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Metamorfosi poetica, metamorfosi fisica: la trasformazione dell’esule

L A METAMORFOSI DI O VIDIO

4. Metamorfosi poetica, metamorfosi fisica: la trasformazione dell’esule

Che Ovidio, una volta subita la condanna da parte di Augusto, debba fare i conti con una sorta di ‘metamorfosi’ del proprio essere, appare evidente al lettore fin dalla prima elegia dei Tristia: è il poeta stesso, per l’appunto, ad istituire un esplicito collegamento fra il proprio destino e le vicende degli innumerevoli personaggi che popolano l’universo delle Metamorfosi (Tr. I 1.117 ss.):

sunt quoque mutatae ter quinque volumina formae, nuper ab exequiis carmina rapta meis.

his mando dicas, inter mutata referri fortunae vultum corpora posse meae. namque ea dissimilis subito est effecta priori,

flendaque nunc, aliquo tempore laeta fuit.

La fortuna di Ovidio ha subito una trasformazione tanto manifesta da poter diventare oggetto del poema sulle mutatae formae: il significato metapoetico dell’affermazione contenuta nei versi citati non è certo sfuggito alla critica, che ha saputo cogliere tutta l’importanza del passo di Tr. I 1 in relazione alla poetica ovidiana della ‘continuità’ narrativa: «nella visuale del poeta dei Tristia, le Metamorfosi, e le metamorfosi, non sono finite: un nuovo epilogo, deprimente e tristificante, sarà continuazione necessaria, come se il testo dei Tristia dovesse rileggere in propria chiave l’altro testo già

compiuto».43 Del resto, la metamorfosi di Ovidio si rivela, prima di tutto, un fatto di poetica; la trasformazione di cui l’autore dà notizia riguarda infatti la poesia che ora l’esule si vede costretto a praticare: non più gli allegri e spensierati versi di un tempo, bensì il triste e sconsolato carmen dell’esilio.44 Se infatti il fenomeno (quello appunto della metamorfosi) che la poesia ovidiana ha subito richiama il contenuto del poema grande (le Metamorfosi), l’oggetto della trasformazione corrisponde piuttosto alla poesia erotica giovanile, alla produzione dunque elegiaca: è naturalmente l’elegia ovidiana ad aver ‘vissuto’ la metamorfosi più evidente, che il poeta tende sinteticamente ad illustrare – più volte nel corso dei libri scritti durante l’esilio – contrapponendo il carattere ‘lieto’ e ‘gioioso’ della produzione di un tempo al tono ‘triste’ e ‘lacrimevole’ dell’attuale (cfr. il v. 122 del passo sopra riportato: flendaque nunc, aliquo tempore

laeta fuit).45

Se dunque la poesia ovidiana ha patito la metamorfosi cui si è accennato, che cosa è stato del suo autore? Anche la figura del poeta, intesa propriamente nella sua fisicità, dimostra di recare i segni di una trasformazione. Come si è visto per Tr. I 3, è interessante verificare in quale misura un certo tipo di lessico e di immaginario – quello che Ovidio, nel poema grande, ha impiegato nella descrizione delle metamorfosi in atto – possa trovare un nuovo utilizzo nella rappresentazione dello stato fisico e dell’evoluzione corporea dell’esule. La trasformazione subita dal poeta ha finora trovato poco spazio nelle analisi condotte dalla critica,46 ma a me pare che l’attenzione rivolta dall’esule al mutamento del proprio corpo costituisca un aspetto importante, soprattutto alla luce dell’esperienza maturata con le Metamorfosi. Va innanzitutto notato che in qualche caso è l’esule stesso a suggerire – in forma di catalogo – un accostamento fra il proprio caso e quello di alcuni protagonisti del poema metamorfico, soprattutto Niobe,

43 B

ARCHIESI 1986, p. 105; sulla ‘tristificazione’ delle Metamorfosi, fondamentale HINDS 1985 (che esamina in particolare Tr. I 7); cfr. anche LECHI 1993, pp. 14 s.

44 Cfr. L

ECHI 1978 e, soprattutto, LABATE 1987.

45 Passi decisivi da questo punto di vista sono Tr. V 1.5 ss. ed ex P. III 9.35 ss. (citati supra, p. 9). 46 Uno spunto in S

ALVATORE 1991, pp. 8 s.: «Ovidio ha sentito la sua metamorfosi, più radicale di quelle ch’egli aveva cantato nel suo poema epico mitologico. Direi che il poeta leghi intimamente le vicende della sua vita alle innumerevoli vicende create dalla sua fantasia […]. Qui [scil. in Tr. I 1.119 ss.] Ovidio porge subito al lettore l’immagine dei mutata… corpora, che ci riporta – con una variatio – proprio all’inizio del I libro delle Metamorfosi […]: il motivo, appunto della «metamorfosi», che, questa volta, riguarda dolorosamente lui stesso»; CLAASSEN 1990 (ripreso in CLAASSEN 2008, pp. 40 ss.), anziché di trasformazione, discute piuttosto il tema della depersonalizzazione del poeta esule e della personificazione degli oggetti inanimati nella poesia dell’esilio; più specifico sul tema, per quanto assai verboso e dispersivo, lo studio di TOLA 2004 (su cui cfr. ancora CLAASSEN 2008, pp. 240 s.).

il cui esempio è significativo tanto per la sua trasformazione in pietra (come abbiamo accennato supra) quanto per la possibilità, concessale da Apollo e Diana, di continuare a piangere – desiderio che anche l’esule, attraverso la poesia, vorrebbe vedere realizzato (Tr. V 1.57 ss.):47

cum faceret Nioben orbam Latonia proles, non tamen et siccas iussit habere genas. est aliquid, fatale malum per verba levare:

hoc querulam Procnen Halcyonenque facit.

In un altro passo, il confronto con i personaggi delle Metamorfosi si realizza attraverso un «paradossale makarismós»:48 Niobe e le Eliadi sono giudicate ‘felici’ per aver avuto la possibilità di trasformarsi, rispettivamente, in pietra e in pioppi; anche il poeta esule vorrebbe subire la medesima trasformazione: attraverso la metamorfosi, infatti, i protagonisti del poema, deponendo i propri sensus,49 cessano allo stesso tempo di soffrire (ex P. I 2.27 ss.):50

fine carent lacrimae, nisi cum stupor obstitit illis, et similis morti pectora torpor habet.

felicem Nioben, quamvis tot funera vidit, quae posuit sensum saxea facta malis; vos quoque felices, quarum clamantia fratrem

cortice velavit populus ora novo.

ille ego sum, lignum qui non admittar in ullum; ille ego sum, frustra qui lapis esse velim. ipsa Medusa oculis veniat licet obvia nostris,

amittet vires ipsa Medusa suas.

47 C’è d’altronde da notare che, «in quanto paradigma del lutto senza misura, Niobe e la sua metamorfosi

sembrano la traduzione, in termini mitico-narrativi, della metafora del dolore così intenso da provocare l’insensibilità di chi lo prova» (ROSATI 2009 ad Met. VI 146-312).

48 G

ALASSO 2008a, p. XVII; cfr. già GALASSO 1987, pp. 91 s.

49

Cfr. Met. X 499 s. (Mirra): quae quamquam amisit veteres cum corpore sensus / flet tamen…

50 Cfr. ancora G

ALASSO 2008a, p. XVII: «viene così esplicitato uno dei meccanismi fondamentali, strutturanti delle Metamorfosi, dove la trasformazione esclude la tragedia»; su questo aspetto del poema ovidiano, bibliografia in GALASSO 1987, p. 91 n. 43.

Il confronto con Niobe e le Eliadi – oltre che, implicitamente, con tutti i personaggi pietrificati dalla testa di Medusa nel corso dello scontro tra Perseo e Fineo narrato in

Met. V – comporta la realizzazione della differenza fra il destino (paradossalmente

giudicato felice) dei personaggi trasformati e quello (infelice) dell’esule. Nonostante la diversità qui individuata, è tuttavia interessante il fatto che il poeta, nell’illustrare il proprio stato psicofisico nel distico che introduce il confronto (vv. 27 s.), dia risalto ad un dettaglio che, piuttosto, avvicina la sua situazione a quella di Niobe e delle Eliadi: l’incessante sgorgare delle lacrime (fine carent lacrimae) costituisce infatti un aspetto che senz’altro accomuna la situazione del poeta e il destino delle sorelle di Fetonte (Met. II 364: inde fluunt lacrimae) e della madre punita dai figli di Latona (VI 312:

liquitur, et lacrimas etiam nunc marmora manant). Sempre nello stesso distico, inoltre,

vengono utilizzati due sostantivi, stupor e torpor, la cui pertinenza al ‘vocabolario’ della metamorfosi abbiamo cercato di rilevare a proposito dei versi iniziali di Tr. I 3, dove ricorrono i verbi ad essi corrispondenti, stupeo e torpeo.51

In altri passi, Ovidio sembra riconoscere senza ombra di dubbio la ‘metamorfosi’ subita in seguito alla condanna; rivolgendosi ad un nemico, che a Roma continua ad accusarlo, il poeta prorompe nella seguente protesta (Tr. III 11.25 ss.):

non sum ego quod fueram: quid inanem proteris umbram? quid cinerem saxis bustaque nostra petis?

Hector erat tunc cum bello certabat; at idem vinctus ad Haemonios non erat Hector equos. me quoque, quem noras olim, non esse memento:

ex illo superant haec simulacra viro.

Oltre al topos dell’esilio come morte e la conseguente rappresentazione dell’esule come defunto (inanem … umbram; cinerem; bustaque nostra; simulacra),52 nel passo citato viene allo stesso tempo risaltata l’autentica trasformazione prodottasi nella persona dell’esule: la differenziazione fra il ‘prima’ e il ‘dopo’ si realizza attraverso la precisa individuazione dello scarto temporale (sum – fueram; olim). Anche la menzione del

51

Un buon esame del passo di ex P. I 2 si trova in TOLA 2004, pp. 55 ss; cfr. anche DOBLHOFER 1980a (p. 79) e BERNHARDT 1986 (pp. 203 ss.); decisamente da scartare la proposta di BUTRICA 1997-2000, che giudica interpolati i vv. 33-36.

52 Per una discussione del distico (vv. 25 s.), cfr. D

caso di Ettore, cui Ovidio associa il proprio (me quoque…), si rivela interessante:53 nei due momenti, cronologicamente distinti, in cui il poeta visualizza la figura dell’eroe troiano (in battaglia prima; trascinato dal carro di Achille poi), Ettore – allo stesso tempo – rimane lo stesso (lo dimostra la ripetizione del nome nei due versi, oltre che l’aggettivo idem, in posizione rilevata) e non è più lo stesso (erat … non erat). Il paradosso, che individua una sorta di «sdoppiamento del sé dal sé»,54 è naturalmente diffuso nelle Metamorfosi: basti rammentare il celebre, studiatissimo verso in cui Ovidio vuole indicare il mutamento della condizione di Niobe, cha da uno stato di estrema felicità sta precipitando verso la rovina (VI 273: heu quantum Niobe Niobe

distabat ab illa).55

Come risulta evidente da quest’ultima esclamazione, pronunciata dal narratore, nell’episodio di Niobe (e in altri: ad esempio, quello di Ecuba in Met. XIII) il poeta conferisce una particolare rilevanza al tema del rovesciamento della fortuna:56 un tema naturalmente onnipresente in Tristia ed ex Ponto, dove l’esule spesso lamenta (per se stesso) e rammenta (ai destinatari) la volubilità e l’incostanza della sorte.57 Ai fini del nostro discorso sulla ‘metamorfosi’ del poeta, vale la pena di notare il modo in cui il tema del mutamento della sorte viene sviluppato nel seguente passo (Tr. IV 1.99 ss.):

cum vice mutata, qui sim fuerimque, recordor, et, tulerit quo me casus et unde, subit,

saepe manus demens, studiis irata sibique, misit in arsuros carmina nostra focos.

Ancora una volta, il poeta tiene a rimarcare lo scarto temporale fra il proprio stato attuale e quello passato: il nesso qui sim fuerimque (subit), di cui si segnala un preciso

53 D

EGL’INNOCENTI PIERINI 2008 (pp. 41 s.) individua in questo distico un richiamo al celebre passo di

Aen. II in cui Ettore appare in sogno ad Enea (vv. 270 ss.). 54 R

EED ad Met. X 523.

55 Su cui cfr. in particolare H

ARDIE 2002b, pp. 251 ss.

56

Cfr. ROSATI 2009 ad Met. VI 276; il ribaltamento di sorte, in fondo, «may be seen in this poem as another form of metamorphosis» (HOPKINSON [comm. ad Met. XIII], p. 23).

57 Sulla funzione dell’elemento didascalico nella poesia ovidiana dell’esilio, cfr. ancora L

ABATE 1987, pp. 109 ss.

parallelo nell’ambito della produzione dell’esilio, trova riscontro anche nelle

Metamorfosi.58

Se gli ultimi due passi citati segnalano l’avvenuta ‘trasformazione’ del poeta esule, che dichiara di non essere più quello di prima, ve ne sono altri in cui Ovidio, lamentandosi del proprio cattivo stato di salute, descrive il deperimento e lo svilimento del proprio corpo – una sorta di metamorfosi ‘in atto’; vediamo in che modo l’esule parla della propria malattia in un’epistola indirizzata a L. Pomponio Flacco (ex P. I 10.3 ss.; 23 ss.):

longus enim curis vitiatum corpus amaris non patitur vires languor habere suas. nec dolor ullus adest, nec febribus uror anhelis,

et peragit soliti vena tenoris iter.

os hebes est, positaeque movent fastidia mensae, et queror, invisi cum venit hora cibi.

[…]

sed vigilo vigilantque mei sine fine dolores, quorum materiam dat locus ipse mihi. vix igitur possis visos agnoscere vultus, quoque ierit quaeras qui fuit ante color. parvus in exiles sucus mihi pervenit artus,

membraque sunt cera pallidiora nova.

La critica ha notato che, in questo come in altri passi, Ovidio sta rivisitando il topos elegiaco della ‘malattia d’amore’, i cui sintomi vengono ora percepiti dall’esule;59 il

58 Tr. III 8.38: cernimus et, qui sim qui fuerimque, subit; Met. II 551 (la cornacchia mette in guardia il

corvo): quid fuerim quid simque, vide meritumque require. Interessante, da questo punto di vista, anche

Tr. V 1.39 s., dove il poeta afferma che, nel caso in cui dovesse essere riammesso in patria, tornerà ad

«essere quello di prima», subendo – si potrebbe dire – una ‘contro-metamorfosi’: at mihi si cara patriam

cum coniuge reddas, / sint vultus hilares, simque quod ante fui; il suo ritorno allo stato precedente

richiamerebbe in sostanza il particolare caso della metamorfosi e successiva ri-trasformazione di Io, che grazie all’intervento di Giove, impietositosi di fronte alle sofferenze dell’amata, «ritorna ciò che era prima» (Met. I 739: fitque quod ante fuit); su questo insolito caso di ‘contro-metamorfosi’, che sta alla base della vicenda narrata nel romanzo di Apuleio, cfr. BANDINI 1986, p. 38.

59

Cfr. il comm. di HELZLE 2003, p. 240: «folgerichtig spielt Ovid dann auch durchweg mit Motiven, die dem Bild des liebeskranken elegischen Liebhabers entnommen sind. Diese Symptome sind Teil der Exilkrankenheit ebenso wie des Liebeskummers»; così pure GAERTNER, p. 501: «the symptoms of Ovid’s illness […] resemble those of love-sickness in Ovid’s earlier poetry»; GALASSO 2008(comm.) parla di

riutilizzo del materiale elegiaco appare evidente, ma non va trascurato – a mio parere – l’influsso del ‘vocabolario’ metamorfico. In particolare, è interessante il fatto che, ai vv. 5 s. sopra riportati, Ovidio neghi alcuni dei sintomi tipici della Liebeskrankheit (il poeta non percepisce alcun dolore particolare, non ha la febbre, le pulsazioni sono regolari); piuttosto, è la bocca ad essere «insensibile»: per quanto l’aggettivo hebes, utilizzato in questo senso, non trovi significativo riscontro nelle Metamorfosi né altrove,60 è più in generale lo stato – per l’appunto – di insensibilità e di torpore (qui riferito ad una singola parte del corpo)61 a richiamare la condizione di molti personaggi del poema metamorfico, come si è già in parte visto a proposito di Tr. I 3; per l’irrigidimento della bocca, nella fattispecie, si confronti ancora una volta la descrizione della metamorfosi di Niobe (VI 306 s.: ipsa quoque interius cum duro lingua palato / congelat), oltre che quella di Aglauro (II 831: oraque duruerant). Un sinonimo di hebes,62 che a pieno titolo rientra nel lessico dell’esilio e che risulta diffuso anche nelle Metamorfosi, è inoltre l’aggettivo attonitus, che – secondo una nota di Servio – indica propriamente lo stordimento provocato dalla caduta del fulmine: il caso, per l’appunto, di Ovidio, colpito dalla saetta di Giove-Augusto.63

Per tornare al passo di ex P. I 10, anche nella seconda sezione citata (vv. 23 ss.) compaiono alcuni termini interessanti: innanzitutto, la metamorfosi subita dal poeta, che non riesce più a prendere sonno (sed vigilo vigilantque mei sine fine dolores), è immediatamente riscontrabile nel fatto che l’amico Flacco faticherebbe a «riconoscere il volto» di Ovidio (vix igitur possis visos agnoscere vultus); ciò che rende il poeta irriconoscibile è il pallore delle sue membra scolorite (quoque ierit quaeras qui fuit ante

color), che dipende dallo scarso afflusso di liquido vitale agli arti (parvus in exiles

«ricodificazione dell’elegia erotica» (p. 253); paralleli in NAGLE 1980, pp. 61 ss; più in generale, per una rivalutazione del lessico dell’esilio in Ovidio, si veda CLAASSEN 1999b (ripreso in CLAASSEN 2008, pp. 111 ss.); FISH 2004 studia i riferimenti intertestuali ai Remedia rintracciabili nella poesia dell’esilio.

60

Cfr. HELZLE 2003 ad loc.: «hebes vom fehlenden Geschmackssinn findet man nur hier»; GAERTNER ad

loc.: «the iunctura os hebes is unparalleled and may have a prosaic flavour, as hebes qualifies parts of the

human body mostly in scientific prose authors».

61 Cfr. anche il v. 13 di ex P. I 10, dove il palatum viene definito torpens. 62 Cfr. ThLL, s.v. hebes, pp. 2581 s.

63 S

ERV. ad Aen. III 172: proprie attonitus dicitur, cui casus vicini fulminis et sonitus tonitruum dant

stuporem; per una valutazione del lessico del ‘Blitzschlag’ (oltre ad attonitus, i verbi torpeo e stupeo), cfr.

MARTIN 2004 (pp. 41 ss.), che parte dal passo di Tr. I 3 sopra esaminato; per attonitus nella poesia dell’esilio, cfr. LUCK ad Tr. I 3.11 s.; per la ricorrenza dell’aggettivo nelle Metamorfosi, cfr. BÖMER ad

Met. III 40. Interessante quanto notato da CLAASSEN 1999b, p. 158 (= CLAASSEN 2008, p. 129): l’aggettivo compare soltanto nei Tristia, mentre nelle ex Ponto «the exile has, perhaps not surprisingly, ceased to be attonitus».

sucus mihi pervenit artus) e che rende il suo corpo più pallido della cera (membraque

sunt cera pallidiora nova).64 Fra i vari referenti letterari – in particolare elegiaci – accostabili a questi versi,65 a mio parere non può essere trascurato, una volta di più, il precedente costituito dalle Metamorfosi; in particolare, fra le numerose scene di metamorfosi per ‘deperimento’ narrate nel poema, una certa attenzione merita la descrizione delle due trasformazioni ‘parallele’ di Eco e Narciso:66 nei due passi di Met. III, infatti, si addensano sostanzialmente tutti gli elementi descrittivi individuati in ex P. I 10 e se ne trovano altri, che segnaleremo, parimenti riscontrabili nella poesia dell’esilio; ecco dunque come viene descritto il deperimento fisico dei due protagonisti dell’episodio metamorfico (Met. III 396 ss.; 486 ss.):

et tenuant vigiles corpus miserabile curae, adducitque cutem macies, et in aëra sucus

corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt: vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram. quae simul adspexit liquefacta rursus in unda, non tulit ulterius, sed, ut intabescere flavae igne levi cerae matutinaeque pruinae sole tepente solent, sic attenuatus amore liquitur et tecto paulatim carpitur igni, et neque iam color est mixto candore rubori

nec vigor et vires67 et quae modo visa placebant, nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo.

A questo punto del nostro discorso, va senz’altro svolta una precisazione fondamentale: c’è infatti da tenere a mente che il lessico e l’immaginario utilizzati e sfruttati da Ovidio

64 Per la difficoltà di riconoscere il poeta da parte del destinatario, cfr. ex P. I 4.5 s.: nec, si me subito videas, agnoscere possis, / aetatis facta est tanta ruina meae; per il pallore del corpo e delle membra, cfr. Tr. III 8.29 ss. (il colore delle membra del poeta assomiglia a quello delle foglie in autunno) e IV 6.41

(citato infra).

65 Per i quali cfr. H

ELZLE 2003 ad loc.

66

Sulla ‘complementarietà’ delle vicende di Eco e Narciso in Met. III si sofferma ROSATI 1983, pp. 26 ss.

67 In ex P. I 10 l’assenza di vires è segnalata ai vv. 3 s. (longus enim curis vitiatum corpus amaris / non patitur vires languor habere suas); al v. 3 compare inoltre il termine curis, che nel passo di Met. III trova

nella descrizione delle metamorfosi di Eco e Narciso (e non solo) sono essi stessi palesemente derivati dall’elegia erotica latina: il progressivo deterioramento fisico dei due personaggi viene illustrato sulla base del «familiar background of courtship in elegy».68 Questo fatto tuttavia non esclude – anzi, favorisce – la possibilità che Ovidio, attuando la ricodificazione dell’elegia erotica nella poesia dell’esilio, abbia tenuto conto

anche del proprio poema epico, dove il poeta aveva già operato – in forme e modi che la

critica ha ormai saputo ben individuare – una sorta di ‘transcodificazione’ dell’elegia.69 Pare insomma plausibile che in ex P. I 10, accanto al generico modello rappresentato dal

topos elegiaco della malattia d’amore, vada rintracciato anche il modello ‘metamorfico’

(costituito, in questo caso, soprattutto dall’episodio di Eco e Narciso). Al di là del singolo caso, l’osservazione a proposito della ‘compresenza’ del modello elegiaco e di quello ‘metamorfico’, a sua volta derivato dall’elegia erotica, può a mio parere assumere una valenza generale: nella rappresentazione della metamorfosi del proprio corpo, esplicitamente riconosciuta da Ovidio nelle opere dell’esilio, il poeta dimostra di utilizzare un ‘vocabolario’ che risale al lessico della Liebeskrankheit, ma che risente senza dubbio della riproposizione che di quel lessico Ovidio stesso ha offerto nelle

Metamorfosi.

Un esame più approfondito dei passi sopra riportati può forse aggiungere qualche dettaglio interessante. Abbiamo visto che in ex P. I 10 l’esule dichiara che le proprie membra risultano ormai «più pallide della cera nuova» (v. 28: membraque sunt cera

pallidiora nova); il dettaglio costituito dal pallore delle membra fa naturalmente parte

dell’immaginario elegiaco legato al tema della malattia d’amore: esso compare fin dalla prima elegia properziana, dove il poeta, rivolgendosi alle donne che praticano le arti magiche, chiede loro di far sì che il volto di Cinzia possa «diventare più pallido» di

68 K

NOX 1986, p. 22; bisogna in sostanza tenere presente che, in questi come in altri passi, Ovidio riprende e riattiva il lessico e l’immaginario della malattia d’amore elegiaca al fine di descrivere il reale deperimento dei propri personaggi, laddove nel caso dell’amans elegiaco si trattava di una rappresentazione ‘fittizia’ (‘letteraria’) dello stato fisico che la tradizione assegnava alla figura dell’amante infelice; questo discorso si ricollega all’uso, da parte di Ovidio nelle Metamorfosi, di sfruttare

in senso proprio le associazioni favorite da una figura retorica quale la metafora, un aspetto centrale e

tipico del poema ovidiano notoriamente studiato da PIANEZZOLA 1999; sullo sfruttamento dell’immaginario elegiaco nell’episodio di Narciso, cfr. da ultimo PAVLOCK 2009, pp. 14 ss.; sulla natura della similitudine nelle Met., si veda anche l’utile e recente studio complessivo di VON GLINSKI 2012 (l’episodio di Narciso è discusso alle pp. 116 ss.).

69 Oltre alla bibliografia citata supra (p. 29 n. 18), si aggiunga K