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Il nome di Ovidio, i nomi degli altr

I NOMI NELLA POESIA DELL ’ ESILIO

2. Il nome di Ovidio, i nomi degli altr

La carriera poetica di Ovidio si conclude con un componimento rivolto a un invidioso. L’elegia conclusiva dell’ultima raccolta poetica inviata dal Ponto (ex P. IV 16), come ci si deve aspettare, si differenzia dagli altri carmi della silloge e funge da sigillo – una sorta di sphragis, per quanto «del tutto sui generis»21 – all’intera opera: in essa, per l’appunto, il poeta non si rivolge ad alcun preciso destinatario (com’è invece di norma nelle ex Ponto), ma sviluppa il tema, di ascendenza callimachea e molto sfruttato da Ovidio fin dagli Amores, dell’invidia che colpisce i vivi e della fama che cresce dopo la morte (vv. 1 ss.):22

invide, quid laceras Nasonis carmina rapti? non solet ingeniis summa nocere dies,

20 Cfr. e.g. P

LAUT. Aul. 74 e 275, Bacch. 233, 351 e 366, Cas. 1014, Cist. 550 e 749, Pseud. 395, 413 e 673; TER. Andr. 602, Eun. 289 e 962 (con il comm. di BARSBY ad 57: «erus is the standard slave’s word

for ‘master’ in comedy […]; similarly the master’s son is referred to as erilis filius»).

21 P

ARATORE 1959, p. 200.

22 Sulla derivazione callimachea del tema dell’invidia e sullo sviluppo del medesimo in ambito latino, cfr.

soprattutto NISBET –HUBBARD ad HOR. Carm. II 20.4, FEDELI 1985 ad PROP. III 1.21-22 e MCKEOWN ad OV. Am. I 15.1-2; in generale c’è da notare che, mentre a Callimaco risale la personificazione dell’invidia (Βασκανίη, resa in latino per lo più con il termine Livor) nel contesto di un’apologia poetica, l’idea secondo cui l’invidia s’arresta (e la fama s’accresce) dopo la morte dei grandi trova una formulazione già in Pindaro (Paean. 2.55 s.) ed è particolarmente diffusa in poesia latina: cfr. HOR. Carm. III 24.31 s., Ep. II 1.12; in riferimento al destino dei poeti, dopo PROP. III 1.21 s., cfr. OV. Am. I 15.39 ed ex P. III 4.73 s.

famaque post cineres maior venit; et mihi nomen tum quoque, cum vivis adnumerarer, erat.

La funzione assegnata ad ex P. IV 16 corrisponde a quella conferita, nei Tristia, all’elegia autobiografica (IV 10):23 l’ultima sezione di quell’elegia, infatti, tratta le medesime tematiche che si ritrovano nei versi iniziali del nostro componimento, ivi compreso il tema del nomen del poeta; rivolgendosi alla Musa, in Tr. IV 10 Ovidio affermava (vv. 121 ss.):

tu mihi, quod rarum est, vivo sublime dedisti

nomen, ab exequiis quod dare fama solet.

nec, qui detractat praesentia, Livor iniquo ullum de nostris dente momordit opus. nam tulerint magnos cum saecula nostra poetas,

non fuit ingenio fama maligna meo,

cumque ego praeponam multos mihi, non minor illis dicor et in toto plurimus orbe legor.

si quid habent igitur vatum praesagia veri, protinus ut moriar, non ero, terra, tuus.24

In entrambi i passi citati, il poeta declina in un modo del tutto originale il tema tradizionale dell’invidia che attacca i vivi e che abbandona i defunti: a differenza di quanto suole accadere, infatti, Ovidio possiede un nomen già durante la vita (et mihi

nomen / tum quoque, cum vivis adnumerarer, erat; tu mihi, quod rarum est, vivo sublime dedisti / nomen); addirittura, nel passo di Tr. IV 10, il poeta afferma che il Livor, abituato a colpire «quanto è presente» (qui detractat praesentia), non ha agito

23 Cfr. G

ALASSO 2008 (comm.), p. 326; sul valore di sphragis conferito dal poeta a Tr. IV 10, si vedano gli studi complessivi di FREDERICKS 1976 (bibliografia precedente a p. 140 n. 3), FAIRWEATHER 1987 e soprattutto CICCARELLI 1997.

24

Evidenti, naturalmente, i richiami al finale delle Metamorfosi, nel passo di Tr. IV 10 più che in quello di ex P. IV 16; è importante notare, considerato l’argomento del presente capitolo, che in Met. XV 871 ss., nonostante l’assenza del tema dell’invidia, puntualmente compare, tuttavia, quello del nomen, lì definito indelebile (v. 876: nomenque erit indelebile nostrum); si stabilisce pertanto, in questo senso, un’importante linea di continuità fra il finale del poema maggiore, l’autobiografia poetica dei Tristia e il sigillo conclusivo delle ex Ponto.

allo stesso modo nel caso delle sue opere, che ne sono rimaste illese.25 Mentre tuttavia in Tr. IV 10 le affermazioni del poeta sono accompagnate da un tono sostenuto e dall’orgogliosa consapevolezza del proprio valore poetico, in ex P. IV 16 la formulazione dell’idea è complicata dalla concomitante presenza del tema dell’esilio come morte: dal momento che, nei versi iniziali dell’elegia, l’esule si presenta come ormai defunto (Nasonis … rapti; summa … dies; post cineres; et mihi nomen … erat), il tono del componimento ne risulta complessivamente più dimesso;26 così pure, nei versi finali di ex P. IV 16, la mescolanza degli stessi temi conduce ad una sorta di contraddizione da parte dell’esule, che invita il Livor a cessare di accanirsi contro le ceneri del poeta defunto (in fondo, che vantaggio si ricava dal ferire quelli che ormai sono degli extinctos … artus?), salvo affermare – nel penultimo distico – di essere rimasto in possesso della sola vita (vv. 47 ss.):

ergo summotum patria proscindere, Livor, desine, neu cineres sparge, cruente, meos. omnia perdidimus: tantummodo vita relicta est,

praebeat ut sensum materiamque mali. quid iuvat extinctos ferrum demittere in artus?

non habet in nobis iam nova plaga locum.

Proprio quest’apparente contraddizione ci permette tuttavia di notare – soprattutto a proposito dei versi iniziali dell’elegia – l’ardito stravolgimento della prospettiva tradizionale, in virtù della quale solitamente i poeti preconizzano la propria gloria futura (è il caso del finale delle Metamorfosi: nomenque erit indelebile nostrum); in ex P. IV

25 Si confronti, come esempio dell’idea tradizionale, la formulazione di P

ROP. III 1.21 ss., nei confronti della quale, fra l’altro, l’esule dimostra di possedere non pochi debiti: at mihi quod vivo detraxerit invida

turba, / post obitum duplici faenore reddet Honos. / omnia post obitum fingit maiora vetustas: / maius ab exsequiis nomen in ora venit […] meque inter seros laudabit Roma nepotes: / illum post cineres auguror ipse diem; sull’originalità dell’elaborazione properziana (e sulla duplice ‘citazione’ ovidiana del v. 24 di

quest’elegia), cfr. WIMMEL 1960, pp. 218 s.; sul passo di Tr. IV 10 si veda in generale l’analisi di CICCARELLI 1997, pp. 85 ss.

26 La differenza di ‘ispirazione’ fra i due passi è notata da N

AGLE 1980, p. 163: «the opening of P. 4.16 inverts the boast of Tr. 4.10 to a complaint»; sulla concomitanza di più temi in ex P. IV 16, cfr. già quanto osservato da PARATORE 1959, p. 198: «l’intreccio faticoso di schemi e di scopi su cui l’elegia è tramata giunge alla sua massima ricercatezza nella sottile cangianza di spunti con cui il poeta vuol dar a divedere d’essere già sostanzialmente morto» (sul confronto con Tr. IV 10, si veda inoltre da p. 197); sull’ambiguità generata dall’intreccio dei temi nei versi iniziali di ex P. IV 16, cfr. il comm. di HELZLE

16, al contrario, l’ormai defunto Ovidio può sorprendentemente formulare un giudizio definitivo circa il proprio passato e ricordare il successo conseguito già durante la vita (vv. 3 s.: et mihi nomen / tum quoque, cum vivis adnumerarer, erat), mentre la fama futura sembra garantita da quella che risulta la ‘norma’ tradizionale (famaque post

cineres maior venit). Nonostante dunque il tono dimesso e l’accorato appello dei versi

finali, nell’elegia conclusiva delle ex Ponto Ovidio riconosce senz’altro la propria fama tanto passata quanto futura.27

Nel contesto ora delineato si inserisce, fra i primi due e gli ultimi tre distici, il lungo e articolato catalogo dei poeti contemporanei a Ovidio: ben ventisette nomi (ma sarebbero potuti essere di più, dal momento che ve ne sono alii, quorum mihi cuncta referre /

nomina longa mora est, come afferma il poeta ai vv. 37 s.), la cui pressoché totalità

«qualify for footnotes in modern literary histories of Rome»;28 parte di questi poeti risultano a noi noti solamente grazie a questa elegia, e di alcuni nomi non è sicura nemmeno la grafia. L’esule tuttavia li nomina a dimostrazione della propria fama (vv. 45 s.):

dicere si fas est, claro mea nomine Musa atque, inter tantos quae legeretur, erat.

Anche in Tr. IV 10, nel passo sopra riportato, Ovidio parlava dei grandi poeti della sua epoca (v. 125: nam tulerint magnos cum saecula nostra poetas): in quel caso si trattava tuttavia dei ‘predecessori’, i poeti della generazione precedente la sua, nominati nel corso di quella stessa elegia (vv. 41 ss.: Macro, Properzio, Pontico, Basso, Orazio, Virgilio, Tibullo, Cornelio Gallo); come abbiamo visto, al termine del componimento Ovidio si dichiarava – sulla base, per lo meno, dell’altrui giudizio – «non inferiore a loro» (vv. 127 s.: non minor illis / dicor): ancora una volta, il catalogo dei poeti veniva reso funzionale all’autocelebrazione, all’orgoglioso accostamento del proprio nome accanto a quello degli altri grandi. Nel caso di ex P. IV 16, non è sicuro che la volontà di Ovidio sia quella di fornire una cupa immagine della decadenza della letteratura nel

27

Cfr. quanto notato da HELZLE 1989 nel comm. all’elegia (p. 180): «this paradox of the speaker being dead and yet speaking may well derive from a common feature found on epitaphs where the dead person buried in the tomb addresses the passer-by» (segue l’opportuna citazione di CALL. Epigr. 21).

28 T

periodo tra la fine del principato di Augusto e l’inizio dell’età tiberiana;29 ciò che va segnalato risulta piuttosto la persistenza del nome di Ovidio, che trova un posto di spicco entro un nuovo catalogo di poeti: nonostante il passare delle generazioni, il

nomen di Nasone (che in ex P. IV 16 viene ben risaltato al primo verso) continua a

sopravvivere, al di sopra e al di là della lunga serie di altri nomi, appartenenti a poeti di cui è l’opera dell’esule (almeno per noi) a conservare memoria e su cui è Ovidio (attraverso lo ‘stravolgimento di prospettiva’ sopra menzionato, in virtù del quale il poeta, presentandosi come ormai defunto, retrospettivamente considera una realtà data come ormai passata: cumque foret Marsus…) a formulare il giudizio finale.

Il gesto attraverso cui in ex P. IV 16 l’esule affida alla poesia la conservazione del proprio nome si ricollega alla riflessione sul potere eternante dei carmina svolta – non a caso – nell’altro componimento ‘metapoetico’ dell’ultimo libro inviato dall’esilio, l’ottava elegia, il «proemio al mezzo» di ex P. IV.30 Rivolgendosi direttamente a Germanico, che in quanto poeta sa apprezzare il servizio reso dal ‘collega’ (v. 67: non

potes officium vatis contemnere vates), Ovidio rivendica il ruolo fondamentale giocato

dalla poesia nella conservazione e nella memoria delle grandi imprese della storia, oltre che dei nomi di chi quelle imprese ha compiuto (vv. 51 ss.):

scripta ferunt annos: scriptis Agamemnona nosti, et quisquis contra vel simul arma tulit.

quis Thebas septemque duces sine carmine nosset, et quicquid post haec, quicquid et ante fuit? di quoque carminibus, si fas est dicere, fiunt,

tantaque maiestas ore canentis eget. sic Chaos ex illa naturae mole prioris

digestum partes scimus habere suas;

29 Così ancora T

ARRANT 2002, ibid.: «the poem also maps in crushing detail the decline in poetic talent (except for Ovid himself) between the start of Augustus’ principate and its final decade»; senz’altro da rifiutare l’idea, avanzata da NAGLE 1980 (p. 164), secondo la quale l’apostrofe al Livor in ex P. IV 16 sarebbe dotata di una funzione apotropaica; ad una migliore conclusione giunge invece HELZLE 1989 nel suo comm. all’elegia (p. 181): «what appears to be the batting-order of a cricket-match […] should have Ovid at the top […] because he is the first among them as to poetic achievement and fame».

30 Così G

ALASSO 2008b, che fornisce la migliore analisi del componimento finora esistente, individuandone i modelli letterari e le ragioni ‘storiche’ (Ovidio sceglie di riporre la propria fiducia in Germanico); sulla stretta corrispondenza fra ex P. IV 8 e 16, cfr. quanto osservato dallo studioso a p. 6: «questa elegia [= ex P. IV 8] va considerata in connessione con l’ultimo componimento (16) e l’espressione di certezza nella sopravvivenza del poeta in quanto tale che esso ci presenta».

sic adfectantes caelestia regna Gigantas ad Styga nimbifero vindicis igne datos; sic victor laudem superatis Liber ab Indis,

Alcides capta traxit ab Oechalia;

et modo, Caesar, avum, quem virtus addidit astris, sacrarunt aliqua carmina parte tuum.

In questo passo troviamo forse la formulazione più completa di un aspetto centrale e decisivo della poetica ovidiana nel suo insieme: l’affermazione della superiorità della finzione (in questo caso, della letteratura) sulla realtà.31 Nell’intento di riaffermare l’importanza della poesia in quanto unico mezzo in grado di rendere eterni i nomi e gli eventi della storia (così è stato per Agamennone e la guerra di Troia, per la battaglia dei sette a Tebe e gli avvenimenti ad essa correlati), l’esule si spinge oltre, riconoscendo alla poesia il potere di creare nomi ed eventi; addirittura gli dèi ‘esistono’ grazie ai poeti (di quoque carminibus … fiunt), che attraverso il canto ‘attualizzano’ e rendono ‘reale’ la loro maiestas. La poesia rende ‘conoscibile’ il corso della storia, il susseguirsi degli eventi a partire dal Caos primigenio; e se c’è una poesia in particolare che ha programmaticamente voluto narrare gli eventi prima … ab origine mundi (Met. I 3), bisognerà senz’altro guardare proprio alla poesia di Ovidio, che nel poema sulle forme mutevoli ha per l’appunto preso le mosse dalla rudis indigestaque moles (I 7) dell’antico Caos. Alla storia universale raccontata nelle Metamorfosi si aggiunge ora un altro tassello, che in quel poema veniva soltanto preannunciato e che adesso –

31

La dialettica tra finzione e realtà costituisce per l’appunto un tema portante di tanta parte della produzione ovidiana; per limitare l’esemplificazione alle Metamorfosi, risultano ben noti passi quali i seguenti: est antrum nemorale […] / arte laboratum nulla: simulaverat artem / ingenio natura suo (III 157 ss.: il tradizionale rapporto di subordinazione dell’arte rispetto alla natura viene stravolto, nella misura in cui ora è piuttosto la natura a farsi imitatrice dell’arte); est specus in medio, natura factus an

arte / ambiguum, magis arte tamen (XI 235 s.: il confronto tra ciò che è ‘reale’ e ciò che invece è

‘artificiale’ si risolve a vantaggio di quest’ultimo); su questi aspetti della poetica e dell’estetica ovidiane, fondamentale ROSATI 1983 (cfr. soprattutto, alle pp. 68 ss., la sezione intitolata ‘Una poetica della letterarietà’; alle pp. 84 ss. viene citato e commentato il nostro passo di ex P. IV 8); da vedere anche il precedente ROSATI 1979 (cfr. ad esempio quanto osservato a p. 106: «ciò che Ovidio afferma […] non è tanto un rifiuto della poesia di accogliere in sé il reale, di fare spazio alle cose della vita, bensì la sua ostinata determinazione a non farsene tiranneggiare. Egli non si cura di negare in assoluto un’osmosi tra realtà e letteratura: protesta però il diritto di quest’ultima all’infedeltà, alla licentia, alla phantasia»); un recente riesame del passo di ex P. IV 8 si trova in MCGOWAN 2009, pp. 25 ss.

nonostante l’augurio che il poeta allora formulava32 – si è effettivamente verificato: la morte e la conseguente apoteosi di Augusto. Ancora una volta, alla consacrazione dell’evento hanno contribuito i carmina – ancora una volta, in particolare, i carmina di Ovidio: se nel passo di ex P. IV 8 sopra riportato sono per l’appunto registrati tanto l’evento quanto il nome (non è un caso, a mio parere, che proprio al v. 63 Ovidio utilizzi, rivolgendosi a Germanico, l’appellativo ‘generico’ Caesar), l’esule ha inoltre composto più di un’operetta avente per argomento l’apoteosi del defunto imperatore, come ricaviamo da alcuni passi di ex P. IV;33 anche la sopravvivenza del nome e delle gesta di Augusto dipende pertanto dalla loro inclusione entro le opere dei poeti.

Ad essere ‘immortalato’ dall’esule non è tuttavia soltanto il nome dell’imperatore; anche i numerosi destinatari delle epistole, cui nelle ex Ponto – a differenza che nei

Tristia – Ovidio si rivolge nominandoli direttamente,34 possono vedere i propri nomi consegnati all’eternità. Per rimanere ancora al libro quarto delle ex Ponto, nell’ultima raccolta ovidiana compaiono alcuni nuovi destinatari assenti nei libri precedenti: fra questi, il poeta epico Cornelio Severo, il cui nome non aveva ancora ricevuto menzione nei libelli dell’esule (IV 2.1 ss.):

quod legis, o vates magnorum maxime regum, venit ab intonsis usque, Severe, Getis; cuius adhuc nomen nostros tacuisse libellos,

32 In Met. XV il poeta auspicava (invocando praticamente tutti gli dèi) che Augusto abbandonasse la terra

soltanto dopo la sua morte (vv. 868 ss.): tarda sit illa dies et nostro serior aevo, / qua caput Augustum,

quem temperat, orbe relicto / accedat caelo faveatque precantibus absens.

33 Di un carmen de caelite recenti inviato a Roma parla Ovidio in ex P. IV 6.17 s. (quale tamen potui, de caelite, Brute, recenti / vestra procul positus carmen in ora dedi), così come pure in IV 9.131 s.,

rivolgendosi direttamente ad Augusto asceso al cielo (perveniant istuc et carmina forsitan illa, / quae de

te misi caelite facta novo); la seconda operetta, che fra gli altri argomenti avrebbe contenuto anche una

sezione didascalica – il verbo utilizzato in ex P. IV 13.25 è per l’appunto docui – sul fenomeno dell’apoteosi, è costituita dal Geticus libellus, di cui si è discusso supra, p. 54. In generale, c’è da notare che, se è lecito nutrire dubbi a proposito dell’operetta in getico, non può valere lo stesso per quel che riguarda i componimenti che Ovidio afferma di aver inviato a Roma (oltre al carmen sull’apoteosi di Augusto, va menzionato anche il poemetto sul trionfo pannonico di Tiberio di cui l’esule parla soprattutto in ex P. III 4): risulterebbe infatti quantomeno controproducente per Ovidio (e non avrebbe nemmeno senso) affermare il falso dicendo di aver composto e inviato opere che i destinatari di Roma mai videro giungere; cfr. a questo proposito KNOX 2009b, p. 209: «that Ovid did produce occasional verse is certainly credible».

34 Si tratta della principale differenza fra le due opere dell’esilio, posta in immediata evidenza

nell’epistola proemiale delle ex Ponto (I 1.17 s.: rebus idem, titulo differt; et epistula cui sit / non

occultato nomine missa docet); sulla differenziazione così istituita rispetto ai Tristia, cfr. da ultimo

si modo permittis dicere vera, pudet.

orba tamen numeris cessavit epistula numquam ire per alternas officiosa vices.

carmina sola tibi memorem testantia curam

non data sunt: quid enim, quod facis ipse, darem?

In questo passo viene operata un’interessante distinzione fra le lettere in prosa (private) che l’esule afferma di aver inviato a Severo e i carmina, vale a dire le epistole poetiche raccolte nei libelli e dunque pubblicate: naturalmente, le due forme di comunicazione non possono avere lo stesso valore, dal momento che soltanto i carmina sono in grado di ‘farsi (pubblici) testimoni’ (testantia) del rapporto che lega il destinatario all’esule.35 La funzione di ‘testimonianza’, che l’esule assegna alle proprie epistole in versi, viene rilevata con una certa frequenza nelle ex Ponto; in un’epistola indirizzata a Cotta Massimo il poeta parla del comune amico Celso, recentemente scomparso, e ne stende l’elogio, concludendo infine quanto segue (I 9.43 s.):

carmina iure damus raros testantia mores, ut tua venturi nomina, Celse, legant.36

Così pure, in una lettera indirizzata a Grecino, dopo aver nominato le canoniche coppie di amici consacrate dal mito e comunemente ammirate (Oreste e Pilade, Teseo e Piritoo), Ovidio ‘consacra’ a sua volta – accanto al proprio – il nome dell’amico fedele (II 6.29 ss.):

tu quoque per durum servato tempus amico dignus es in tantis nomen habere viris. dignus es et, quoniam laudem pietate mereris,

non erit officii gratia surda tui.

crede mihi, nostrum si non mortale futurum est carmen, in ore frequens posteritatis eris.

35

Sulla possibilità che le epistole poetiche fossero realmente inviate ai singoli destinatari, cfr. FROESCH

1968 (pp. 109 ss.), che discute la differenza «zwischen dem unliterarischen oder vorliterarischen “echten” Brief […] und der “literarischen Epistel”, dem Kunstbrief».

36 G

Naturalmente, quella di ‘eternare’ i nomi degli amici non costituisce una scelta disinteressata da parte dell’esule: nel caso di ex P. I 9, i rari mores del defunto Celso devono fungere da esempio per il reale destinatario dell’epistola, Cotta Massimo, il cui nome – non a caso – veniva costantemente pronunciato dallo stesso Celso nel tentativo (riuscito) di consolare l’amico condannato e di individuare la persona che si sarebbe maggiormente preoccupata di risollevare il suo caso (vv. 25 ss.: vox tamen illa fuit

celeberrima: ‘respice, quantum / debeat auxilium Maximus esse tibi. / Maximus incumbet, quaque est pietate, rogabit, / ne sit ad extremum Caesaris ira tenax; / cumque suis fratris vires adhibebit, et omnem, / quo levius doleas, experietur opem.’ / haec mihi verba malae minuerunt taedia vitae: / quae tu ne fuerint, Maxime, vana cave); nel caso

invece di ex P. II 6, l’aiuto che Grecino ha fornito all’esule e in virtù del quale il suo nome ha meritato di essere reso immortale deve continuare a sussistere senza mai cessare (vv. 35 ss.: fac modo permaneas lasso, Graecine, fidelis, / duret et in longas

impetus iste moras. / quae tu cum praestes, remo tamen utor in aura, / nec nocet admisso subdere calcar equo). In questo senso si realizza pertanto il ‘negoziato’ fra

l’esule e i suoi destinatari, uno scambio di favori che il poeta continua ad invocare dalla prima all’ultima raccolta dell’esilio.37

Come si anticipava, tuttavia, solamente nelle ex Ponto questo ‘negoziato’ si fonda sui