare incompiuto il suo discorso.36 Per quanto l’influenza del modello elegiaco sia incontestabile, vorrei proporre un diverso tipo di accostamento, che ancora una volta coinvolge piuttosto le Metamorfosi; nei versi sopra citati, infatti, colpisce il fatto che, al sopraggiungere del momento decisivo (nec mora), sia l’esule in partenza a dover ‘abbandonare’ tanto le parole e i discorsi quanto – metaforicamente – parte delle proprie membra (verba imperfecta relinquo; dividor haud aliter, quam si mea membra

relinquam). La perdita della facoltà locutiva37 costituisce un tema piuttosto centrale nel

35 Her. 13.13: linguaque mandantis verba imperfecta reliquit; cfr. R

OSATI 1999, p. 793.

36 Il tema dell’incompiutezza è d’altronde «assolutamente fondamentale nel mito di Protesilao e

Laodamia» (ROSATI 1999, p. 794); cfr. il comm. di ROGGIA ad Her. 13.7.

37 Dopo i saluti dei vv. 15 s. (alloquor extremum), la preghiera dei vv. 31 ss., la ripetuta (a! quotiens … dixi) allocuzione dei vv. 51 s., i molti discorsi intrattenuti (v. 57: saepe ‘vale’ dicto rursus sum multa locutus) – il sermo finale rivolto ai propri cari (vv. 61 ss.), bruscamente interrotto, costituisce l’ultimo

intervento ‘diretto’ del poeta in Tr. I 3: le accorate parole della moglie (vv. 81 ss.) non riceveranno infatti alcuna risposta.

poema delle forme mutevoli, dove il venir meno della capacità di parlare corrisponde il più delle volte alla conseguente perdita di identità da parte del personaggio che si trasforma;38 in svariate occasioni, in particolare, il poeta indugia sulla difficoltà, di cui sono vittime i personaggi che subiscono la metamorfosi, di portare a termine il discorso prima che il completarsi della trasformazione sottragga loro la possibilità di dire oltre: si confronti, per esempio, il caso di Nileo, un caso – ancora una volta – di pietrificazione (siamo sempre nell’ambito dell’episodio di Perseo: V 190 ss.):

‘adspice,’ ait ‘Perseu, nostrae primordia gentis! magna feres tacitas solacia mortis ad umbras, a tanto cecidisse viro’ – pars ultima vocis in medio suppressa sono est, adapertaque velle ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis.

Mi pare interessante, soprattutto, il fatto che la necessità di interrompere – o comunque di concludere forzatamente – la comunicazione con i propri cari costituisca un dettaglio ricorrente non soltanto nelle scene di commiato elegiaco, ma anche in quelle di congedo ‘metamorfico’: il progredire della trasformazione, infatti, costringe il personaggio di turno ad affrettare l’addio. Così ad esempio Driope, costretta a salutare i familiari accorsi (la sorella, il marito, il padre) appena in tempo prima che la corteccia le ricopra anche il volto (IX 388 s.):

plura loqui nequeo: nam iam per candida mollis colla liber serpit, summoque cacumine condor.39

Nell’episodio di Driope, fra l’altro, ricorre quello che potremmo definire ‘motivo del

dum licet’ (vv. 369 s.: dum licet oraque praestant / vocis iter), che si ritrova con una

38 Uno studio complessivo, che prende in esame numerosi esempi, è quello di L

ANDOLFI 2003; il tema cui si fa riferimento è quello del posse loqui sottratto (anche con violenza; cfr. II 483: posse loqui eripitur) dalla metamorfosi.

39

Per l’espressione plura loqui (nequeo), paralleli in BÖMER ad loc.; cfr. in particolare il caso di Cadmo, che vorrebbe continuare a parlare, ma la metamorfosi in serpente puntualmente produce la biforcazione della sua lingua (IV 586 s.: ille quidem vult plura loqui, sed lingua repente / in partes est fissa duas); per ulteriori esempi, cfr. infra, p. 56 n. 91; il parallelo fra Ovidio partente e Driope è proposto da FORBIS 1997